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USA preoccupata per il povero ISIS: è vittima di crimini di guerra
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Il senatore Patrick Leahy (democratico del Vermont) ha minacciato apertamente il Governo iracheno, che sta combattendo contro il Califfato: ha le prove, dice, che le truppe irachene si macchiano degli stessi crimini di guerra dei decapitatori loro nemici («torture, stupri, assassini»). Il Dipartimento di Stato minaccia di aprire un’inchiesta sulle «atrocità commesse dalla forze irachene». Il senatore Leahy: gli USA interromperanno gli aiuti militari all’Iraq se non smette di tormentare i poveri jihadisti. A parte che tali aiuti militari in aerei e tanks promessi non sono mai arrivati quando Baghdad li chiedeva; e sorvolando sul fatto che ad accusare l’Iraq di tortura è la superpotenza che tortura l’ha praticata e di fatto legalizzata a Guantanamo e Abu Ghraib, il Governo iracheno ha accusato che mercoledì 11 marzo, mentre i suoi soldati si battevano nella riconquista di Tikrit, l’aviazione americana ha bombardato una base del suo esercito nella provincia di Anbar, ad ovest: due missili precisissimi che hanno fatto strage di 45 fra militari e ufficiali, oltre a un gran numero di feriti. Altri 22 soldati iracheni sono stati uccisi da un bombardamento americano a Ramadi; gli americani hanno negato che l’aereo fosse il loro.

È noto, e l’abbiamo già riferito, che i bombardamenti che la coalizione USA anti-Isis compie contro il nemico comune, non hanno affatto la stessa letale precisione. Una deputata irachena, Nahlah al-Hababi, ha denunciato che gli attacchi aerei occidentali sono precisi soltanto dove agiscono le forze kurde (Peshmerga) coccolate da USA e Israele, ma molto imprecisi altrove. Anzi: il 22 febbraio scorso gli iracheni hanno abbattuto, dicono, due velivoli britannici che portavano armi, munizioni e materiali vari ai terroristi islamici del Califfo. E lo ha denunciato Hakem Al-Zameli, che è il presidente della Commissione Difesa del Parlamento iracheno, quindi l’autorità competente nella democrazia che l’intervento USA ha voluto instaurare a Baghad.

Ai primi di marzo, poi, nella provincia di Ninive, le forze irachene hanno arrestato quattro consiglieri militari stranieri che davano assistenza ai militanti dell’ISIS: uno originario di un Paese del Golfo Persico, ma gli altri tre con doppia nazionalità, israelo-americana.

USA bombarda le forze anti-ISIS

È questo il nucleo di verità che si può cogliere dietro le accuse e narrative americane: è che l’armata del Califfo sta subendo dure batoste sul terreno in Siria e in Iraq. Il 3 marzo i capi dell’ISIS si sono ritirati da Tikrit sotto l’avanzata degli iracheni, regolari milizie «volontarie» , ma con l’apporto decisivo delle forze Quds, ossia della guardia rivoluzionaria dell’Iran e del suo celebrato Generale Qassem Soleimani. Le notizie sono confuse, ma le ultime parlano di una Tikrit ermeticamente isolata, dove resisterebbero non più di una sessantina di guerriglieri e sniper, i sopravvissuti di un repulisti operato – pare – dagli stessi leader del Califfato: che hanno eliminano i feriti gravi nella città assediata, e compiuto esecuzioni per tradimento contro quelli dei loro stessi uomini che cercavano di arrendersi. Per di più, in quella che è stata la città di Saddam Hussein, settemila sunniti locali si sono uniti alle forze anti-Isis (30 mila, si dice), altra smentita al progetto israelo-americano di allargare la frattura fra i due Islam: i sunniti di Tikrit non devono sentirsi poi tanto vicini a quei fanatici messi insieme (faticosamente?) a combattere lì «da novanta Paesi», dunque non solo tagliagole, ma anche stranieri che pretendono di comandare sulle fiere kabile tikrite. Nella provincia di Kirkuk, i peshmerga e le forze volontarie stanno ripulendo villaggio dopo villaggio dai terroristi.

In Siria, in combattimenti durissimi e fortemente contrastati, 177 elementi di Al Nusra sono stati uccisi dall’esercito ad Handarat; 160 guerriglieri del gruppo ‘Liwa Hateen’ hanno consegnato le armi nel Rif Dimash meridionale, alle porte di Damasco; è degno di nota che per Assad si batte una brigata palestinese, la Brigata 411, la quale ha sloggiato i residui jihadisti dal campo profughi palestinese di Yarmoulk. Le sconfitte del Califfato hanno preoccupato l’emiro del Katar Al-Thani, massimo finanziatore dei terroristi, che il 13 marzo è corso a consultarsi con Erdogan (l’altro grande fornitore di armi, addestramento e passaggi sicuri ai takfiri) per decidere il da farsi in caso di collasso del Daesh.

Nel mettere insieme la potente coalizione anti-ISIS, 19 Paesi, il presidente Obama aveva detto che doveva «degradare e alla fine debellare» le forze del Califfato. Ora c’è da temere che le forze irachene, siriane e iraniane, senza aiuti americani, «degradino» l’ISIS troppo presto. Cosa rischia di restare della possente armata dei nerovestiti così trionfanti e arroganti nei video del SITE, creati per spargere il terrore dalle tv? Cosa rimarrebbe delle promesse di far saltare la Tour Eiffel, di innalzare la bandiera nera su San Pietro e gettar giù il Big Ben, come da loro proclami? Come potranno ancora farci ribollire il sangue distribuendo tramite Rita Katz i video in cui, belluini, spaccano con mazze inestimabili statue assire ed accadiche? (Per fortuna il professor Fawzye al-Mahdi, direttore del museo di Baghdad, ha comunicato che i jihadisti hanno polverizzato delle copie; gli originali sono tuttora in suo possesso e sotto la sua sorveglianza a Baghda. Sarebbe il caso che anche i nostri media rettificassero).

Fatto sta che una delegazione di parlamentari francesi s’è recata in visita a Damasco per parlare con Assad (fino a ieri un nemico, anzi una ‘non-persona’) senza l’autorizzazione del Governo, ma accompagnati da dirigenti dei servizi: evidentemente con la richiesta di condividere dati di intelligence. Forse Parigi ha preso atto che Assad resterà. Pare che dovunque restino a battersi terroristi ceceni ed asiatici, mentre i guerriglieri siriani accettano in sempre maggior numero di consegnare le armi in cambio di garanzie, da parte del Governo, di lasciarli tornare alle loro case.

È in questo quadro che il povero Segretario di Stato Kerry ha dichiarato in un’intervista che «Washington alla fine dovrà negoziare col presidente Assad... Siamo stati sempre desiderosi di trattare nel quadro del processo Ginevra-1», solo per essere smentito, poche ore dopo, dal suo stesso Ministero, che ha fatto sapere: le frasi di Kerry non cambiano la politica americana, che sulla Siria resta questa: Assad must go.

Giova ricordare che solo dieci giorni prima, il 5 marzo, Kerry aveva detto che era necessaria in Siria «una certa pressione militare» su Assad, dando l’impressione che gli USA preparassero un intervento. Ma oggi, la sensazione è che un’immane confusione sembra regnare a Washington sulla guerra da loro provocata, che dura da cinque anni, ha fatto 210 mila morti almeno, e milioni di profughi. Secondo Thierry Messan (Réseau Voltaire) la stessa CIA non riesce più a identificare i suoi «terroristi moderati», quelli che ha coltivato, armato ed addestrato, e si domanda come mai tanti giovani europei vanno a combattere per il Califfo attratti da una ferocia di maomettani del settimo secolo, e dalla libertà di decapitare.

Nel frattempo, la Turchia si sta allontanando sempre più decisamente dalla NATO: non solo per Erdogan ma per la maggioranza dei turchi, secondo i sondaggi, ISIS non è una minaccia, mentre lo sarebbe la costruzione di uno Stato kurdo ritagliato da un pezzo di Turchia, Siria e Iraq, come sospettano gli americani vogliano realizzare. Ankara sta pensando di comprare un sistema d’arma anti-aereo – da 3,4 miliardi di dollari – dalla Cina: fra alte proteste e lagne del sistema militare-industriale sa e degli europei, perché il sistema cinese non è integrabile nell’armamento NATO, «è una falla nella sicurezza» dell’Alleanza «e della Turchia stessa», ha detto Ivo Daalder, un ex ambasciatore degli USA presso la NATO.




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