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Cristo contro Jung e Freud
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La regola aurea professata da una gran parte di psicologi e psicoterapeuti, e che viene spacciata come il primo gradino da superare per poter rimettere in marcia un’esistenza problematica, è quella di comprendersi ed accettarsi per come si è, senza però giudicarsi mai per le azioni compiute. Tale impostazione pedagogica non è sbagliata in assoluto, dato che gli errori vanno certamente perdonati, altrimenti la vita sarebbe un perenne incubo a cui l’uomo non potrebbe sottrarsi, ma conduce ad un grave malinteso nel momento in cui vi è un rifiuto di insegnare all’uomo (in questo caso al paziente), come migliorarsi o superarsi; la cura rimane ferma nel farci capire chi siamo per rimanere come siamo, perché “non possiamo fare nulla per cambiare noi stessi e la nostra natura”; al massimo potremo cercare di aggirarla negando in verità noi a noi stessi attraverso un nascondimento disperato e votato costantemente all’infelicità, o tutt’al più potremo cercare di imbrigliare questa nostra natura, subendone al contempo i tirannici richiami come una barca sbattuta sugli scogli, per poter vivere all’interno della società civile evitando di infrangere le regole che essa odiosamente ci impone. L’uomo però, a tale stregua, si trasforma in una pentola a pressione ambulante, che rischiando di implodere si vede costretto ad andare incessantemente al di fuori di sé (voglio vedere, voglio partecipare, voglio sperimentare) alla ricerca di valvole di sfogo sempre più consistenti.

Se la psicanalisi, come vediamo, aiuta l’uomo a prendere coscienza delle sue patologie psichiche, ma non può far nulla per farlo uscire fuori da queste, anzi, spesso non solo insegna ad accettarsi come si è ma addirittura spinge l’uomo a praticare il male morale per liberarsi dalle sue patologie, l’ascetica cristiana, maestra di vita e palestra quotidiana di miglioramento, ci indica una via opposta, la quale insegna, progressivamente e con sforzo diuturno, a far riacquistare all’uomo sé stesso anzitutto come dono al prossimo e, ai livelli più eccelsi, all’amore di sé stesso come dono a Dio. Anche nel percorso ascetico, pertanto, l’accettazione di sé è un passaggio fondamentale, ma viene essa vista come un mezzo, una condizione di partenza per consentire alla grazia divina di poter iniziare ad agire in noi e a noi di poter iniziare a cooperare liberamente con essa.

Nonostante l’uomo vada soggetto al dolore ed alla sofferenza, tale condizione non deve essere ritenuta invincibile e non deve essere vista come uno “spettro” da rimandare indefinitamente (alla morte è difatti salutare pensarci di tanto in tanto) ma deve essere sfruttata per il meglio, mantenendo l’equilibrio permesso dalla volontà (libero arbitrio) che ci fa stare costantemente in bilico tra lo spirito divino e il desiderio delle passioni. Solo nel pensiero cristiano, non certo nella psicanalisi, viene proposta la soluzione a questo difficile presupposto che è la nostra esistenza e senza il quale l’uomo può restare annichilito (la dimora terrena, dice la Scrittura, deprime la mente con i suoi molti pensieri) poiché in esso si insegna che il fondo delle cose è essenzialmente buono e nient’altro che buono (Gen. 1, 31); la limitazione nella perfezione che la creatura porta con sé non è male di per sé, ma è semplicemente il segno della sua condizione di esistenza (se difatti ci incaponissimo a non voler accettare un difetto che abbiamo, un avvenimento che si è prodotto nella nostra vita, allora perderemmo la pace). Lo spiega S. Tommaso con profonda sapienza stabilendo che «la Provvidenza non esclude totalmente il male dalle realtà creaturali» (Contra Gent. III, 71); questi difetti e manchevolezze non si riferiscono altro che alla defettibilità delle cause seconde, come avviene ad un uomo che, pur essendo forte e robusto, zoppica perché la gamba gli è corta o storta.

È qui che si rivela tutto il senso del sacrificio offerto dal «Servo di Jahvé», dal quale ci scaturì la grazia divina, e che ha un suo speciale valore rigenerativo per noi tutti, presi singolarmente. Come «uomo di dolori», che condivise con noi il patire e si assoggettò volontariamente alle conseguenze del peccato, ovvero alla legge dell’infelicità come insegna San Bernardo, Egli può dire qualcosa di unico a tutti coloro che sono toccati dal “sovrano del mondo” (le passioni) e che rischiano di trovare in questo tocco non la forza che sboccia nel resistervi e la speranza della rigenerazione, ma la disperazione, che spezza le più intime fibre del cuore.

Isaia ci insegna che in tutte queste angosce, che sono proprie degli uomini, Dio stesso si fece angosciare, cioè si associò alle loro pene, ne ebbe compassione e porse loro aiuto mandando l’Angelo della sua faccia, ovvero Gesù. L’opera di redenzione, che Egli compie con la sua morte sostitutiva, non è quindi un semplice fatto storico e non ha soltanto un contenuto dottrinale, bensì tale morte irradia un valore psicologico-morale che agisce nell’uomo per compiere in lui la salvezza. «Noi tutti andavamo errando come pecore sbandate, ognuno di noi seguiva la sua propria strada» dice Isaia, non potendo spiegar meglio l’opera disgregativa del peccato, nell’uomo personalmente e negli uomini tra loro, e che Dio venne a ricucire.

Purtroppo l’epoca attuale è stata sconquassata dalla totale negazione e quindi dal totale smarrimento dei princìpi sovrani dell’ascetica — al punto da domandarsi se non sia proprio questa l’apostasia dell’uomo di cui ci parla San Paolo; la conseguenza più diretta di tale abbandono è una profondissima ignoranza sul motivo e fine ultimo della nostra esistenza terrena e il non saper più come fare buon uso della libertà che Dio ci ha elargito, libertà per la quale abbiamo in noi una prerogativa divina avendo Dio fatto a sua immagine le creature razionali, ovvero con la facoltà del libero arbitrio, che abbiamo in comune con Lui (quale dignità può vantare l’uomo!). La larvaggine ontologica conseguente a questa ignoranza, teorica e pratica, nella disperata ricerca di una scappatoia lenitiva, ha sostituito al realismo ascetico la psicanalisi, che però nega radicalmente l’esistenza di Dio e l’idea del peccato e, quando lo può, avversa vieppiù la religione ritenendola non un fonte di salvezza efficace, ma un potenziale crogiolo di patologie psichiche, derivanti, ad esempio, dal rinunziare al piacere sessuale per amor di un ideale divino.

Richard Wagner
  Locandina di BeTipul
Il mondo è ormai dominato da questi princìpi distruttivi, e la diffusione della pratica psicanalitica è di fatto una realtà totalizzante: sempre più persone, soprattutto tra i ragazzi, si affidano senza più vergogna o ritrosia alle cure dello psicoterapeuta al posto di quelle del sacerdote, un fenomeno dilagante anche in quegli strati della società dove fino a poco tempo prima vigeva una qualche forma resistenziale dettata dal buon senso (pensiamo ad esempio ai piccoli agglomerati urbani lontani dalle grandi città). Il mezzo televisivo ha certamente favorito tale sprigionamento, basti pensare alla spinta con la quale in tv vengono sponsorizzati programmi dove è costante la presenza dello psicologo, o la pervicacia con cui viene trasmessa la noiosissima serie dal titolo In Treatment, interpretata da Sergio Castellitto, ma che in realtà è un rifacimento di una serie televisiva israeliana dal titolo BeTipul, che narra le vicende private e professionali di uno psicologo ebreo… la cosa non sorprende.

La vera Pace dell’anima


Nel tentativo di fare qualcosa di concreto per proporre un qualche tipo di soluzione, non fermandoci alle sole parole, pubblichiamo oggi un piccolo trattato dal titolo Spiritualità contro Psicoterapia scritto da don Curzio Nitoglia, attraverso il quale viene messo bene in risalto, con la classica chiarezza che contraddistingue gli scritti di questo sacerdote, quali siano le differenze tra l’approccio della psicoterapia freudiana e quello di una sana e concreta teologia ascetica, per dimostrare che solo quest’ultima può aiutare l’uomo a guarire dalle sue “malattie”. La differenza tra spiritualità e psicoterapia è difatti totale, come lo è quella tra Dio e satana. Infatti la psicoterapia vuol far riaffiorare nella mente del paziente tutti i ricordi del passato nei minimi dettagli, mentre la spiritualità ci insegna che il male morale, una volta confessato e vinto, non deve più tormentarci, è cancellato dal Sangue di Gesù e sarebbe pericoloso ripensarvi poiché farebbe rinascere in noi le tentazioni e potrebbe riportarci al “vomito” o all’antica sporcizia.

“Oggi – scrive l’autore – non ci si vuol confessare più, si nega il valore del sacramento della confessione istituito da Gesù, ma resta il bisogno di aprirsi e allora si va in televisione o dallo psicoterapeuta pagandolo profumatamente e si dicono le cose più segrete che non si vogliono dire al prete, che agisce gratis et in persona Christi e che non solo non deve ricordarsele più, ma ha il potere soprannaturale di cancellarle e di portarci pian piano alla guarigione dello spirito individuando il difetto che ci opprime e poi dandoci i rimedi spirituali e soprannaturali che ci aiuteranno a guarire dalle nostre infermità morali e spirituali”.

Vivere con certezza e fiducia, bandire la paura, non rimandare l’azione 

[*per azione qui non si intende il moto dell’agire quasi fosse una spinta rivoluzionaria, ma quell’opera manifesta, quel realizzare con volontà buona con la quale Dio, attraverso la grazia gratuitamente data ma per mezzo nostro quali commilitoni e collaboratori, si fa e ci fa conoscere all’esterno. Tutto si fa nel libero arbitrio, ma tutto deriva dalla grazia dice S. Bernardo]


Questa è la triplice regola aurea, opposta a quella di apertura articolo, attorno alla quale don Curzio ha costruito il suo libricino di vera e pratica spiritualità, attraverso il quale indicherà ai lettori i mezzi concreti di vittoria su noi stessi e sulle nostre paure, proponendo soluzioni e scartando ipotesi deleterie. Già grandi dottori (è il caso di san Bernardo) indicavano la via di salita dell’uomo richiamando identici concetti, ovvero: dignità da cui scaturisce la volontà (certezza e fiducia), scienza da cui proviene la conoscenza (di sé e della verità, che scaccia la paura dell’ignoto), da queste due virtù deriva l’azione come frutto, l’azione libera sgravata da paure ed angosce.

L’uomo libero dalle paure (dell’ignoto, della morte, della solitudine, etc.) può sapere e può volere con libertà; per il cristiano è una obbligazione che reca molto impegno ma anche grandi soddisfazioni: conoscendo il suo ‘status’ ed il suo rapporto con Dio come vocazione, nel scoprirlo guadagna libertà di azione e può lanciarsi nell’amore vero e nel vero apostolato.

Un cristiano ripieno di Gesù Cristo, scrive don Nitoglia nel suo libro, non teme più nulla al mondo (…) intelligente e libero, cosciente della sua natura e del suo ruolo, non deve sminuirsi né vergognarsi mai”.

Per quale motivo? Perché la grazia del Signore, risanando la natura, anzitutto apre l’occhio del cuore affinché veda e ami il vero bene; poi affinché efficacemente trovi questo bene ma in Dio; infine affinché a Lui ordini tutta la sua vita. Lo spiega San Tommaso con profondo valore psicologico nel suo Commento alla Metafisica di Aristotele:

“Nella condizione in cui l’uomo oggi si trova, a causa del peccato originale, egli tende a chiudersi nella ricerca di un bene privato che può dargli una certa soddisfazione, ma non procurargli la vera perfezione di tutto sé stesso. Ciò che in sé è veramente bene non apparisce più tale ai suoi occhi, offuscati dalla nebbia torbida della passione; corre dietro a ciò che lo seduce e sempre più lo allontana dal suo scopo: gli sembra bene perché lo brama, non perché realmente lo sia. Così rimane pervertito il giudizio della ragione: svanisce il senso del bene onesto e la vita si degrada nella corsa del dilettevole o nella lotta dell’utile, dando origine ad una egoistica morale utilitaria o ad una concezione estetica dell’esistenza, che tutto divora nella fornace ardente di una insaziabile cupidigia”.

San Tommaso ci insegna qui che l’uomo, quando si allontana dal vero bene, viene riversato al di fuori di sé, dove, abbandonando i perenni beni del regno di Dio che sono dentro di lui, va cercando una vana consolazione nelle vanità e nelle insanie dell’errore. Notare che non si curerebbe con tanta spesa il corpo come oggi si fa fino alla psicosi (attraverso esercizi quali lo yoga ad esempio, moda dominante e profondamente distruttiva) se prima non fosse stata trascurata la mente non coltivata dalle virtù.

Questa è la misera condizione di un’anima che crede di poter essere più felice abbandonando Cristo, ad imitazione del figliol prodigo che uscì dalla casa del padre con tale intenzione. Quest’anima, al par di quel figliolo, diventa miserabile; e per uscire dallo stato sciagurato in cui si è volontariamente gettata, bisogna che pensi Dio a ricondurla sulla retta via e così guarirla. È quanto descrive S. Agostino nella sue Confessioni quando dice: Oh! Vie perdute!, guai all’anima audace che, allontanandosi da te, mio Dio, spera di trovar qualche cosa migliore di te. Ha un bel voltarsi e rivoltarsi da ogni parte; ovunque non trova che inquietudine e dispiaceri, perché tu solo sei il nostro riposo e non sei lontano da noi”.

Vivendo in un’epoca come la nostra, può capitare di sperimentare la dolorosa esperienza di qualche parente stretto che ha imboccato una via perduta senza nemmeno rendersene conto; al giorno d’oggi sono vie talmente spianate che vengono considerate la normalità e non ci si fa nemmeno più caso; purtroppo più il tempo passa più la strada del ritorno si fa insicura e difficoltosa, perché restringendosi il regno del peccato si amplia proporzionalmente il regno della grazia, ma anche viceversa. Il presente libricino di don Curzio può fare realmente qualcosa di concreto per aiutare sensibilmente queste persone.

Lasciare il male, rientrare in te, far ritorno a Dio sono i tre gradini, sono il trittico sul quale la dottrina cristiana riconduce l’uomo alla sua vera natura.

È l’esortazione di Isaia di entrare nelle nostre stanze e chiudere le porte e nascondersi un breve momento, poi ripresa da Gesù (Matt., 6, 6) e per la quale anche S. Agostino spiegava che l’entrare nella stanza è come un raccoglimento nel penetrale della mente, e S. Caterina da Siena la traduceva come vita nella cella del conoscimento di sé e della bontà di Dio in sé.

È questo ritorno, sempre possibile anche se a volte difficoltoso, che prepara il riavvicinamento del nostro cuore a Dio.

Il libro di don Curzio è allora ordinato a proporre strumenti concreti e piccoli “stratagemmi” utili a praticare la via del ritorno, derivanti dall’esperienza cristiana vissuta, affinché la vita, già su questa terra, calcando un tal pantano, ciononostante conosca un suo primo splendore, e la nostra condotta abbia la sua rettitudine di santità costruttiva “nell’abbondanza della pace”, come un ordine fondato attraverso il sacrificio che rigenera. Le pene che accompagnarono la privazione della grazia nell’uomo (Gen. 3, 16-19) e che permangono in noi anche quando riacquistiamo la grazia e siamo ritornati nell’amicizia con Dio, hanno un certo valore di soddisfazione e di espiazione, destinato a fare trionfare la luce dello spirito sulle seduzioni inferiori del corpo mortale.

L’importante è sapere che la via della virtù, come ogni via del bene, implica crescita, sviluppo, maturazione, e ciò è frutto di un incontro continuo tra grazia divina (soprannaturale) e risposta umana (offerta e prodotta da intelletto e volontà). Bisogna costruire poco alla volta, ma continuamente e non a scatti, sulla costanza, sulla pazienza, sulla riflessione, sullo studio e sulla meditazione o colloquio quotidiano dell’animo con Dio.

Per concludere questa breve esposizione introduttiva, suggeriamo ai lettori il trattato di don Nitoglia – sufficientemente breve (140 pagine), splendidamente chiaro, sorprendentemente concreto – come un’opera pensata per tutti, anche per i più giovani, divisa in dodici capitoletti di grandissima utilità pratica.

È un testo schietto e diretto, che apre gli occhi della mente e del cuore di chi lo legge. Lo affidiamo nelle mani del nostro lettore, nella speranza possa giovargli e possa giovare a coloro che sono intorno a lui.

Lorenzo de Vita



(Spiritualità contro Psicoterapia, 140 pp. con bandelle)
 
12,00 euro
 
 



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