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Elogio di Moby Dick
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Moby Dick e Renzo Tramaglino: due metafore opposte e inconciliabili della società occidentale. Ma In Italia potrebbe mai nascere Achab?

M’è capitato recentemente di rileggere Moby Dick. (1) O meglio di leggerlo per la prima volta con cuore d’adulto, e vorrei invitare a riflettere che cosa significhe essere un adulto italiano in questi anni del nuovo millennio: un uomo ormai maturo, che da quando è nato vive su un pianeta dove gli Stati Uniti esercitano la loro egemonia. Un’egemonia imperiale, come noto, si esercita attraverso miti e simboli, che esprimono (e propagandano) valori. E gli energici valori americani, che l’America impone - o più precisamente offre, perché vi aderiscano, agli altri popoli - sono nutriti di specifiche virtù, effetto di un’educazione, di una pedagogia.

L’italiano maturo, che ha viaggiato il mondo ad occhi aperti, conosce queste virtù americane, sopravvissute nonostante il malgoverno degli ultimi anni. Le ha viste all’opera. Ed è fin troppo consapevole che sono le virtù che mancano al proprio popolo; e che la loro assenza determina la mediocrità del destino del suo popolo, e tarpa perfino le ali al suo destino personale, ne limita fatalmente le possibilità vitali.

Per lui la lettura del gran romanzo di Melville è dunque l’occasione di un confronto dei caratteri nazionali.

Moby Dick è il romanzo di fondazione degli Stati Uniti: epico e pedagogico, ossia anagogico, tutto innervato delle virtù americane. E il pensiero corre subito al romanzo fondativo dell’Italia, quello che Manzoni scrisse una quarantina di anni prima.

E’ fin troppo evidente che I Promessi Sposi sono il romanzo della paura: ha paura don Abbondio, don Rodrigo è soprattutto un vile, ma anche Renzo non è un cuor di leone. I coraggiosi, quando appaiono - l’innominato, il cardinale - portano con sé un’atmosfera, una dimensione grandiosa in cui il piccolo coro circostante degli «umili» non può, letteralmente, vivere. E’ l’epica della soggezione sociale. La storia ben nota della soggezione degli italiani a ceti «superiori» che sanno corrotti (2) e screditati (ossia che non meritano il potere che detengono), e che se ne difendono rifugiandosi nei legami familiari, i soli fidati.

Si sa qual è l’incipit di Moby Dick. «Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa, non importa quanti esattamente, avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che m’interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo».

Il primo tema, la prima virtù americana, è già qui: è il coraggio della libertà. La libertà conquistata col coraggio.

«Ismaele» - l’americano senza legami, senza famiglia, senza neppure un nome che gl’importi -
sceglie la libertà per la via più dura, a cui Renzo Tramaglino non avrebbe mai neppur potuto pensare: navigare. E su una baleniera a vela, nella prima metà dell’Ottocento.

Non so se un italiano capisca cosa ciò significasse in privazioni, rischi, fatiche e durezze. Poiché il maturo colpito da influenza è incidentalmente genovese, sa come veniva considerato a Genova, quand’era bambino, chi andava per mare: un disgraziato, spinto dalla necessità a un lavoro maledetto. Le vecchie sussurravano di un uomo che passava, rugoso e coi calzoni di tela blu, «è imbarcato» o «è in marina», come se dicessero «ha il cancro». E nessuno di quegli uomini avrebbe mai scritto, anche l’avesse saputo fare, della sua vita di mare, in cui vedeva solo umiliazione, sradicamento e privazione.

In Italia, dove moltissimi hanno navigato, l’andar per mare non è mai stato un soggetto d’arte: esattamente - per far intuire quanto riveli la scelta del «soggetto» in arte - come nessun pittore italiano avrebbe mai considerato soggetto degno dei suoi pennelli, come Rembrandt, un quarto di bue.

I marinai genovesi che ho conosciuto tacevano il più possibile della loro vita di mare: se ne vergognavano, con grande stupore del bambino che ero. Se costretti, ricordavano laconici lo schifo delle gallette e della carne salata.

Il racconto di «Ismaele», pieno di morti sul lavoro e presagi sinistri, è pieno di baldanzosa allegria, di orgoglio vitale, di energica curiosità. Di buon appetito, e indifferente alla galletta. E si estende d’un colpo su spazi immensi.

Il teatro de I Promessi Sposi è straordinariamente esiguo, un triangolo fra Lecco, Milano e Monza. Gli attori ignorano tutto del più vasto mondo: eppure l’Europa intera passa sulla loro terra.

Ma siano gli spagnoli o i lanzi di Wallenstein, restano un’entità indecifrabile, appestata, barbara, da subire. A Renzo basta riparare da Milano nella Bergamasca per essere irraggiungibile e introvabile dalle ridicole autorità che lo perseguono.

Achab insegue la Balena Bianca, libero imprevedibile mostro pelagico, guidando il «Pequod» lungo l’Atlantico, oltre il Capo, nei mari indiani tropicali, in vista il Borneo; e l’intercetta - folgorante profezia politica - nel Mar del Giappone.

L’accanita follia del comandante - perché Achab è l’incarnazione di una folle virtù americana, ben nota a noi sudditi dell’impero di Washington - pone al suo servizio una competenza ugualmente accanita, che tracciando rotte su fasci di carte domina spazi incommensurabili.

Solo gli iberici hanno avuto un simile coraggio spaziale: Cristoforo Colombo sarà stato italiano per caso, ma è spagnolo per vastità dell’animo (3).

Riparato in quel di Bergamo, Renzo è subito un emigrante roso dalla nostalgia. Ismaele e gli altri marinai di Achab, uomini liberi, non hanno un lamento di vittimismo: e sono a tre anni di distanza da casa.

Il loro veicolo è ancora un veliero, ma i loro cuori sono già portaerei e Boeing, rimpiccioliscono il pianeta, rendono laghi domestici i mari lontani.

A me che scrivo, stretto nello spazio esiguo delle pagine, manca lo spazio per elencare tutta l’America che ho ritrovato nel Pequod, la nave-America melvilliana.

Ci sono le razze diverse, il ramponiere pellerossa e tatuato, i marinai negri, irlandesi, siciliani, unificate dalla sfida. C’è la relazione speciale con gl’inglesi e la sua chiave: i balenieri tedeschi e francesi sulle loro navi appaiono invariabilmente ridicoli e stolti, ma il comandante della baleniera «Samuel Enderby» di Londra è trattato con profonda simpatia. Perche?

Il capitano inglese, che è monco, racconta l’orribile squarcio che ha subito nella caccia: «La sagola di quel secondo rampone maledetto mi prese qui, e mi trascinò giù nelle fiamme dell’inferno mi pareva, quando ad un tratto, ringraziando Dio, la carne si squarciò davanti alla lama per tutta la lunghezza del braccio, il ferro mi usci dal polso e tornai a galla». E racconta questa sciagura raccapricciante con umorismo, con «understatement»: la mutilazione non l’ha piegato, lo spavento non l’ha reso vile.

Ecco la chiave: il coraggio fisico, scatenato e vitale, in cui gli americani riconoscono fratelli gli inglesi, distinti da altri popoli più prudenti o più vili. E’ un coraggio scatenato, specificamente angloamericano, difficile da intendere a chi non l’ha visto anche scaricarsi in violenza, in ferocia bellica (4).

Tuttavia, ciò non ha nulla a che fare con l’arditismo, con «pugnal fra i denti», con l’esibizione: è qualcosa che fa tutt’uno con la libertà, la dignità, l’ottimismo vitale e - per l’America - con la democrazia. Una democrazia «grande», biblica e metafisica: che non si contenta di godere se stessa, ma sfida, a torto o a ragione, le forze titaniche del mondo.

E’ famoso l’inno alla democrazia che Melville eleva, con una convinzione che - nel 1850, data in cui compone il suo racconto - nessun europeo avrebbe potuto usare e, forse, non possiamo usare ancor oggi: «Gli uomini possono sembrare detestabili presi in società commerciali e nazioni, possono essere tra loro dei furfanti, degli stupidi e degli assassini, possono avere facce vili e sparute, ma l’uomo, nell’ideale, è cosi nobile e cosi splendido, è una creatura cosi grande e radiosa, che sopra ogni sua macchia d’ignominia tutti i suoi compagni dovrebbero correre a gettare i loro mantelli più preziosi. (…) Quest’augusta dignità di cui parlo non è la dignità dei re e degli abbigliamenti, ma quella traboccante dignità che non ha investitura di drappi. La potrete veder risplendere nel braccio che vibra un rampone o che pianta una caviglia: quella democratica dignità che su tutti irradia senza fine da Dio, da Lui! Il grande Dio assoluto! Il centro e la circonferenza di ogni democrazia! La Sua onnipresenza, la nostra divina uguaglianza! [...] E cosi, se dunque ai più vili marinai e rinnegati e reietti ascriverò d’ora innanzi qualità elevate, ancorché oscure [...] Tu dunque confermami in quella dignità contro tutti i critici mortali, o giusto Spirito dell’Uguaglianza, che hai steso sopra la mia specie un regale mantello di umanità! Confermami in essa Tu, grande Iddìo democratico […] Tu che raccogliesti Andrew Jackson di tra i sassi, lo lanciasti su un cavallo da guerra e lo proclamasti più in alto che su un trono!».

Penso che Manzoni, il cattolico, si sarebbe ritratto di fronte a un Dio «centro e circonferenza di ogni democrazia», davanti a questo forsennato atto di fede. Eppure è fede biblica; certo, da buon protestante nutrito delle Scritture. Ma il Grande Spirito delll’Uguaglianza è un’immagine nuova, però seducente, del Dio di Gesù, anche se suscita qualche allarme la citazione, come santo della Democrazia divina, di un presidente USA (il settimo).

Certo è che una tale smisurata idea della democrazia scatena forze, interiori e fisiche: gli uomini che cosi sentono non possono permettersi di essere piccoli o inerti. Sono missionari della democrazia; ardono di imporla al mondo; cristiani che prendono alla lettera la parola di Cristo, per cui «il Regno dei Cieli patisce violenza, e i violenti se ne impadroniscono». E per questo bene sono pronti a scatenarsi contro forze grandiose con controforze adeguate, bombe atomiche comprese. E ciò lealmente, nella convinzione di combattere ad armi pari.

Anche Achab, nel ripetere il suo odio scatenato per la Balena, dice: «Non mi parlare di empietà, marinaio [...] c’è sempre qualcosa come un gioco leale». Non è casuale che in Moby Dick si trovi un elogio del colpo di coda della Balena, la forza naturale irresistibile del mondo animale (le altre sono la zampata del leone e dell’incornata del toro, che i picadores devono indebolire straziandone i muscoli del collo, altrimenti sarebbe invincibile) che è un elogio della forza come bellezza: anch’essa inaudito in un romanzo europeo. Questa sua forza strepitosa non tende affatto a storpiare la grazia flessuosa dei movimenti, dove una scioltezza infantile serpeggia in una potenza da titano.

E’ da quella forza, anzi, che quei movimenti traggono la loro più terrificante bellezza. La vera forza non toglie mai alla bellezza o all’armonia, anzi spesso dona; e in tutto ciò che è sovranamente bello la forza ha larga parte nell’incantesimo.

Melville non dimentica mai questo ammirato amore per la forza bruta mentre descrive la balena, con mossa passione scientifica, naturalistica, in tutti i suoi aspetti: nella sua anatomia, nei suoi costumi biologici, nel suo valore commerciale e industriale. Perché Moby Dick è un trattato sulla balena, e il trattato prolifera al punto che l’avventura, la storia di Achab, non sono in fondo che un involucro marginale, lungo poche decine di pagine, che avvolge il colossale ritratto della Balena: altro soggetto inaudito in un'opera d'arte europea perché, ecco l'estetica di Melville, l'estetica americana della colossalità materiale, che è una volontà di grandezza:

«Nel semplice atto di vergare i miei pensieri attorno a questo Leviatan, i pensieri mi stancano con la loro immensa comprensività, per includere il giro delle scienze e di tutte le generazioni, presenti, passate e di là da venire, di balene, di uomini, di mastodonti, con tutti i mutevoli panorami di potenza sulla terra e nell’intero universo, non esclusi i sobborghi. [...] Per produrre un grande libro, bisogna scegliere un grande argomento. Nessuna opera grande e duratura potrà mai venire scritta sulla pulce, benché molti abbiano tentato».

Manzoni scrive di uomini piccoli, di piccoli spazi, ma dotati di una profondità nella dimensione del tempo. Il suo non è a caso un romanzo storico, perché noi italiani viviamo (vivevamo) nella storia: la storia ci impastoia, ci condiziona, e però è il nostro vero ambiente vitale, se siamo europei veri - cioè colti.

Anche Melville è colto. Ma scrive un romanzo sul presente - per la precisione, su quel presente senza tempo che è la Natura. Infatti, scegliere la Balena come tema di un romanzo, non si può se non si appartiene ad un popolo dove la Natura - anche sotto forma di scienza naturale - divora la Storia, il popolo che ha sognato astronavi, che è andato sulla Luna.

E la cui industria divora la Cultura: il «Pequod», aguzzo naviglio di caccia, è anche una manifattura, con le sue caldaie per fondere il grasso, i suoi ramponieri che diventano macellai e fochisti, squartatori e confezionatori d’olio. Ma gli oculati e tirchi operai galleggianti - che sono pagati a quota del prodotto, non con salario fisso - la baleniera è una società per azioni, un’impresa che distribuisce utili di rischio -sono non di meno cacciatori, avventurieri ossessi della caccia.

Il guadagno è un pretesto per l’affermazione di potenza, per provarsi di fronte alla forza-bellezza della Natura strapotente.

Una proiezione cosi dinamica che Melville, parlando del «presente», dell’«attuale», è capace di profetizzare, senza fatica e senza magia, il futuro: fino a indicare (come abbiamo visto) il Mar del Giappone come il teatro d’azione del Nemico Principale, dove si giocherà il destino degli USA.

«Questi nudi nantuckettesi, questi eremiti del mare, [...] hanno scorrazzato e domato gli oceani come tanti Alessandri [...] Questa è la sua casa, queste le sue faccende, che nessun diluvio di Noè interromperebbe, neanche se travolgesse tutti i milioni della Cina».

Naturalmente il denaro conta, nel romanzo di fondazione americano. E’ onnipresente, accuratamente calcolato; ma essenzialmente spendibile, volatite. Non le monete risparmiate e conservate nel fazzoletto da Agnese, ma il denaro dei ramponieri che hanno fatto fortuna e, diventati armatori, lo spendono per armare baleniere-società per azioni; le quote calcolate al millimetro (a Ismaele Bildad vorrebbe dare la settecentosettantasettesima parte del bottino). E soprattutto il doblone d’oro, oro del Perù, valore 16 dollari, che Achab inchioda sull’albero promettendolo al primo dell’equipaggio che avvisterà Moby Dick: e che da allora trascina la nave come un magnete magico, verso il mostro fatale.

Ma alla fine Achab, che è comproprietario ed azionista del «Pequod», getterà tutto in malora per il suo pazzo scopo, senza il minimo calcolo dei profitti e delle perdite; e l’equipaggio lo segue follemente. Non era dunque il denaro a muovere la nave-America. Il denaro è solo il segno di qualcosa d’altro. Di cosa?

E’ difficile dire, senza riferirsi alla Bibbia, all’ebraismo biblico e protestante: alla Bibbia i cui patriarchi sono ricchi e concreti, e che dalla loro obbedienza a Jahvé si attendono non premi disincarnati, ma armenti, mogli, schiavi, figli, terra e oro.

Moby Dick è infinitamente tessuto di Bibbia protestante come è tessuto di Balene. Il cetaceo che il «Pequod» insegue, per essere una materia prima commerciale, non cessa di essere Leviatan che ingoiò Giona.

Verso la fine, lancinante, appare, «con triste rotta serpeggiante», una baleniera di Nantucket che cerca in mare il figlio del capitano, sbalestrato dalla lancia durante l’assalto: si chiama «Rachele», e Melville scrive: «Era Rachele che piange i suoi figli perché non sono più». I nomi dei personaggi sono anch’essi biblici, e ogni nome è il presagio di un carattere, di un destino che è già nella Scrittura.

Deliberatamente, con questo accorgimento, Melville trascura la cronaca marinara che narra di una storia sacra: Achab, Ismaele, Bildad sono maschere di un evento che fu scritto «al principio», e che accade di nuovo - come ogni mito - senza variazione, e con la stessa pregnanza simbolica. Difatti non si tratta di un romanzo psicologico.

La psicologia di Achab, con la sua forsennata insistenza a demonizzare una innocente ferocia naturale, è inverosimile: o meglio lo sarebbe se non avessimo visto l’America demonizzare, ai nostri giorni, la Germania e il Giappone, o Saddam, i Talebani, l’Iran. Come Starbuck il secondo del «Pequod», anche noi ci chiediamo che cosa aizzasse tanto odio americano per entità e culture che, più che malvagie, sappiamo aliene, come l’innocente bruta balena bianca.

Ma la risposta di Achab risuona anche per noi: «In ogni evento, nell’atto vivo, nell’azione indubitata, qualcosa di sconosciuto, ma sempre ragionevole, sporge le sue fattezze sotto la maschera bruta […] questa cosa imperscrutabile è ciò che odio soprattutto, e sia la Balena Bianca il dipendente o sia il principale (5), io sfogherò su di lei il mio odio».

Achab è folle ma la sua è la follia di una virtù americana, protestante e biblica: nel mondo c’è il Male, e qualcuno deve pur combatterlo. Coi suoi metodi stessi, con una ferocia, un accanimento personale che somiglia al Male medesimo.

Con un eccesso empio però religioso, perché pretende di bruciare la zizzania nel campo di grano, non tollera - come Cristo raccomandava - che l’erba mala sia lasciata crescere nel buon frumento: la democrazia divina ha da essere il paradiso già qui.

L’importante è sapere che «Quell’intangibile malvagità che è stata al principio delle cose al cui impero i moderni cristiani ascrivono metà del mondo, che gli antichi Ofiti adoravano nel loro demonio scolpito, questa malvagità Achab non cadeva in ginocchio ad adorarla, (…) ma le si lanciava contro, così mutilato com’era».

Che farci? Così è l’America. E se la sua folle virtù fa paura, fa anche una qualche invidia all’italiano maturo, nato e cresciuto alla periferia del suo impero. L’eccesso di quella virtù genera Achab.

Ma quale nome italiano daremo all’eccessivo difetto di quella virtù? Al rifiuto vile di porsi il problema del bene e del male nella storia? Per esempio ad una «giustizia» che grazia e stipendia assassini con denaro di Stato e chiama questi delatori prezzolati - sacrilego uso di una cara parola cristiana - «pentiti».





1) Nell’edizione Adelphi (1987), con la traduzione cruscaiola di Cesare Pavese: che quando scriveva in proprio imitava gli americani, e nel tradurli toscaneggiava...
2) Non si è abbastanza notato, ad esempio, il posto che ha la lubricità dei personaggi del ceto sociale dominante nel casto romanzo del Manzoni: tutta l’azione prende origine dalla concupiscenza di don Rodrigo per Lucia, la monaca di Monza è travolta nella rovina morale dalla lussuria. Qui il Manzoni ha, credo, un’intuizione profondissima: perché il sesso diventa importante in vite che non hanno nulla da fare, e la classe «dirigente» che Manzoni dipinge è appunto una classe che non ha nulla da fare, che non si sente obbligata dalla sua preminenza a rigorosi doveri. E’ una noblesse che non si sente obligée. Una classe che gode inerte dei suoi privilegi, si trastulla col sesso. E’ lo stesso motivo per cui il sesso è cosi importante nelle vite italiane d’oggi, vite senza scopo, né traguardi, né impegni. Nel romanzo di Melville, per contro, non solo il sesso non ha spazio, ma nemmeno la ciurma, forzatamente astinente, ricorda mai la donna. Il puritanesimo non basta a spiegare quest’assenza: il punto è che il romanzo americano è in essenza un’epica della virilità, e la virilità, che non è la maschilità zoologica, è impegnarsi in un’impresa, vincere una sfida.
3) Né la lejenda negra, né l’occasionale teppismo, mi tratterrà dall’omaggio ammirato che è dovuto a Cortes, a Pizarro e ai loro trecento conquistadores: i ponti tagliati dietro le spalle, distanti da Madrid come fossero su Marte, pochissimi e senza paura fra popoli di numero schiacciante. Cortes e Pizarro erano allora ventenni scatenati, e ciò giustifica l'occasionale teppismo - di cui gli inglesi e gli americani hanno dato, del resto, prove non minori.
4) L’inglese William Blum ha calcolato che i pacifici Stati Uniti, dalla loro nascita fino al 1945, sono intervenuti militarmente all’estero 168 volte: un intervento armato ogni dieci mesi.
5) Ossia, spero non sfugga, uno strumento di Satana o Satana stesso.


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