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E’ stata «Al Qaeda», naturalmente
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PAKISTAN - «Benazir Bhutto uccisa», scrive un lettore: «Rivendicazione di Al Qaeda. Che lettura darne?».

E’ troppo presto per capire.

Ma c’è chi ha capito già molto presto: anzi in anticipo.

Ma meno di mezz’ora dopo la notizia della morte di Benazir, il sito news.com.au, che è il portale del notissimo Rupert Murdoch (quello di Fox News e del Wall Street Journal, neocon ultra-israelita) già pubblicava un articolo con questo titolo (1): «Le forze speciali USA accresceranno la loro presenza in Pakistan, perché si valuta che il Paese sia destinato a diventare il campo di battaglia di Al Qaeda via via che essa è cacciata fuori dall’Iraq».

Il pezzo cita un rapporto di Stratfor (Strategic Forecasting, un think-tank molto vicino detto

«il braccio privato della CIA») preparato evidentemente molto prima dell’attentato alla Bhutto.

Vi si dice che «in quanto quartier generale globale della leadership di Al Qaeda, il Pakistan è stato una testa di ponte significativa nel campo di battaglia ideologico».

Data la «talibanizzazione che si espande nel nord-ovest pakistano», il Pakistan sta per diventare «specialmente importante».

Questa analisi di Stratfor, nota l’articolo australiano, «coincide» (guarda la coincidenza)

«con notizie da Washington che implicano che le forze speciali USA accresceranno la loro presenza in Pakistan nel nuovo anno»: presto, prestissimo, forse già a gennaio.

A questo scopo il capo dello US Special Operation Command, ammiraglio Eric T. Olson, ha già fatto una serie di visite per prendere accordi in questo senso con gli alti gradi pakistani.

Secondo il Washington Post, un accordo in questo senso coi pakistani (il generale Musharraf e i capi di Stato Maggiore) era stato raggiunto già a novembre.

L’ammiraglio William Fallon, comandante dell’US Central Command, aveva alluso a questo accordo in un’intervista con la Voice of America della scorsa settimana.

La settimana prima.

Preveggenza.

L’aumento di truppe non si improvvisa mezz’ora dopo l’annuncio di un attentato, e nemmeno una settimana prima.

Come non era improvvisata - ma pronta da tempo - l’invasione dell'Afghanistan, anche se il pretesto fu la rappresaglia all’attentato dell’11 settembre: in ottobre le truppe USA e della NATO erano già sul terreno, meno di un mese dopo.

E’ vero che l’11 settembre ci furono preparativi ancora più rapidi, anzi anticipati: la FEMA

(la protezione civile USA) era già là sul molo sotto le Twin Towers, con tutti i suoi uomini, medici paramedici e materiali di soccorso pesanti, la sera del 10 settembre.

Un caso fortunato, stavano preparandosi ad una esercitazione che avrebbero dovuto compiere proprio l’11.

 

Ma il portale di Murdoch, che sa di più, aggiunge: si ha notizia che un ambizioso piano di «anti-terror investment plan» per il Pakistan è stato il primo tema trattato dal vice-segretario di Stato John Negroponte nella sua recente visita d Islamabad.

Dunque tutto era pronto.

Mancava solo l’attentato, la nuova Pearl Harbour.

Del resto, qualche settimana prima ambienti USA avevano fatto sapere di ventilare un piano d’emergenza per impadronirsi delle testate atomiche pakistane, per scongiurare il rischio che cadessero nelle mani dei «fanatici islamici», se il regime Musharraf collassasse e il caos prendesse piede nel Paese.

Gli alti gradi militari pakistani avevano risposto con stupore e con rabbia.

Due giorni prima, gli USA avevano lasciato filtrare che 5 miliardi di dollari, dati a quegli stessi alti gradi per la «lotta al terrorismo», erano stati spesi dai gallonati pakistani per acquistare armi da usare un giorno contro l’India.

Finalmente, i gallonati pakistani hanno capito il messaggio: incombeva su di loro una «Mani Pulite» musulmana.

E hanno accettato l’arrivo di truppe USA.
Del resto Musharraf è abituato alle minacce della civiltà superiore occidentale: «O stai con noi o mandiamo il Paese alletà della pietra a forza di bombe», s’era sentito dire all’inizio della guerra globale al terrorismo, o guerra al terrorismo globale.

O terza guerra mondiale, come aveva annunciato Bush e ha ripetuto giulivo Gianni Riotta direttore del TG1, che ha i suoi amici alla Brookings.

E’ troppo presto per capire bene con quali gallonati pakistani sono alleati gli americani.

Che Musharraf sia dietro l’assassinio della Bhutto è improbabile, è il colpevole più sospetto del romanzo giallo - ma ciò può ricordare Putin, indicato come l’assassino della Politkovskaia e di quell’agente segreto di Londra.

Difatti, il regime di Musharraf in queste ore è indebolito e in pericolo.

Quali altri generali lo sostituiranno è da vedere.

Gli esecutori dell’attentato sono «Al Qaeda», nome di comodo dietro cui si affastella qualunque gruppo o follia strumentalizzabile: e il Pakistan non ne manca.

Naturalmente, si potrà dire che gli americani hanno previsto e si sono preparati in anticipo perché conoscono la situazione interna, e già da tempo ne sono allarmati.

Ma appunto, da troppo tempo hanno le mani in pasta nel Pakistan, per non sospettarli come mandanti.


Dopotutto, la Bhutto l’avevano rispedita in patria loro, per espandere la «democrazia».

John Negroponte (membro della Skull and Bones a Yale, insieme allo zio di Bush, William H.T.Bush, e a Porter Goss, già direttore della CIA) è uno dei più sperimentati esperti di guerra clandestina e senza regole, di sovversione e intelligence, di psicologia e bombe, dall’Honduras contro i sandinisti al Messico contro gli zapatisti.

Dove arriva lui c’è da aspettarsi il peggio.

La domanda, piuttosto, è come mai l’Amministrazione si getti in questa nuova apertura di fronte.


Il più probabile motivo - salvo correzioni e smentite - è il fallimento del tentativo di coalizzare

i regni arabi sunniti del Golfo contro l’Iran sciita: al contrario, l’Arabia Saudita e gli Emirati.

Al contrario, il re saudita Abdullah e i suoi satelliti emiri hanno invitato Ahmadinejad e gli hanno proposto «un patto di mutua sicurezza» (2).

Temono l’Iran, ma temono ancor più una guerra americana nel Golfo, commenta De Borchgrave (3).

Il 90% degli introiti degli emiri viene dal petrolio, e l’occlusione del Golfo petrolifero sarebbe la loro rovina; inoltre, con Teheran hanno intensi rapporti commerciali, che scavalcano le sanzioni imposte dagli Stati Uniti.

L’altra domanda è con quali forze il Pentagono pensa di accrescere lo sforzo, la nuova «ondata» (surge) che ha annunciato nelle difficilissime aree tribali pakistane.


Le truppe americane in Iraq sono sull’orlo della disintegrazione.

A Baghdad, un centinaio di soldati del 2do plotone della compagnie Carlie 1-26 si sono ammutinati nei giorni scorsi: persi cinque altri uomini per un ordigno esplosivo, hanno rifiutato di uscire di pattuglia adducendo che la loro rabbia non gli consentiva di operare in modo professionale: avrebbero fatto una strage.

E’ un evento che vale da sé solo un articolo, quando avremo tempo (4).

Un generale ha detto, sotto anonimato, al Christian Science Monitor: «Limpatto delle operazioni in Iraq [sul morale della truppa] comincia a dettare la strategia e non il contrario», e se si parla di migliorata situazione in Iraq e ritiro di alcune forze, è perché si è deciso di dare all’armata un sollievo, di alleviare lo stress del servizio, di ridurre la frequenza e la lunghezza degli impieghi in zona operativa (5).


La frase è altamente significativa.

Quando «non è la strategia a dettare le operazioni ma il contrario», ciò è sinonimo di sconfitta. La sconfitta comincia quando un esercito è costretto ad agire come può anziché come deve, quando i suoi obbiettivi sono ridimensionati in base ai mezzi che gli sono rimasti, e alla tenuta pericolante della sua truppa.

Allora le sue opzioni si restringono: ciò appunto è sinonimo di sconfitta.

Come si può mandare in Pakistan, adesso, un pezzo di esercito sconfitto, sull’orlo dell’ammutinamento?

Solo con la terza guerra mondiale, la mobilitazione totale e la leva in massa, e l’uso dell’arma estrema, forse.

O forse l’estensione del caos è la sola ed ultima strategia, il fine in sé?


Ma questo lo sapremo più tardi.

Magari Murdoch e i neocon lo sanno già.



Note

1) Bruce Loudun, «US military beefs up Pakistan force», NewsCom.au, 28 dicembre 2007. Ne ha parlato anche William Arkin sul Washington Post.

2) «La normalisation entre Riyad et Téhéran se poursuit», Réseau Voltaire, 24 dicembre 2007.

3) Arnaud De Borchgrave, «Dubai: Irans Hong Kong», Washington Times, 21 dicembre 2007.

4) Kelly Kennedy, «U.S. Soldiers Stage Mutiny, Refuse Orders in Iraq Fearing They Would Commit Massacre in Revenge for IED Attack», Democracy Now, 21 dicembre 2007. Kelly Kennedy lavora per Army Times, il periodico ufficioso dell’armata USA.

5) «Defaite de la guerre ou victoire du désordre?», Dedefensa, 24 dicembre 2007.


 
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