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Una bella lezione di storia: il «Vangelo nelle Americhe»
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«Un bella lezione di storia»: così Jean Dumont scrive nel libro Il Vangelo nelle Americhe che EFFEDIEFFE – a sèguito delle numerose richieste – è lieta di ripubblicare in una nuova veste grafica dopo diversi anni dalla prima edizione ormai andata da tempo esaurita.

Di quella che fu e resta la bellissima civiltà indo-cristiana, nata dalla conquista spirituale dell’America spagnola, non si troverà una parola, nei racconti che ci vengono abitual­mente proposti, che non sia di riserva o di disprezzo, rifiutandosi la storiografia comunemente accettata di far posto alla prodigiosa effusione di Grazia che è, in definitiva, il segno essenziale di questa Conquista. La storia dell’evangelo che spalanca le sue provvidenziali braccia agli indios e su cui il silenzio, la vergogna ingiustificata e l’ignoranza (soprattutto) sono calati per troppo tempo, è invece una stupenda realtà, che dovrebbe riempire di gioia tutti i cattolici ed essere di esempio per le future generazioni.

Una vicenda vivacissima, impregnata di quel tipico cattolicesimo Indiano che trova la sua massima incarnazione nell’Immaculada di Guadalupe che rappresenterà il Nuovo Sole dell’Incarnazione redentrice, innalzata con incredibile entusiasmo dagli stessi indigeni al posto del sole vecchio, nutrito – fino all’arrivo degli spagnoli – con migliaia di sacrifici umani ogni anno.

A Guadalupe «Dio ha fatto ciò che non ha fatto per nessun’altra nazione», disse papa Benedetto XIV. Anche secondo la puntuale analisi di Dumont contenuta nel libro, il culto della Madonna di Guadalupe, la sua realtà storica e religiosa e la sua diffusione, offrono «la perfetta confutazione delle false idee, in circolazione dovunque, sulla conquista spirituale dell’America».

La Vergine dei Naviganti
   La Vergine dei Naviganti, Alejo Fernández, Siviglia
Le folle indiane che ancora, ai giorni nostri, si accalcano sul sagrato della basilica di Guadalupe ed al suo interno, cantando la «perfetta e sempre vergine Maria, madre del vero Dio», non lasciano adito ad alcun dubbio. E sempre in Messico non è un caso che la straordinaria conquista d’anime avvenuta nel XVI secolo di cui parla questo libro condurrà, in epoca moderna, oltre quattro secoli dopo e nel pieno della sua maturità, alla formidabile sollevazione dei Cristeros contro il tentativo massonico di sradicamento del cattolicesimo da quelle terre.

È stupefacente dover constatare come, in America latina, la vera fratellanza plurirazziale – che in senso contrario (ovvero massonico) il mondo del XX secolo dice tanto di auspicare – fu realizzazione della Chiesa, restata a lungo esclusivamente sua e che tanto, ed in maniera lampante, si differenziò poi da quella protestante del Nord America.

Scrive Dumont a riguardo: «Se c’è un esempio di acculturazione riuscita, riccamente positiva, pur avendo rispettato l’originale Testamento degli acculturati, è proprio quella della conquista spiri­tuale dell’America, oggi latina, e particolarmente del Messico. L’America spagnola è proprio la sola delle Americhe dove, ancora oggi, la razza indiana e i suoi meticci costituiscono l’immensa maggio­ranza della popolazione».

La realtà dei fatti parla da sola: forse in nessun altro luogo come nell’America indiana, il Cristianesimo fu appassionatamente accolto come una Nuova Alleanza, tanto che sono numerosissime le testimonianze dell’epoca, riportate nel testo, atte a dimostrare come l’evangelizzazione fu operata dagli Indiani stessi, sotto il loro cielo di sempre, confermando ancora una volta, in un lampo di pura spontaneità, la liberazione che il cristianesimo offriva e portava loro.

I conquistadores furono accolti, da molti popoli indigeni, come l’aiuto decisivo che permise di liberarsi dall’oppressione che fino ad allora avevano subíto per mano di tirannici e sanguinari imperi pre-cristiani. Tant’è vero che tutta una scuola di storici messicani, sebbene di ispirazione fortemente laica ed ispanofoba, la Scuola Indigenista, afferma che la Conquista fu opera «meno di Cortés che non dei gruppi indigeni, stanchi della tirannia azteca e desiderosi di scuotersela di dosso, i quali si gettarono nelle braccia degli Spagnoli».

Scrive ancora Dumont:

«(…) la partita era stata rapidamente vinta dal cristianesimo indiano e rapidamente la resistenza religiosa precristiana aveva contato assai poco. Se gli Indiani restarono naturalmente impregnati della propria tradizione culturale, si aprirono, tuttavia, attivamente e appassionatamente alla civiltà cristiana. Che epopea fu quell’incontro, di cui le recenti storie della Chiesa non ci dicono nulla! Quasi dappertutto si ripete la sete indiana di cristianesimo; dappertutto investe le moltitudini e travolge la prudenza che i religiosi vorrebbero mantenere nell’amministrazione del battesimo».

I battesimi difatti, la maggior parte – fin quando fu possibile – praticati «a uno a uno» dopo controllo, per ciascuno, della conoscenza sulle verità fondamentali della fede, si susseguivano in serie immense tanto che «spesso i sacerdoti non riuscivano più a sollevare la brocca con la quale battezzavano, tanto erano stanche le loro braccia», come testimonierà all’epoca il francescano Torquemada.

Come riporta il Dumont:

«(…) Non sono soltanto i giovani Indiani a farsi evangelizzatori. Dappertutto il clero, che è spesso in numero insufficiente, si trova molto presto circondato di catechisti, predicatori, cantori, sagrestani, che sono Indiani adulti. (…) Alle prediche, gli Indiani accorrono con un tale fervore e un tale concorso che si è presi dall’ammirazione. La mattina delle feste, se ci sono due o tre o quattro prediche in differenti parrocchie, come può capitare, quando hanno finito di ascoltare la predica dì una parrocchia, essi vanno in un’altra, e poi in un’altra ancora, o da qualche altro prete che predica, ad ascoltare di nuovo i sermoni. Il pomeriggio, vanno ad ascoltare la predica che viene tenuta nella chiesa principale tutte le domeniche dopo il pranzo. Poi, quando questa è terminata, si precipitano di corsa sulla piazza principale, per ascoltarne ancora un’altra, tenuta da uno dei nostri. Finita questa nuova predica, vengono nella nostra chiesa per impararvi la dottrina cristiana. Questa viene loro insegnata con una trattazione più ampia, per domande e risposte. Tutti, tanto gli uomini quanto le donne, la apprendono con grande facilità e rapidità, a causa della passione che ci mettono».

Uno dei sotto-capitoli del libro è poi intitolato alla bella formula usata dai francescani di Florida-Georgia all’interno di un memoriale del 1612: sul continente indiano suonò, spesso prestissimo e quasi dappertutto, l’«ORA DI DIO», quella in cui «tutti gli Indiani desiderarono essere buoni cristiani».

Nacque difatti, e molto presto, tutto un folklore cristiano autenticamente indiano, una cristianità propria­mente indiana, che di lì a poco darà il via a numerose confraternite. E specialmente la profusione dell’arte indo-cristiana, di per sé stupefacente, è ancora lì a testimoniare in maniera mirabile un processo di conversione spontaneamente vissuto e sentito in profondità.

Come ho avuto modo di osservare anche personalmente durante un viaggio in Guatemala, alle cattedrali piene di offerte, scalinate cosparse di fiori e fedeli che attraversano in ginocchio le Chiese fino all’altare per lasciarvi il loro dono – spesso sotto forma di prodotto locale – fanno da contraltare le terrificanti piramidi che venivano usate per i sacrifici umani, ora meta turistica certamente di fascino, che le locali amministrazioni tanto si sono prodigate a far emergere dalle fittissime foreste in cui erano sprofondate. Tutti coloro che hanno visitato quei luoghi e quelle Chiese posso confermarlo: le opere d’arte religiose, sovrabbondanti di luce e di gioia, contrariamente alla sinistra arte azteca, forniscono – proprio attraverso quella gioia – la prova irrefutabile della liberazione umana portata dalla Conquista e dall’evangelizzazione.

È «la sete indiana di cristianesimo, nella concretezza di cento particolari commoventi e pieni di sapore» come scrive il Dumont. Un classico esempio di questa nuova arte, colma di stupefacente bellezza, è la chiesa di Santo Domingo, a Puebla; all’interno della Capilla del Rosario il pieno realismo spirituale delle figure angeliche che contornano le sue pareti non ha la minima origine religiosa precolombiana. È pura gioia cristiana, che scaturisce da una fre­mente, incontenibile, nuova scoperta. E sottolinea che il cristia­nesimo indiano fu, in buona parte, un cristianesimo della giovinezza. E non a caso, di tutte le arti cristiane, l’arte indo-cristiana è quella che dà maggiore spazio agli angeli, ai giovani angeli. Questi animano della loro esuberanza e dei loro volti espressivi interi monumenti.


Capilla del Rosario, Puebla, particolare


Secondo le numerose testimonianze dell’epoca, questi giovani angeli dallo sguardo gioioso non popolavano soltanto, innumerevoli, le sculture e i dipinti delle chiese: «Tutte le domeniche essi percorrevano, in carne ed ossa, le strade e i sentieri del Paese indiano. Gli uni erano solo l’immagine e la causa degli altri, angeli indiani, messaggeri del Dio cristiano».

Ancora il Dumont:

«Quanto alla qualità dell’arte indo-cristiana, essa raggiunge frequentemente i più alti livelli sia dell’arte popolare, sia dell’arte propriamente detta, sia della composizione decorativa.

Cosa c’è di più riuscito, come composizione decorativa, della chiesa del villaggio di Acatepec, nei pressi di Puebla, interamente ricoperta all’esterno di ceramiche dipinte ed istoriate, su di un’architettura a volte e pilastri disegnata specialmente per dare loro pieno effetto; ed interamente dipinta e dorata all’interno su sculture in basso ed altorilievo?

Che cosa di più degno della vera arte dei dipinti con i quali, nel 1562, il pittore indiano Juan Gersón ha ricoperto le volte della chiesa di Tecamachalco, nella stessa regione, e in particolare la sua così ben composta, disegnata e colorata "Visione di Dio e dei ventiquattro vegliardi", ispirata all’Apocalisse?

E che cosa di più bello e perfetto degli innumerevoli portali di chiesa scolpiti — come quello del villaggio di Tulpetlac, nello Stato di Messico — che farebbero la felicità in Europa di molte regioni meno ricche in architettura del Rinascimento e del Barocco?

Un Barocco che, qui, dà sistematicamente alla propria ornamentazione la stessa funzione che hanno le nervature nell’arte gotica: «dirigere lo sguardo verso il cielo», come nota l’autore della guida di Santo Domingo di Oaxaca».

Quelle Chiese, e quei piazzali, sono la testimonianza più verace ed incontestabile di una sacralizzazione cristiana della terra indiana spontaneamente avvenuta. Finalmente liberati dal gioco demoniaco della «sinistra ferocia azteca» (per limitarsi al solo Messico), ecco che cominciarono a fiorire tutte queste «magnifiche e allegre opere», la prova irrefutabile della liberazione umana portata dalla Conquista e dall’evangelizzazione.


Esempio di arte indo-cristiana: la Iglesia de San Fracisco, Acatepec


Come il Dumont non evita di spiegare, alcuni membri del clero si adagiarono negli agi della conquista, nella ricchezza, perfino nella licenza. L’emulazione tra missionari degenerò parzialmente in aspre lotte fra ordini religiosi, o fra questi e il clero secolare, i vescovi o i funzionari regi. Lotte che i viceré ebbero grandissime difficoltà ad arbitrare. Tutto ciò, come riporta il testo, è stato ben messo in evidenza da Robert Ricard in Conquête spirituelle du Mexique (Parigi, 1933). Ma si tratta di qualcosa che, in maggiore o minor misura, è proprio di ogni luogo e di ogni tempo, secondo il Dumont.

Ma è ben poca cosa di fronte all’ampiezza provvidenziale del faticoso lavoro apostolico, caritativo e culturale portato a termine in quelle terre; una liberazione cristiana assai vicina — nell’ordine laico e nell’ordine spirituale — al «più nobile tipo di crociata umana, universale e generosa che sia mai esistita». Ed ancora oggi, grazie a questa prodigiosa semina di conversione, il cattolicesimo indiano appare impressionante per senso del sacro e dono di sé, essenze di cristianesimo che nella nostra Europa stanno correndo il rischio di guastarsi.

Un giudizio che lo stesso Giovanni Paolo II aveva ribadito parlando il 14 maggio 1992 agli storici partecipanti al Seminario Internazionale sulla Storia dell’Evangelizzazione del Nuovo Mondo, organizzato dalla Pontificia Commissione per l’America Latina:

«Di fronte ai nuovi orizzonti che si aprirono il 12 ottobre 1492, la Chiesa [...] sentì il dovere perentorio di piantare la Croce di Cristo nelle nuove terre e di predicare il Messaggio Evangelico ai loro abitanti. Questo, lungi dall’essere una scelta arrischiata o un calcolo di convenienza, fu la ragione dell’inizio dello sviluppo dell’Evangelizzazione del Nuovo Mondo».

La nobile e cristiana dilezione verso gli Indiani è l’onore di tutto un popolo cattolico, di tutti noi, ed in primo luogo del popolo spagnolo in tutte le sue élites. Questo onore deve essergli reso dopo secoli di mistificazioni e bugie che larga parte presero piede anche in campo cattolico, tra coloro che vorrebbero la perenne autoflagellazione della Chiesa, la condanna globale del suo agire storico, la demolizione di ogni prospettiva di evangelizzazione.

La EFFEDIEFFE, nel proseguire la sua missione editoriale, spera che questo testo possa ora trovare una nuova diffusione, anche presso il clero che in larga parte ignora (quando non si vergogna di ricordare) una pagina di storia tanto luminosa. Una pagina che può servire, oltre a ristabilire la verità storica, anche a riproporre metodi corretti ed efficaci per un nuova conversione, anche di noi stessi perché – come scriveva il compianto editore Fabio de Fina – «non verremo a nostra volta salvati da nuovi galeoni spagnoli».

Lorenzo de Vita


Jean Dumont
  Jean Dumont
JEAN DUMONT (1923-2001) nasce a Lione dove si laurea in storia e filosofia. Quindi consegue la laurea in giurisprudenza a Parigi. Insieme a Régine Pernoud e a Philippe Ariès incarna la scelta – tipicamente francese – di svolgere la professione di storico al di fuori delle università, a contatto diretto e spesso itinerante con gli archivi. Per oltre quarant’anni, in qualità di direttore editoriale, ha curato collane storiche presso importanti editori francesi. In questa veste ha pubblicato – ma spesso anche ideato, commissionato, rivisto, annotato – oltre mille opere storiche, diventando un punta di riferimento imprescindibile per tre generazioni di cultori francesi della materia. Infaticabile ricercatore di inediti, ha ritrovato fra l’altro il salterio di Anna Bolena – un documento cruciale per la storia della Riforma – e gli archivi delle famiglie spagnole Valdes e Cervantes. Maestro capace di suscitare e di organizzare intorno a se il lavoro degli storici, Jean Dumont viene considerato uno storico di fama mondiale per le sue ricerche sulla vita religiosa soprattutto dei secoli dal ‘500 al ‘700 in Spagna, nelle colonie spagnole e in Francia. Particolarmente noti e autorevoli sono i suoi lavori sulla Inquisizione spagnola. Convinto della necessità di diffondere capillarmente la cultura storica e di sfatare i luoghi comuni propagati dalle ideologie, Jean Dumont ha raggiunto il grande pubblico con due best-seller: L’Église au risque de l’histoire (Criterion, Limoges 1982), una rassegna di «miti» sulla storia della Chiesa (da cui questo libro è tratto), e La Revolution française ou les prodiges du sacrilege (Criterion, Limoges 1984).


 

 
(144 pagine con bandelle, 12,60 euro)
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fino a lunedì 27 maggio


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Copyright Associazione culturale editoriale EFFEDIEFFE 


 
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