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Moneta di Stato, e subito
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Fallito il piano Paulson; «Ora, il solo modo di mettere fine al panico», scrive l’economista Nouriel Roubini, «è che la FED diriga le iniezioni di liquidità direttamente alle imprese. E senza perdere tempo» (1).

Il motivo della proposta è chiaro. Le banche, le quasi-banche del «sistema bancario ombra» e le istituzioni speculative hanno ricevuto immani quantità di dollari dalla Banca Centrale; ma se le sono accaparrate, si tengono quella liquidità e non la prestano nè ad altre banche nè alle imprese.

«Il credito a breve è congelato, l’accesso ai finanziamenti a medio e lungo termine per le imprese è bloccato, e questo nel momento in cui centinaia di miliardi di dollari di prestiti arrivano a scadenza e devono essere rinnovati. Aziende sane e solvibili, ma a secco di liquidità, possono fallire. E se il finanziamento delle imprese rimane ancora bloccato, diventa molto probabile una Grande Depressione».

Pare che alla FED si discuta proprio questa ipotesi: sostituirsi alle banche che non fanno più il loro mestiere, e prestare direttamente alle aziende acquistando le loro carte commerciali.

E’ un’ipotesi estrema per l’ideologia Goldmans Sachs, centrata sul primato della finanza privata: non a caso fino ad oggi Bernanke e Paulson hanno profuso un trilione di dollari per salvare la finanza. Salvare le banche per indurle a prestare follemente come prima, a creare un nuovo boom del credito e quindi delle bolle immobiliari ed altre, a indebitare di nuovo la gente perchè viva sopra i suoi mezzi, insomma che la giostra torni a girare.

Ma ancor più la proposta è estrema per l’ideologia del liberismo globale del «tutto mercato» e «niente Stato». Perchè l’idea di Roubini somiglia molto (troppo) alla proposta anti-depressione che la scuola di Chicago fece nel 1933, e fu rigettata per motivi parimenti ideologici.

Questa proposta - ne ho parlato in un articolo del 19 settembre - consisteva nell’imporre alle banche un obbligo di riserva del 100% (ossia di render loro impossibile creare denaro dal nulla) e contestualmente, nel restituire allo Stato, e allo Stato solanto, la prerogativa di creare moneta (2). Oggi sono le banche a creare moneta, facendo credito.

Il guaio - come si vide nel ’29 e si rivede adesso - è che esse tendono a creare «troppa» moneta (ad espandere il credito) nei periodi di fiducia e di boom, e a crearne poca o niente (restringere il credito) nei periodi di sfiducia, panico e recessione, aggravando la recessione in depressione, fino alla crisi sistemica. Lo Stato invece può aumentare la massa monetaria proprio in tempi di recessione, quando ce n’è più bisogno.

Come scrisse il grande economista Irving Fisher, la restituzione allo Stato della creazione esclusiva di moneta porterebbe a «prevenire le successioni di grandi boom e depressioni, ponendo fine ai cicli di inflazione e deflazione che sono stati la maledizione dell’umanità, e che sono nati, in genere, dall’attività bancaria».

L’economista Nobel francese Maurice Allais ha sempre predicato la stessa soluzione, inascoltato. Persino Milton Friedman, il monetarista di Chicago a cui si rifanno gli ideologi del liberismo terminale, era favorevole all’obbligo di riserva del 100%  alle banche.

Ora, se la FED decidesse di salvare, anzichè la finanza speculativa, le aziende (e l’economia reale) prestando loro direttamente il denaro che non trovano sul «mercato» per rifinanziarsi, si dimostrerebbero due verità cruciali ed occultate:
Primo: l’inutilità delle banche private, o la loro superfluità, e persino dannosità, come fecondatrici dell’economia.
Secondo: l’inutilità della FED come banca privata, che emette moneta indebitando lo Stato, a favore dei suoi azionisti privati. Intendiamoci, la FED resta necessaria, come emettitrice di moneta. Ma, visto che deve prestare alle aziende, tanto vale che la FED diventi banca di Stato, emettitrice di moneta di Stato. La ri-nazionalizzazione della Banca Centrale, di tutte le Banche Centrali, sarebbe questione di giorni.

Si può capire che gli speculatori resistano a questa prospettiva. Paulson stesso, come supermanager di Goldman Sachs, ha guadagnato nella sua lunga carriera come speculatore privato, dicono, 500 milioni di dollari di bonus ed emolumenti. Sa dunque benissimo che le banche non «fecondano» l’economia reale, ma la «sfruttano» lucrando gli interessi dal denaro che creano dal nulla; e i lucri sono tali, da indurre tutto il sistema a qualunque azione, pur di scongiurare il ritorno alla moneta di Stato.

La proposta di Roubini dunque non sarà accettata, come fu rifiutata quella della scuola di Chicago nel ’33 quando la Depressione continuò per mancanza di credito privato, e le misure del New Deal non furono sufficienti a cambiare le cose. Oggi, la crisi che ci aspetta è «sistemica», come dice Roubini.

Come si configura la crisi «sistemica», lo spiega l’economista francese Paul Jorion (3). Le misure prese sia in USA sia in Europa, dice, sono pannicelli caldi, non affrontano le cause profonde della crisi. Le cause sono due: «L’ineguaglianza e il deficit USA».

Tutto il boom finanziario degli anni scorsi, dice Jorion, si riduce all’esproprio dei redditi da lavoro (che sono diminuiti) a vantaggio della retribuzione del capitale. Ciò ha ampliato le ineguaglianze. Una volta, lo Stato - lo Stato sociale - tentava di ridurre le ineguaglianze con la tassazione delle ricchezze dei ricchi e speculatori; l’introito fiscale era poi distribuito nel basso, in assistenze e previdenze sociali.

Bush, fedele all’ideologia liberista fino alla parodia, ha tagliato la tassazione ai ricchi a quasi nulla. Risultato: la «redistribuzione» è avvenuta lo stesso. Ma a farla non è stato lo Stato, sotto forma di provvidenze; è stata la finanza, sotto forma di indebitamento.

La finanza ha usato i suoi eccessi di lucri non tassati per super-indebitare le famiglie, attraverso l’espansione demenziale del credito al consumo (carte di credito, auto a rate, mutui a  insolventi riconosciuti). E gli investitori internazionali hanno contribuito «mantenere alto il livello di vita delle famiglie americane diventando anch’essi loro creditori».

Qualunque altra nazione non avrebbe potuto reggere così a lungo quanto gli USA nei suoi deficit crescenti: avrebbe dovuto, a un certo moneto, o svalutare drasticamente la sua moneta, o ridurre drasticamente i suoi consumi, o fare l’uno e l’altro.

Gli USA, dato che la loro moneta ha lo status di riserva internazionale, sono riusciti a sfuggire a questa sanzione del «mercato». Il sistema di potere americano ha continuato ad approfondire la voragine dei suoi debiti privati, commerciali e pubblici, perchè il buco viene continuamente riempito dall’afflusso di capitali stranieri (Cina e Giappone in primo luogo), sovrabbondanti e alla ricerca di  frutti.

Il liberismo ideologico terminale ha così sviluppato una «dottrina» tutta nuova: la sostenibilità senza fine dell’accrescimento infinito del debito (almeno di quello americano). Il regime cinese, fatto istruttivo, ha condiviso perfettamente questa «dottrina».

Certo, visto che i vari indebitamenti americani costituiscono almeno il 350% del PIL, ad un certo punto è diventato ovvio che quel debito non sarebbe mai stato rimborsato al valore facciale. Ma che importa?

Pechino e gli altri Paesi creditori (arabi petroliferi, Giappone, Paesi emergenti esportatori), non si prepccupavano: il dollaro sarebbe calato sì ma dolcemente, i contribuenti non se ne sarebbero nemmeno accorti, e intanto i cinesi finanziavano gli americani perchè comprassero le loro merci. Il debito americano si sarebbe sgonfiato lentamente, senza scosse, a spese degli ignari cinesi, che in ogni caso ci guadagnavano in posti di lavoro e boom economico.

E così si è andati avanti fino a ieri. Ma - attenzione, perchè qui Jorion si fa veramente interessante - «l’economia classica ci insegna che l’introduzione di una rigidità in un prezzo squilibra il buon funzionamento del sistema (di mercato), e si finisce per pagarlo in un modo o nell’altro. Questa regola è invocata, per esempio, per criticare l’introduzione di un salario minimo obbligatorio», ossia contro lo Stato sociale alla europea: la «rigidità» inserita dal salario minimo annullerebbe posti di lavoro a paga inferiore, squilibrerebbe il «mercato».

Molto meno questa regola del liberismo è stata citata a proposito della situazione americana. Eppure, anche gli USA hanno mantenuto una «rigidità», ossia tenuto alto il corso del dollaro grazie all suo status di moneta di riserva, nonostante gli enormi deficit che avrebbero portato, in termini di «mercato», al suo deprezzamento.

Gli USA hanno approfittato di questa condizione fino all’incoscienza. I cinesi sono stati zitti ed hanno continuato a finanziare gli USA, mantenendo il dollaro alto, perchè se avessero gridato «il re è nudo», le loro riserve in dollari si sarebbero volatilizzate all’istante. Grandi interessi reciproci legano insieme il debitore e il creditore, entrambi colossali.

Adesso, quel legame è la catena della macina da mulino proverbiale. Perchè il processo di sgonfiamento del debito impagabile USA sta avvenendo; e non nel modo lento e quasi inavvertito che tutti speravano, a cominciare da Washington e Pechino, bensì in modo rapidissimo ed esplosivo.

Il debito pubblico americano è relativamente piccolo (5 mila miliardi di dollari, contro i 50 mila di tutti i debiti privati e commerciali USA); ma è di colpo raddoppiato, perchè col salvataggio di Fannie e Freddie, lo Stato americano s’è accollato i loro 5 mila miliardi di attivi tossici. Tuttavia, i grandi creditori continuano a comprare BOT americani, con la certezza che il superstato non può fare bancarotta.
Ma quanto vale questa certezza?

Il credito immobiliare, che s’è deprezzato in modo abissale, era 11 mila miliardi, di cui 5 mila e più detenuti da investitori stranieri, ed ha portato al tragico sgonfiamento degli attivi delle banche, che ha innescato la crisi presente. La recessione mette in pericolo la saldezza dei debitori da consumo (2.600 miliardi di dollari); il debito delle imprese, altri 11 mila miliardi, è diventato di colpo doppio, visto che non riescono a  rifinanziarsi, e imprese anche sane possono finire insolventi. Il processo di liquidazione dei vari debiti USA è cominciato, e sta svolgendosi che la rapidità di un lampo.

«La corsa al dis-indebitamento cui assistiamo», scrive Jorion, «ha chiaramente soverchiato la capacità degli attori a dominare le forze che si sono liberate; questa macchina infernale ha la proprietà terribile di alimentare il suo stesso slancio».
«La paralisi dei mercati interbancari (le banche non si fanno più prestiti a vicenda, nemmeno per 24 ore) rivela il panico che domina oggi. Ciascuno si pone senza cessa la domanda: che cosa vale la carta? Ora, questa domanda si coniuga in due fasi. Prima, ci si domanda: quanto vale la firma della mia controparte (il debitore). Dopo, si finisce per chiedersi: quanto valgono davvero l’insieme degli attivi soggiacenti?».

Il collasso delle Borse e la fuga generale dalle banche e dai loro depositi suggerisce che ci si comincia a fare la seconda domanda, anche se gli attori non ne hanno piena coscienza.

Diventa imminente la domanda finale: «Quanto vale il debito americano»? Tutti quei Buoni del Tesoro di cui la cassaforte cinese e quella giapponese sono piene, che ogni Stato detiene come «riserva» sicura?

Quando questa domanda si imporrà, allora la crisi di liquidità, o la crisi di insolvenza, saranno superate. Comincia la crisi sistemica, il si salvi chi può.

Per questo bisogna che la FED dia denaro non più alle banche ma alle imprese, e subito, come dice Roubini. Per poi «riunire un corpo di esperti indipendenti che ridefiniscano il ruolo delle Banche Centrali», quelle private, soggette alle pressioni di Wall Street, che avendo abbandonato la creazione di denaro alle banche private, sono la causa prima della distruzione di ricchezza in atto (4).

Nazionalizzare le Banche Centrali, farne emettitrici di moneta di Stato, capaci di vietare alle banche la creazione di pseudo-capitale. E subito.




1) Nouriel Roubini, «The Fed keeps on wasting time while the mother of all bank runs is underway», RGE Monitor, 6 ottobre 2008.
2) Maurizio Blondet, «Chicago 1933, il piano contro la Depressione», Effedieffe, 19 settembre 2008.
3) Paul Jorion, «L’hypothèse dèrangeante: un processus de liquidation de la dette US», Contre Info, 7 ottobre 2008.
4)
Hossein Askari, Noureddin Krichene, «political courage, the missing link», Asia Times, 8 ottobre 2008.


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