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Non c’è che dire
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Quando parlo di crisi, sia chiaro che mi riferisco solo in seconda battuta a quella che si preannuncia con il suo aspetto principale di carattere finanziario, e che si continua a dire scoppierà apertamente verso la seconda metà dell’anno.
La crisi decisamente più grave non è invece solo economica.
Se analizzassimo la politica estera della UE, dove è venuta meno anche la sempre più debole anomalia francese (eredità del gollismo), constateremmo che è nel loro piegarsi supinamente agli interessi USA il senso di una vera decadenza (certo ancora aurea) che ormai attanaglia i nostri Paesi.

Buona certo, ma solo temporanea, la decisione di Germania e Francia di opporsi all’entrata di Georgia e Ukraina nella NATO patrocinata dagli Stati Uniti (ma vengono ammessi altri Paesi est-europei), contraccambiata comunque dalla spiacevole decisione russa di lasciar passare sul suo territorio aerei, convogli, rifornimenti dell’organizzazione militare atlantica (subordinata agli interessi strategici americani) verso l’Afghanistan.

Senza dubbio, nell’ambito del declino europeo, l’Italia è in prima fila; e la crescita zero, l’inflazione (ridicolmente sottovalutata dall’ISTAT) in aumento, ecc. sono il sintomo più superficiale di una vera deficienza culturale; e quando uso tale termine non mi riferisco esclusivamente a ciò che i soliti «umanisti» intendono, bensì proprio al fatto che manca una cultura scientifica, moderna, poiché il Paese non sa affrontare né i problemi della nuova rivoluzione industriale né quelli
 - connessi ma non derivati immediatamente dai primi - di una ormai irrisolvibile incapacità  di tenere il passo con i Paesi emergenti nel mondo in questa nuova epoca tendenzialmente (non ancora attualmente) policentrica.

Solo gli sclerotici avanzi del vecchio «comunismo» credono che chi inneggia allo sviluppo, lo pensi quale panacea di tutti i mali e innesco della «rivoluzione» (quella per antonomasia); chi sa ragionare, comprende invece molto bene che lo sviluppo non porta ad alcuna rivoluzione (di «quel tipo»), ma è decisivo per assolvere il compito oggi più urgente: indebolire la predominanza centrale degli USA.
Chi crede che questa finirà per collassare a causa della crisi finanziaria (magari seguita da quella reale) è un superficiale ed un illuso.
Gli USA potrebbero divenire perfino più forti in seguito ad una crisi - se fosse soltanto economico-finanziaria - di intensità anche superiore a quella di altri Paesi avanzati o in netta ascesa (quali nuove potenze, pur ancora in pectore); così come del resto accadde dopo la «grande depressione» (1929-33).
Di questo comunque in altra occasione.

Qui interessa rilevare la gravità della situazione esistente oggi in Italia, scoppi o non scoppi, con maggiore o minore virulenza, la crisi (economica) incipiente.
Non sono in grado di fare il profeta su ciò che accadrà prossimamente, ma sento «a naso» che già fra 2-3 d’anni, o pochissimo di più, ci troveremo in un panorama sociale e politico abbastanza diverso (non sono però al momento prevedibili le caratteristiche del cambiamento, e i suoi sbocchi). Si «avverte qualcosa di nuovo» (non proprio piacevole) nell’aria, pur se è ancora largamente incerto quanto accadrà.
In tale panorama, sono convinto che la sinistra (soprattutto quella detta «radicale») giocherà un ruolo ultranegativo se non ci si deciderà a spazzarla via.
La sua mentalità del «politicamente corretto» - lassismo, permissivismo, antimeritocrazia, assistenzialismo, egualitarismo livellatore di ogni merito e impegno (egualitarismo che non ha nulla a che vedere con l’eguaglianza degli individui in tema di possibilità), ecc. - affonderà del tutto il Paese.
Anche perché esiste una mistura devastante.

Da una parte, abbiamo i vecchi piciisti (a partire dal capo dello Stato) che si sono convertiti alla globalizzazione liberista, e che temono la pretesa chiusura «egoistica» dei Paesi alla ricerca di una via per salvarsi dalle difficoltà generali incombenti.
Gli stessi personaggi, o comunque quelli a loro politicamente connessi, sono però nello stesso tempo favorevoli ad uno statalismo di piena inefficienza.
Non quello statalismo che implica un’azione decisamente contrastante con la globalizzazione, e dunque capace di incrementare la potenza del proprio sistema-Paese con allargamento della sua sfera di influenza; il che sarebbe, quanto meno oggettivamente, un colpo portato alla predominanza statunitense.

No, non questo statalismo; invece quello assistenziale che alimenta la finanza (succube di quella americana alla guisa di ciò che accadde nell’infausta Repubblica di Weimar), l’industria più arretrata e meno competitiva (sul piano generale, appunto, del sistema-Paese) e una «nebulosa» sociale costituita dal lavoro dipendente del settore pubblico e da tutti quegli informi ceti che vivono, in qualche modo, sul «magna magna» generalizzato legato alla spesa statale, diramatasi in mille rivoli per mantenere, sempre più a stento, almeno un quarto della popolazione italiana a sbafo della rimanente.
E’ evidente che questi gruppi politici e questi ceti parassitari dovrebbero essere spazzati via: i primi subito, i secondi con gradualità.

Tuttavia, a fronte di una sinistra sanguisuga (nelle sue varie sfumature e gradazioni), sembra esistere per il momento soltanto una destra che lo è altrettanto.
Non dico che i loro programmi siano esattamente eguali (pur non essendo troppo dissimili); tuttavia, eguale è l’incapacità di un minimo di visione rivolta almeno al medio periodo.
Sulla crisi incipiente, non si sente proferire parola.
Sui responsabili primi della stessa - la globalizzazione liberistica e, nel nostro Paese, una finanza e una grande industria «da incubo» - non si alza il benché minimo velo.
Si sente cianciare di un improbabile - perché non pensato nei suoi strumenti dotati di qualche efficacia - controllo dell’inflazione, di aumento di salari e pensioni (giustissimo in sé, ma dovrebbe essere spiegato come non farlo restare un libro dei sogni), di un «non incremento» della pressione fiscale (quando almeno l’elettorato di destra si aspetta qualcosa di più incisivo), di sicurezza, di immigrazione, ecc.
Sulle misure strategiche decisive (da almeno suggerire), nessuno proferisce verbo.

L’unico meno inintelligente appare essere Tremonti, che tuttavia non mi sembra proporre gran che. Il richiamo ai valori è generico e di per sé non aumenta la torta da distribuire.
Più convincente la critica demistificante rivolta alla globalizzazione; critica tuttavia condotta non alla maniera di un List - che, all’epoca del predominio industriale inglese, proponeva politiche di difesa dell’industria nascente tedesca; cioè, in quel contesto storico, delle branche produttive più moderne e avanzate - bensì, al contrario, pensando alla protezione della nostra economia dai prodotti cinesi, ma quelli della prima «rivoluzione industriale» (tessili, forse macchine utensili, e poco più).
Abbastanza risibile appare poi l’enfasi posta sul «terzo settore» (finto no profit, settori dell’economia «etica», ecc.), quanto di più interstiziale e di meno incisivo ci sia in termini di sviluppo e di acquisizione di potenza (non esclusivamente economica) ai fini della competizione, di cui però si fa il panegirico (solo a parole).

C’è da essere assai preoccupati; chiunque ci governerà - e speriamo non siano tutti e due gli schieramenti insieme come in Germania - ha ottime probabilità di condurci al dissesto, nel cui ambito una certa quota della popolazione si arricchirà sfacciatamente, mentre quella stramaggioritaria sarà «messa in mutande».
D’altra parte, siamo seri: non è che l’astensione cambi qualcosa.
Io mi astengo, ho firmato anche per l’astensione, però resto sorpreso quando sento parlare di astensionismo «attivo».
Cerchiamo di essere seri: astenersi è giusto per non avallare questa carnevalata della «democrazia», ma non pone nemmeno le iniziali basi di una rivolta della popolazione che, per combinare qualcosa, dovrebbe trovare una direzione in gruppi dotati di precise e assai energiche strategie, con obiettivi prioritari, secondari, ecc.

Mettiamoci in testa che, questa volta, se dovesse esserci un qualche aumento dell’astensione, si tratterà di elettorato tradizionalmente di destra, deluso dalla sciatteria e mancanza di idee di Berlusconi & C.
I «coglioni» di sinistra (moderata o estrema che sia) correranno a votare.
Intanto, perché per alcuni vale un sedicente impegno puramente «identitario».
Il PD potrebbe proporre apertamente la redistribuzione dai salari ai profitti, e «questi» si recherebbero egualmente alle urne per scongiurare il «peggio»; se la sinistra perfino proponesse di metterli direttamente in una pentola a cuocere per offrire un saporito «bollito misto» ai Montezemolo, Bazoli, ecc., «questi» correrebbero a votare affinché «non vinca Berlusconi».

Ci sono però anche molti furbastri che non saprebbero vivere senza la spesa statale; e questa non si può più alimentare senza effettuare un forte prelievo fiscale, che tolga a tutti per dare solo a quelli mantenuti - direttamente o tramite mediazioni - dallo Stato assistenziale.
Quindi, la sinistra conterà sempre sul magazzino di voti dei nullafacenti, degli imprenditori decotti, dei finanzieri imbroglioni, ecc.
Conterà sempre sull’indefesso appoggio dei vertici confindustriali e bancari, su quello dei sindacati e dei «magnoni» del settore pubblico.

Chi si astiene fa certamente la scelta giusta; deve tuttavia ricordarsi che si troverà assieme ai delusi da una destra inetta e incapace di essere coerente con la sua ideologia.
Personalmente, questa «commistione» non mi preoccupa affatto; mi inquieta solo che certuni possano credere ad un (comunque decisamente improbabile) aumento consistente dell’astensione, in quanto sintomo di una svolta in grado di accumulare forze per quella che si pretende ancora di denominare «sinistra»: naturalmente definita alternativa o antisistema o anticapitalistica.
Mi dispiace, si va accumulando molto malcontento, ma non nel senso voluto da personaggi ancorati ad una visione molto novecentesca (e primonovecentesca) delle strutture capitalistiche.

Il panorama, come ho già detto, muterà probabilmente in periodi non troppo lunghi, ma attendiamoci molte sorprese; non le solite «bischerate» dei sinistri che si credono alternativi.
Occorrerebbero soluzioni assai diverse dalla farsa elettorale.
I tempi di crisi matureranno; tuttavia, e direi per fortuna tenendo conto di quale livello mentale essi dimostrano di avere, non se ne avvantaggeranno i «sinistri», tanto meno quelli che continuano a pestare acqua nel mortaio della loro vecchiezza dogmatica.
Questi «sinistri», come recitava uno slogan dei sessantottardi, «pagheranno caro, pagheranno tutto».
E sarà il primo passo, indispensabile, verso «la riapertura di un futuro».
Gli sciocchi si sbracciano già ora per vaticinare in quale direzione esso si aprirà.

Faranno una brutta fine; il futuro non si profetizza, si segue con spirito completamente nuovo.
Come in un racconto di Kafka, mentre si salgono i gradini di una scala, questi crescono di numero sotto i piedi e non si vede fin d’ora in quale «pianerottolo» condurranno.

Professor Gianfranco La Grassa
www.lagrassagianfranco.com


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