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Obama come Roosevelt e/o Mussolini?
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Dalla bushite alla obamite

Dopo la clintonite di fine XX secolo e la bushite di inizio XXI secolo, il servilismo filo-americano italiota si manifesta ora, con l’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti d’America, nella forma della obamite.
Come l’influenza ricorrente ogni anno, ad ogni nuova elezione presidenziale americana la malattia americanista italiana va assumendo una nuova forma.
Infatti si tratta di una malattia culturale proteiforme benché sia in essenza sempre la stessa dal 1918/1945 in poi (fino a quelle date, coincidenti con le due tragiche e suicide guerre civili europee, non esisteva alcun unitario concetto di Occidente, inteso come America + Europa, e gli stessi americani, fedeli alla proprie radici antieuropee, si consideravano essenzialmente diversi dagli europei, perlomeno da quelli non ancora conquistati alla democrazia e nei quali sussisteva l’eredità «medioevale»).
Certo oggi è la sinistra italiana a cantare le lodi dell’America laddove cinque anni fa fu la destra.
Ma questo dimostra soltanto il carattere «replicante» della politica italiana che, in particolar modo dopo la prima repubblica, è ormai forgiata direttamente sul modello bi-partitico americano.
In questi giorni abbiamo assistito ad un indegno peana da parte di tutta la stampa italiana.
Con Obama - è stato detto - si realizza il sogno di Martin Luther King: un’America pacifista e multiculturale nella quale anche i neri finalmente sono ammessi alla stanza dei bottoni (1).
Certamente Obama è il primo presidente nero della storia americana ma non è possibile dire che i neri siano entrati con lui alla Casa Bianca.
Condoleeza Rice e Colin Powell, che sono neri, hanno governato con Bush e non certamente in posizioni di secondo piano essendo stati i responsabili della politica estera americana in un momento nel quale l’America unilateralista neocon si lanciava nel sogno del nuovo secolo americano che, come ha notato John Gray, si è poi accorciato di 92 anni.
Sicuramente con Obama cambieranno le forme della politica estera americana, ed è questo che fa provare ebbrezze da orgasmo alla sinistra italiana, ma non cambierà assolutamente la sostanza di quella politica, per il semplice fatto che alla radice del rapporto degli Stati Uniti con il resto del mondo non vi è la politica intesa come arte razionale di governo, ma una sorte di religione millenarista di ascendenze puritane.

L’America di Obama senza dubbio, anche costrettavi dalla crisi finanziaria globale, non sarà più unilateralista e ascolterà gli alleati, cercherà più la mediazione che lo scontro immediato.
Eppure essa non rinuncerà mai al ruolo di superpotenza, magari tra altre potenze, destinata comunque alla leadership del mondo: solo eserciterà tale leadership con metodi meno decisionisti di quelli dell’America neocons di Bush.
Ma la sostanza non cambierà perché che si esprima nella sua versione di destra, con Bush, o nella sua versione di sinistra, con Obama, lo spirito americano è sempre quello retaggio del millenarismo puritano.
I padri pellegrini, calvinisti radicali inglesi, che fondarono le originarie tredici colonie, embrione degli Stati Uniti d’America, lasciarono l’Europa nella convinzione giudaico-veterotestamentaria di fuggire dall’Egitto del faraone, identificato con il papismo cattolico ed il falso protestantesimo anglicano, per approdare, novello popolo eletto, nella nuova terra promessa della libertà allo scopo di fondarvi la società cristiana perfetta, la «City upon Hill», la «città di luce, benedetta da Dio, sulla collina».
Missione che essi ritenevano loro affidata dal Cielo per mostrare a tutto il mondo che è possibile il Regno di Dio in terra.
Eric Voegelin ha identificato nell’ideologia puritana, che è alla base dello spirito americano, la prima rivoluzione gnostica della modernità (alla quale sarebbero seguite le altre: liberalismo, giacobinismo, comunismo).
Infatti, il tentativo di edificare in terra una società perfetta, di immanentizzare il Paradiso, è l’essenza di tutte le ideologie perverse ed utopiche della modernità.
Il millenarismo, non a caso, è sempre stato condannato dalla Chiesa cattolica ben memore delle parole di Nostro Signore Gesù Cristo: «Il mio regno non è di questo mondo».
Alla fine della storia, secondo l’insegnamento di Santa Romana Chiesa, non vi sarà un regno politico di Dio sulla terra, una teocrazia, neanche quella in forma di democrazia liberale inseguita sin dalla loro nascita dagli Stati Uniti, ma vi saranno «una terra nuova e nuovi cieli» ossia la trasfigurazione gloriosa, nell’eternità di Dio, ma trasfigurazione post-storica e non intra-storica, post-temporale e non intra-temporale, dell’universo nella resurrezione della carne.
 
Corollario dell’ideologia millenarista puritana è la convinzione per la quale, se la terra promessa americana è stata consegnata da Dio al nuovo popolo eletto, da un lato l’America deve essere preservata nella sua purezza, per l’appunto «puritana», dalla contaminazione con il resto del mondo, che è il terreno incolto del diavolo, e dall’altro che la nazione americana deve ritenersi assegnataria della missione della purificazione di quel terreno incolto per renderlo conforme alla purezza americana, alla volontà immanente di Dio che si esprime nella perfetta Gerusalemme terrena statunitense.
Chiunque si opponga a questa missione non merita misericordia perchè viene naturalmente arruolato nelle fila dei «malvagi», dei «nemici di Dio», del pericoloso e luciferino «dio» immanente che invoca ogni giorno l’America nei rituali collettivi della propria religione civile patriottica.
Si capiscono molto bene, dunque, i motivi di profonda convergenza della prospettiva «escatologica» americana, eredità della radice puritana, con quella del rabbinato ultraorotodosso israeliano che ha «sionizzato» la già equivoca escatologia del giudaismo post-biblico.
Non a caso Obama tra i primi atti del suo imminente «regno» ha nominato suo capo di gabinetto, cioè colui che dovrà gestire il passaggio tra Obama stesso e George W.Bush alla Casa Bianca e coordinare i due staff presidenziali, Rahm Emanuel, il cui nome indica chiaramente una precisa appartenenza etnico-religiosa.
Il quotidiano ebraico Maariv ha dedicato alla nomina un ampio servizio dal titolo «Il nostro uomo alla Casa Bianca» (2).
Dunque, come è evidente, non ci sarà nessun allentamento dei legami, anche politici, israelo-americani.
Una studiosa del puritanesimo, Elisa Buzzi, a proposito delle radici dello spirito americano, ha osservato che: «Se la sorgente del puritanesimo si è inaridita, la cultura e la mentalità americane ci appaiono ancora oggi disseminate di ‘ideali’ puritani. Il puritanesimo è finito, ma sussiste una eredità, una tradizione puritana. Anzitutto il senso di un destino particolare, di una promessa, di una missione di salvezza e rigenerazione per tutto il genere umano. ‘Questa terra è stata posta qui per essere scoperta da un popolo speciale, da una nuova genia di esseri umani chiamati gli Americani… (destinati) a rifare il mondo dall’inizio e a costruire per tutta l’umanità una luminosa città posta sul monte’. Non è una citazione da un discorso di Winthrop o da un Sermone di Edwards, ma dal Closing Statement, cioè dal Discorso Finale della campagna elettorale di Ronald Reagan nel 1980. Ma anche l’idea della New Frontier kennediana, rivalutata oggi dai democratici, non è estranea all’idea di una rigenerazione e di una missione» (3).

L’ideologia del «destino manifesto» di retaggio puritano è emerso con tutta forza nel discorso di Obama alla fine della lunga notte elettorale.
Eccone alcuni esemplari passaggi: «In America nulla è impossibile», «Yes we can», «Siamo e saremo gli Stati Uniti d’America e abbiamo dimostrato al mondo intero che non siamo semplicemente una collezione di individui di tutti i tipi».
Il tutto condito poi con l’immancabile avvertimento «ai nostri nemici nel mondo» che l’America è forte, unita e pronta a rispondere a qualsiasi minaccia (4).
Con il che torna a far capolino il manicheismo millenarista puritano sempre bisognoso del «nemico metafisico» con il quale non si può trattare e che si deve solo punire ed alla bisogna sterminare.
Bastano questi pochi passaggi per sincerarsi di quanta ideologia puritana, magari rispetto a Bush in forma prevalentemente «umanitario-pacifista», sussiste nella mentalità di Obama e di quanto «puritanesimo» si nutrirà la sua politica, anche estera.
E’ proprio questa idea, millenaristicamente pericolosa, del «destino manifesto», della «nazione eletta», l’essenza dello spirito americano ed è quello americano uno spirito certamente inquietante per una sensibilità cattolica tradizionale (attenzione: stiamo dicendo lo «spirito americano» non gli americani in quanto esseri umani, perché si deve odiare il peccato, non il peccatore).
L’idea di un’elezione divina degli Stati Uniti è stata a suo tempo ripresa, a dimostrazione della comune radice di liberal e (neo)con, da Huntington, il teorico dello scontro di civiltà, nella sua opera «La Nuova America», come il tratto caratterizzante ed irrinunciabile dell’autentica identità americana.
Huntington, che è neocon, indica in questo «destino manifesto» quella che deve essere l’idea guida della politica americana.
Ed infatti questa idea pseudo-messianica e «missionaria» è stata, in questi ultimi otto anni, alla base dell’ossessione di George W. Bush per l’«esportazione globale ed unilaterale della democrazia».
Il messianismo gnostico e millenarista, proprio della tradizione puritana, è trapelato in continuazione nelle dichiarazioni bushiste sull’America in apocalittica e titanica lotta, la «guerra al terrore», contro l’«Impero del Male».
In un breakfast di preghiera, nel 2002, ad esempio, Bush jr. affermò che: «Dalla fondazione dell’America, la preghiera ci rassicura che la mano di Dio guida gli affari di questa Nazione».
Ma, come si comprende leggendo con attenzione il discorso di Obama, la prospettiva democratica non è essenzialmente diversa da quella conservatrice: essa è solo una variante del medesimo «spirito americano».
Del resto, l’interventismo missionario americano, fino a Bush, è stato sempre più un appannaggio politico dei democratici e non dei repubblicani per lo più tradizionalmente isolazionisti.
L’America entrò nella prima guerra mondiale guidata da un presidente democratico come Wilson, quello dei 18 punti e della Società della Nazioni (ante fatto dell’ONU).
La propaganda americana dell’epoca dipinse la prima guerra mondiale come l’ultima apocalittica guerra che, abbattendo gli «oscurantisti» imperi autocratici europei, residui medioevali che si opponevano alla democrazia globale, avrebbe inaugurato la Nuova Era, il Nuovo Ordine Mondiale.

Di questa «nuova era della libertà democratica globale» l’America, che scendeva a fianco delle potenze democratiche (ma, al di là della propaganda, ci si dimenticava che a fianco di esse vi era anche l’autocrazia zarista: la rivoluzione bolscevica, finanziata dai capitali statunitensi, avrebbe risolto di lì a poco il problema), sarebbe stata il modello luminoso, tanto luminoso da scegliere di restare elitariamente al di fuori della Società delle Nazioni pur da essa imposta agli europei.
Come si vede le parole d’ordine della politica estera americana, dal nuovo ordine mondiale alla nuova era della pace universale, dall’Armageddon finale alla fine intra-storica della storia, sono sempre le stesse: quelle che anche noi abbiamo imparato a sentire imperialisticamente proclamare con maggior forza soprattutto dal 1989 in poi.
Fu ancora un altro presidente democratico, Franklin Delano Roosevelt, a spingere l’America in guerra nel 1941 contro l’opinione pubblica fino a quel momento prevalentemente isolazionista.
Nell’idea rooseveltiana secondo la quale l’America non poteva sottrarsi al suo destino storico di baluardo della democrazia, messa in pericolo in Europa dal nazifascismo, e quindi scendere a fianco dell’Inghilterra nella lotta alle potenze dell’Asse, ritorna, con tutta evidenza, l’ideologia puritana del «destino manifesto», dell’«elezione divina», dell’Armageddon finale contro l’«Impero del Male».
Per superare l’opposizione dell’opinione pubblica, fomentata dai repubblicani, favorevoli ad una politica isolazionista, Roosevelt, come è ormai acclarato, essendo stato informato dai servizi segreti dell’intenzione nipponica di un grande attacco contro la flotta americana allo scopo di privare gli Stati Uniti della loro arma migliore ed approfittarne per espandere le conquiste giapponesi nel
Pacifico oltre ogni limite prima che l’America potesse ricostruire la flotta, trasse in inganno
i nipponici concentrando a Pearl Harbor la flotta, ma tempestivamente allontanandone il grosso e lasciandovi, al momento dell’attacco giapponese, solo i pezzi di minor importanza.
In tal modo Roosevelt riuscì, in un 11 settembre ante litteram, a risvegliare il patriottismo interventista americano, che è l’altra faccia dell’isolazionismo statunitense.
Infine, in anni a noi più vicini, non si può non ricordare che la presidenza democratica di Clinton è stata una delle più «aggressive» in politica estera durante una fase nella quale la Russia eltsiniana era ridotta ai minimi termini, prima che Putin ne risollevasse le sorti.
Apice di quella politica fu l’aggressione americana alla Serbia, primo atto della fasulla e mafiosa indipendenza del Kossovo dichiarata da Bush.
Come si vede, la politica democratica è tradizionalmente ben più guerrafondaia ed interventista di quella repubblicana.
Il pacifismo in sé, del resto, è guerrafondaio sin da quando Immanuel Kant ha introdotto i concetti di «Governo Mondiale», di «Pace Perpetua» e di «Nemico dell’Umanità».
Per il pacifismo la guerra non è affatto uno strumento denegato ma solo piegato al sogno missionario della Pace mondiale, che è l’immanentizzazione, e quindi l’imitazione anticristica, della Promessa escatologica cristiana.
La guerra come Guerra per la Pace Universale è il peggior tipo di guerra perché non riconosce al nemico la dignità, né etica né giuridica, del combattente che è in armi per una causa o per un interesse diverso dal nostro ma non per questo meno legittimo.
Per il pacifismo interventista chi si oppone al sogno umanitario e democratico della Pace Globale è «al di fuori dell’umanità» ed in quanto tale è un nemico, da sterminare, al quale non è riconosciuta alcuna dignità di essere umano: da qui le demonizzazioni del nemico come «criminale contro l’Umanità» o come l’«Hitler di turno».
I tribunali internazionali nei quali i vincitori si ergono a giudicare i vinti sono un’invenzione del diritto umanitario globale, ossia dell’ideologia pacifista.
       
L’ideologia umanitaria, pacifista e democratica nasconde alla propria radice un’inquietante ambiguità per non dire di più.
Sembra che Obama, il 20 gennaio prossimo, quando si insidierà alla Casa Bianca, voglia prendere ad ispirazione un passaggio del discorso che Abramo Lincoln tenne a Gettysburg, dopo la sconfitta dei confederati del Sud che ne segnò le infauste sorti militari.
Si tratta di uno dei testi più celebri della storia americana, quello del «A New Birth of Freedom» («Una nuova nascita della Libertà»).
Lincoln, il presidente anti-schiavista della guerra di secessione, la guerra del Nord industriale e protezionista contro il Sud agricolo e liberista, è da sempre l’idolo del nero Obama.
Il neo-eletto presidente aprì la propria campagna elettorale nel febbraio 2007 a Springfield, in Illinois, davanti al Capitol dove hanno cominciato le loro carriere politiche sia il presidente della metà del XIX secolo, Lincoln appunto, sia il neo-eletto presidente.
Obama ha citato Lincoln anche nel discorso della vittoria di martedì 4 ottobre notte a Chicago, e lo aveva utilizzato come riferimento in vari discorsi-chiave della campagna elettorale, compreso quello della nomination a Denver (5).
Nello stesso anno del «Gettysburg Address», nel 1863, Lincoln però scriveva: «… La regione va disinfestata da tutte le tribù indiane, indipendentemente dal fatto che siano o meno in guerra contro i bianchi... gli uomini devono essere uccisi in qualunque momento e in qualsiasi luogo vengano trovati …».
Nel 1867 il grande padre della grande patria americana così scriveva in una lettera privata: «Esiste un naturale disgusto da parte di quasi tutti i bianchi all’idea di una mescolanza indiscriminata della razza bianca e di quella negra. Da parte mia, protesto contro quel tipo di logica bastarda secondo la quale dal fatto che io, ad esempio, non voglia avere come schiava una donna negra, si deduce che debba necessariamente poterla volere come moglie... Io non ho bisogno né dell’una né dell’altra... Sotto molti aspetti essa non è infatti uguale a me. Per me, la separazione delle razze costituisce l’unico sistema per evitarne la mescolanza» (6).

Obama il nuovo Roosevelt antifascista?

Dopo aver esposto le ragioni per evitare il contagio della obamite, è ora necessario guardare al «lato politico» della presidenza americana che si annuncia.
Ed il lato politico è oggi strettamente legato alla crisi epocale e globale della finanza che è niente di più e niente di meno, anche se i suoi fautori si stanno dannando per negarlo sui media, che crisi del liberismo.
E non solo crisi del liberismo finanziario ma anche di quello di mercato: con ciò non si vuol certamente dire che il mercato di per sé sparirà (i comunisti possono mettersi l’anima in pace: del mercato - ma al suo giusto posto, che è il terzo è il quarto dopo il Sacro ed il Politico - ci sarà sempre bisogno non potendo un’economia sana funzionare senza di esso) ma solo che la sua idolatria ed il suo primato, ciò che negli ultimi decenni è stata la filosofia di questo Occidente, dovranno essere necessariamente ridiscussi e abbandonati.
Quel che sta finendo in questi mesi, nei quali la crisi dall’America si va estendendo all’Europa ed al mondo intero, esattamente come accadde nel 1929, è il trentennio liberista inaugurato da Reagan e dalla Thatcher, sull’onda del successo del neo-monetarismo di Milton Friedmann e dell’impasse negli anni settanta dell’economia keynesiana (a dire il vero non dell’economia keynesiana, che puntava sulla spesa pubblica di investimento e quindi produttiva, ma della sua distorsione elettoralistico-clientelare che puntò invece sull’aumento eccessivo della spesa corrente che, insieme al sistema bancario che crea quotidianamente moneta dal nulla, è all’origine degli eccessi inflazionistici).
Ora, Obama promette un’economia nella quale lo Stato non sarà più assente, secondo il falso dogma liberale della mano invisibile del mercato che tutto aggiusterebbe da sé.
E’ stato accusato di «socialismo» (vedrete che fra un po’ passeranno all’esplicita accusa di «fascismo») e forse quel che ha in animo Obama è una sorta di New Deal in versione post-moderna.
Cosa che implica senza dubbio una forma «sociale» della democrazia, se volete una «socialdemocrazia» laddove con questo termine si volesse però indicare non l’autogestione
a-statuale della società (la sinistra, non dimentichiamolo mai, è per definizione, sia nella versione anarchica che in quella socialista, anti-statualista) ma, per l’appunto, una politica dirigista, dall’Alto, che senza negare il mercato lo inquadri, come vuole anche la Dottrina Sociale Cattolica, in precise regolamentazioni morali e giuridiche tale da renderlo strumento di bene per il genere umano, strumento dell’attuazione del Bene Comune, e non mezzo di speculazione e di cinismo individualista.
Se Obama avesse in animo lo Stato sociale di mercato, l’originale e geniale creazione storica dell’Europa di radici cattoliche (quel «capitalismo renano», il cui esempio migliore fu la solida economia della cattolica Baviera, che Alain Minc, in un libro degli inizi degli anni ‘90, benché ne paventasse le difficoltà cui andava incontro conseguenti al processo di globalizzazione, opponeva al capitalismo anglosassone come unica valida alternativa a quest’ultimo dopo la caduta del comunismo), non potremmo da parte nostra, esclusivamente sotto questo profilo e senza alcun cedimento allo spirito americano, che acconsentire con questo progetto, anche perché il modello cui, forse, occhieggia Obama, nonostante il precedente rooseveltiano (ma Roosevelt prendeva consigli dall’europeo Keynes), è europeo, profondamente europeo, non americano.

Certamente la storia non si ripete mai, almeno non si ripete mai eguale a se stessa, tuttavia il futuro non potrà fare a meno di una rivisitazione, se non addirittura di una rivalutazione, dell’economia keynesiana che è anche intervento e dirigismo di Stato.
In forme nuove, sicuramente, anche perché la realtà di oggi, rispetto a quella degli anni ‘30 del XX secolo, è molto più globale ed interdipendente.
Ma sarà senza dubbio necessario riprendere in esame le utili lezioni, storiche oltre che economiche, che gli anni tra le due guerre mondiali hanno dato al genere umano (e che sui libri della nostra disastrata scuola non sono affatto ben spiegati ai nostri studenti).
Dopo il 1929, gli Stati Uniti d’America cominciarono ad uscire dalla crisi soltanto nel 1933 e fu una risalita faticosissima, non esente da ricadute.
Solo con la seconda guerra mondiale si riuscì a rimettere definitivamente in moto l’economia americana (e ciò valga da caveat per la nostra generazione) mentre, al contrario, le economie dei Paesi europei a regime autoritario, grazie al dirigismo economico, o, come l’Italia, resistettero all’impatto che fu comunque duro dello tsunami americano, o, come la Germania, ne vennero fuori con più ampio successo già prima della guerra, ma anche lì, in Germania, in previsione del riarmo bellico.
Gli Stati Uniti dovettero aspettare il 1941 per rivedere il proprio prodotto interno lordo tornare ai livelli precedenti la crisi del 1929: ma si trattava, appunto, dell’effetto sull’economia dell’aumentata domanda di forniture militari e della spesa pubblica di guerra.
Tuttavia, sebbene forse più lentamente, si sarebbero ottenuti buoni risultati anche senza la guerra.

Il New Deal rooseveltiano, infatti, avrebbe comunque garantito la ripresa, ponendo fine al liberismo dogmatico (quello stesso che ha poi ripreso quota, nell’ultimo trentennio, con il disastroso risultato di oggi).
Il New Deal poggiava in sostanza su quattro grandi pilastri che hanno retto per mezzo secolo fino all’era reaganiana: la protezione pubblica dei meno fortunati (Social Security Act); gli investimenti pubblici finanziati dai privati con garanzia statale (le Pubblic Authorities); la separazione delle banche dalla finanza (Glass Steagall Act), provvedimento che nell’Italia fascista era già stato messo in atto insieme alla separazione del capitale bancario dal capitale industriale ed alla «pubblicizzazione» dell’intero sistema bancario nazionale; i controlli sulla Borsa (Securities Act).
Esaminando le incertezze e l’inadeguatezza con la quale le classi politiche occidentali, al di là ed al di qua dell’Oceano Atlantico, sembrano, fino ad oggi, aver affrontato la crisi globale, nonostante la concertazione europea ed il piano Paulson (7), Massimo Mucchetti, su Il Corriere della Sera del 3 ottobre 2008, ha scritto: «Perché tante incertezze, tanta clamorosa inadeguatezza? Una risposta possibile è: perché chi tiene oggi le redini, specialmente negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna, è figlio della cultura della ‘deregulation’ e dell’economia del debito pubblico mascherato e di quello privato esaltato come motore di sviluppo. Gli incendiari dovrebbero fare i pompieri. (…). Non si vede un nuovo Roosevelt che sappia ispirarsi a giuristi dal respiro filosofico di un Louis Brandeis o di un Felix Frankfurter, a economisti del coraggio intellettuale di Keynes (8), a teorici dell’impresa come Adolf Bearle e Gardiner Means. Ci saranno, ma al momento non si vedono, uomini forti, dal pensiero forte, capaci di aggredire i nodi irrisolti di un mondo dove il baricentro si sta spostando dall’Atlantico al Pacifico, dall’area delle democrazie a quella dell’autoritarismo».

Sarà Obama il nuovo Roosevelt invocato da Mucchetti per salvare, con il dirigismo economico, le democrazie come, secondo la vulgata, fece il vecchio Franklin Delano nel 1941, gettando l’America nella lotta al nazifascismo?
Anche il nipote di Roosevelt, James Roosevelt, in una intervista su Il Messaggero del 6 ottobre 2008 ha fatto un parallelo tra il nonno e Obama mentre l’intervistatrice, Anna Guaita, ricordava che il suo antenato, con la politica keynesiana, non avrebbe salvato soltanto l’economia ma anche la democrazia minacciata dal nazifascismo (9).

«Nazifascismo»: Una categoria storica falsa. Il New Deal come «fascismo americano»

L’ignoranza della storia da parte di certi giornalisti è pari soltanto all’arroganza di chi, seduto in cattedra, pretende di pontificare celando al pubblico i veri retroscena delle vicende storiche.
La categoria del cosiddetto «nazifascismo» è la più abusata nell’ambito del chiacchiericcio politico-giornalistico.
Come ha dimostrato Renzo De Felice e come ben sanno gli storici, anche quelli che tuttora la prendono in considerazione ma che per farlo hanno dovuto reimpostarla, quella del «nazifascismo» è una categoria storicamente del tutto infondata perché nessuna profonda connessione, ideologica o politologica (neanche con l’ausilio del modello «totalitario» adatto forse al nazismo ma non certamente al fascismo, che non fu un totalitarismo ma solo un «autoritarismo di massa»), è possibile rinvenire tra l’esperienza politica italiana (alla quale possono assimilarsi quella spagnola e quella post-bellica dell’Argentina peronista o altre similari degli anni trenta) e l’esperienza tedesca.
Fascismo e nazismo furono fenomeni politici essenzialmente diversi e non paragonabili, al di là delle vicende storiche che videro alleati i due regimi (10).
Ricordiamo questa diversità politologica e storica tra fascismo e nazismo anche per affermare che non c’è affatto bisogno di prendere ad esempio la Germania anni trenta, che comunque fu un esempio di regime che, a modo suo, praticò, ed è vero, una politica keynesiana (11), per dirsi sostenitori dell’economia dirigista.
La differenza tra fascismo e nazismo fu ampiamente colta anche da Pio XI, il Papa della Conciliazione che ebbe a definire Mussolini «l’uomo che la Provvidenza ci ha fatto incontrare».
Il Pontefice, infatti, mentre con l’enciclica «Mit Brennender Sorge» («Con viva preoccupazione»), consapevole delle persecuzioni messe in atto dal regime tedesco nei confronti della Chiesa in Germania, condannava fermamente e giustamente il neo-paganesimo nazista e si rifiutava, abbandonando il Vaticano per Castel Gandolfo, di incontrare Hitler in visita a Roma, elogiava, invece, nell’enciclica «Quadragesimo Anno» del 1931, in termini di attenzione però critica, il tentativo del regime fascista di realizzare un esperimento politico-economico molto vicino agli auspici che sin dal XIX secolo erano propri del cattolicesimo sociale, nato dall’esperienza dell’intransigentismo, e del corporativismo cattolico, il quale si differenziava da quello social-nazionale del fascismo perché si voleva fondato non sulla «potenza nazionale» ma teologicamente sul «Bene Comune».

«E quando parliamo di riforma delle istituzioni, - scriveva Pio XI - pensiamo primariamente allo Stato, non perché dall’opera sua si debba aspettare tutta la salvezza, ma perché, per il vizio dell’individualismo, come abbiamo detto, le cose si trovano ridotte a tal punto, che abbattuta e quasi estinta l’antica ricca forma di vita sociale, svoltasi un tempo mediante un complesso di associazioni diverse, restano di fronte quasi soli gli individui e lo Stato (…). La politica sociale porrà dunque ogni studio a ricostruire le professioni stesse (…). Avviene infatti per impulso di natura che, siccome quanti si trovano congiunti per vicinanza di luogo si uniscono a formare municipi, così quelli che si applicano ad un’arte medesima formino collegi o corpi sociali; di modo che queste corporazioni, con diritto loro proprio, da molti si sogliono dire… naturali. Siccome poi l’ordine, come ragiona ottimamente san Tommaso, è l’unità che risulta dall’opportuna disposizione di molte cose, il vero e genuino ordine sociale esige che i vari membri della società siano collegati in ordine ad una sola cosa per mezzo di qualche saldo vincolo. La qual forza di coesione si trova infatti tanto nell’identità dei beni da prodursi o dei servizi, da farsi, in cui converge il lavoro riunito dai datori e prestatori di lavoro della stessa categoria, quanto in quel bene comune, a cui tutte le varie classi, ciascuna per parte sua, devono unitamente amichevolmente concorrere (…). Un’altra cosa ancora si deve procurare, che è molto connessa con la precedente. A quel modo cioè che l’unità della società umana non può fondarsi nella opposizione di classe, così il retto ordine dell’economia non può essere abbandonato alla libera concorrenza delle forze. Da questo capo anzi, come da fonte avvelenata, sono derivati tutti gli errori della scienza economica individualistica, la quale dimenticando o ignorando che l’economia ha un suo carattere sociale, non meno che morale, ritenne che l’autorità pubblica la dovesse stimare e lasciare assolutamente libera a sé, come quella che nel mercato o libera concorrenza doveva trovare il suo principio direttivo (…). Se non che la libera concorrenza, quantunque sia cosa equa certamente e utile se contenuta nei limiti bene determinati, non può essere in alcun modo il timone dell’economia; il che è dimostrato anche troppo dall’esperienza, quando furono applicate nella pratica le norme dello spirito individualistico. E’ dunque del tutto necessario che l’economia torni a regolarsi secondo un vero ed efficace suo principio direttivo (…). Si devono quindi ricercare più alti e più nobili principi…: e tali sono la giustizia e la carità sociali. Perciò è necessario che alla giustizia sociale si ispirino le istituzioni dei popoli… e più ancora è necessario che questa giustizia sia davvero efficace, ossia costituisca un ordine giuridico e sociale a cui l’economia tutta si conformi. La carità sociale poi deve essere come l’anima di questo ordine alla cui tutela e rivendicazione efficace deve attendere l’autorità pubblica (…). Recentemente, come tutti sanno, venne iniziata una speciale organizzazione sindacale e corporativa, la quale, data la materia di questa Nostra Lettera enciclica, richiede da Noi qualche cenno e anche qualche opportuna considerazione. Lo Stato riconosce giuridicamente il sindacato e non senza carattere monopolistico, in quanto che esso solo, così riconosciuto, può rappresentare rispettivamente gli operai e i padroni, esso solo concludere contratti e patti di lavoro. L’iscrizione al sindacato è facoltativa, ed è soltanto in questo senso che l’organizzazione sindacale può dirsi libera; giacché la quota sindacale e certe speciali tasse sono obbligatorie per tutti gli appartenenti a una data categoria, siano essi operai o padroni, come per tutti sono obbligatori i contratti di lavoro stipulati dal sindacato giuridico. Vero è che venne autorevolmente dichiarato che il sindacato giuridico non esclude l’esistenza di associazione professionali di fatto. Le Corporazioni sono costituite dai rappresentanti dei sindacati degli operai e dei padroni della medesima arte e professione e, come veri e propri organi ed istituzioni di Stato, dirigono e coordinano i sindacati nelle cose di interesse comune. Lo sciopero è vietato; se le parti non si possono accordare, interviene il Magistrato (del Lavoro, nda). Basta poca riflessione per vedere i vantaggi dell’ordinamento per quanto sommariamente indicato; la pacifica collaborazione delle classi, la repressione delle organizzazioni e dei conati socialisti, l’azione moderatrice di una speciale magistratura. Per non trascurare nulla in argomento di tanta importanza, ed in armonia con i principi generali qui sopra richiamati, e con quello che subito aggiungeremo, dobbiamo pur dire che vediamo non mancare chi teme che lo Stato si sostituisca alle libere attività invece di limitarsi alla necessaria e sufficiente assistenza ed aiuto, che il nuovo ordinamento sindacale e corporativo abbia carattere eccessivamente burocratico e politico, e che, nonostante gli accennati vantaggi generali, possa servire a particolari intenti politici piuttosto che all’avviamento ed inizio di un migliore assetto sociale» («Quadragesimo anno», 1931, numeri 79, 83, 84, 85, 89, 92, 93, 94, 95, 96).

Su questa base ci fu un momento, negli anni trenta, in cui la Chiesa ed il mondo culturale cattolico sperarono, anche a seguito della Conciliazione, in una cattolicizzazione del regime fascista, che in campo internazionale catalizzasse intorno all’Italia tutti quei Paesi e movimenti cattolici, sociali e patriottici, i quali aspiravano a costituire un’alternativa da un lato al comunismo ed alle democrazie liberali e dall’altro al nazismo pagano: speranza rimasta poi delusa dalla scelta di Mussolini di allearsi ad Hitler nella alleanza dell’Asse.

Il falso storico del New Deal come lotta al «nazifascismo» trapela persino in chi incautamente sembra farsene fautore.
Il già citato Massimo Mucchetti infatti, nello stesso articolo sopra ricordato, è costretto ad ammettere: «… I mercati hanno bisogno di fiducia. Negli anni trenta gli USA la ricostruirono con la Grande Riforma prima che con gli investimenti pubblici. L’Italia fascista - coincidenza meno singolare di quanto appaia - fece lo stesso e… nel giro di 20 anni lo Stato riuscì pure a guadagnarci», dove il riferimento al guadagno da parte dello Stato, che con l’IRI assunse a proprio carico il salvataggio delle industrie e dei posti di lavoro - non, ed è qui la differenza con l’oggi, delle banche e degli speculatori - guadagno realizzato dopo venti anni, sta ad indicare una profonda linea di continuità tra l’Italia fascista e quella democratica del decollo economico del dopoguerra le cui basi furono per l’appunto impostate negli anni trenta.
Linea di continuità sempre nascosta e taciuta nello strumentale dibattito politico, quello nel quale Veltroni strilla come una pulzella violentata quando un Alemanno, pur essendosi posto sciaguratamente sulla via badogliana di mister Fini/Kippà, mostra di avere ancora un po’ di dignità e coraggio (ma, dopo le ultimissime sue dichiarazioni, dobbiamo constatare, sempre meno) per distinguere nazismo e fascismo.

Vi fu negli anni trenta persino un tempo in cui molti videro nel New Deal una forma di fascismo americano, l’unica forse possibile in una liberal-democrazia avanzata.
Del resto Franklin Delano Roosevelt fu prodigo di giudizi favorevoli verso la politica sociale dell’Italia fascista nella quale egli stesso ammetteva di vedere una fonte di ispirazione per il suo New Deal.
Roosevelt non faceva neanche alcun mistero della sua simpatia, del resto ricambiata, per «mister Mussolini» e non si trattava soltanto di non rendersi ostile la comunità italo-americana, nella quale tra l’altro si trovavano tanto fascisti che antifascisti, ma soprattutto di una profonda, consapevole, comunanza di obiettivi di politica sociale.
Simpatia confermata dalle accoglienze faraoniche tributate ad Italo Balbo quando giunse a New York dopo la sua trasvolata oceanica, impresa paragonabile per l’epoca allo sbarco sulla luna.
Negli anni trenta la rivista statunitense «Fortune» dedicava un numero speciale allo «Stato corporativo» italiano, elogiandone le realizzazioni e la capacità di aver saputo fronteggiare con successo le conseguenze della recessione internazionale del 1929.
In effetti è stato storicamente accertato che in Italia le ripercussioni di quella crisi furono meno gravi di quelle che nello stesso periodo si registrarono nel resto del mondo.
Il reddito nazionale italiano subì tra il ‘29 ed il ‘34 una flessione assai inferiore rispetto agli altri Paesi industrializzati, sicché Renzo De Felice ha potuto osservare che: «è difficile sostenere che le condizioni di vita dei lavoratori dell’industria… occupati siano notevolmente peggiorate negli anni della grande crisi» (12).
La scrittrice americana Clare Boothe Luce, che fu ambasciatrice statunitense in Italia nell’immediato dopoguerra, ammetterà negli anni ‘70 che il New Deal rooseveltiano si ispirava ampiamente alla politica sociale fascista.
«Il Popolo d’Italia» del 7 marzo 1933 dedicò il suo articolo di fondo ad una dichiarazione di Roosevelt secondo la quale il neopresidente americano intendeva seguire una linea politica sociale ed economica simile a quella di Mussolini.

Scrive Renzo De Felice in proposito: «…I giudizi che Mussolini venne esprimendo (spesso anonimamente) dalle colonne de ‘Il Popolo d’Italia’ su alcuni libri dedicati alla situazione economica internazionale e alle politiche messe in atto in altri Paesi e in particolare negli Stati Uniti per superare la crisi offrono importanti elementi per ricostruire la sua posizione e per valutare quanto gli interventi che egli veniva facendo nell’economia italiana rispondessero ad una coerente visione di fondo della situazione e dei mezzi per controllarla o rientrassero solo nella logica dell’emergenza e di una serie di provvedimenti presi caso per caso per tappare le falle più gravi. Da essi risulta che per Mussolini l’economia liberale aveva ormai fatto il suo tempo e che bisognava realizzare una ‘nuova economia’, lontana tanto ‘dall’economia incontrollata ed anarchica dell’individuo’ quanto da quella ‘monopolizzata dallo Stato’. La proprietà privata non doveva essere messa in questione; quanto all’iniziativa privata, anch’essa doveva, nei limiti del possibile, essere rispettata; ‘ma l’esercizio del diritto di proprietà non può prescindere dagli interessi di ordine generale’: ‘lo Stato non può disinteressarsi della sorte dell’economia, perché equivarrebbe a disinteressarsi delle sorti del popolo’. Queste ultime affermazioni, in sé già significative, assumono un valore ancora maggiore per il loro specifico contesto: un’ampia e assai favorevole esposizione della tematica economica generale e dei capisaldi della politica di intervento programmatico rooselveltiano, illustrati dallo stesso Roosevelt nel suo ‘Looking forward’. Queste ed altre prese di posizione mussoliniane (confermate dalle stesse testimonianze di alcuni dei suoi più vicini collaboratori di questi anni) non lasciano praticamente dubbi sull’intenzione e la volontà del ‘duce’ di realizzare anche in Italia una politica di crescente intervento dello Stato nell’economia e, in prospettiva, di controllo di alcuni suoi meccanismi chiave...» (13).

Il grande storico si riferisce qui ad un articolo che Mussolini pubblicò anonimamente per recensire un libro di Henry Wallace, «Che cosa vuole l’America»?
Il libro fu pubblicato in Italia nel 1934 da Einaudi.
L’autore era il ministro dell’Agricoltura di Roosevelt.
Ciò che Mussolini, pur nell’anonimato di una recensione, maggiormente ammirava nel libro era l’anti-liberismo dell’autore ed il suo favore verso un’economia programmata come voleva essere quella corporativa italiana: «Ecco un uomo che parla chiaro - scriveva Mussolini - L’economia programmata è nel programma del New Deal, del nuovo sistema, cioè, inaugurato da Roosevelt. Ma perché questo programma riesca, non bisogna limitarsi ad organizzare le ‘cose’, bisogna far entrare in azione le forze spirituali (…). Accanto a una nuova economia, è necessaria una nuova morale. L’uomo - fu detto nel discorso di Mussolini del 14 novembre dell’anno XII - non è solamente un animale economico, è qualche cosa d’altro: è una creatura molto più complessa. Wallace vuol far agire le forze morali in un campo dal quale pareva dovessero rimanere perennemente escluse, come elementi estranei o dannosi. Un economista, un uomo di governo, un americano degli Stati Uniti che parlando di economia fa intervenire il ‘cuore umano’ non ha a prima vista un aspetto paradossale? I vecchi profeti dell’automatismo economico che realizzerebbe fatalmente il migliore degli equilibri devono rabbrividire di orrore come davanti ad una profanazione. Ma il Wallace sembra non curarsene, perché aggiunge, a confusione degli scettici, ch’egli crede nella possibilità di modificare il cuore degli uomini. (Wallace, contro il darwinismo sociale liberista, afferma che è possibile)… togliere per sempre ogni valore alla teoria della lotta per la vita e sostituirla con la legge più alta della cooperazione. Il Wallace dice cooperazione. Ma egli intende corporazione. Il suo libro è ‘corporativo’. Le sue soluzioni sono corporative. Questo libro è un atto di fede, ma è anche una requisitoria tremenda contro l’economia liberale che ha fatto il suo tempo e concluso il suo ciclo. Alla domanda: che cosa vuole l’America?, si può rispondere: tutto, fuorché un ritorno all’economia liberale, cioè anarchica. Se poi qualcuno domandasse: dove va l’America? Ebbene, dopo la lettura del libro di Henry Wallace, si può tranquillamente affermare che l’America va verso l’economia corporativa, cioè verso l’economia di questo secolo. Merito e gloria della rivoluzione fascista quella di aver aperto la grande strada sulla quale - a poco a poco - marceranno tutti i popoli» (14).

Potrà dirsi, e siamo parzialmente d’accordo, che Mussolini fu cattivo profeta dal momento che il liberismo a partire dagli anni ‘80 del XX secolo è tornato prepotentemente alla ribalta riportandoci allo scenario del 1929, ma va detto che questo fu possibile anche perché la Corte Suprema statunitense, il covo del conservatorismo liberale americano, spezzò le ali al New Deal, considerandolo - non a torto - estraneo allo spirito puritano e calvinista degli Stati Uniti e costringendo lo stesso Roosevelt a moderare il dirigismo della sua politica, lasciando così aperti gli spazi per un ritorno in forza, non appena ne fu data l’occasione, degli zombie del liberismo selvaggio.
Ma, per altro verso, Mussolini fu invece buon profeta perché, al di là dei regimi politici, l’economia dirigista ed interclassista, che lui chiamava «corporativa», è stata in effetti, nel dopoguerra, l’economia dello sviluppo di tutti gli Stati europei ed occidentali anche in regime democratico.
E non solo degli Stati europei dal momento che Paesi come l’Argentina di Peron ed Evita, l’Egitto di Nasser, la Libia di Gheddafi, l’Iraq di Saddam, la Persia di Reza Palevi, l’Iran di Khomeini, e molti altri Paesi in via di sviluppo, hanno adottato, con le loro rivoluzioni nazionali e religiose, un tipo di economia molto simile a quella che Mussolini definiva «corporativa».

Ancora una pagina defeliciana

Vi è un’altra stupenda pagina di Renzo De Felice che spiega le strette connessioni tra l’esperimento dirigista del fascismo italiano e quello del New Deal americano ma soprattutto la simpatia che il primo ebbe in vasti settori dell’opinione pubblica e dei circoli politici dei Paesi liberal-democratici.
Una pagina che è necessario riportare integralmente per poter toccare con mano il clima dell’epoca della quale stiamo trattando: «Agli effetti della ‘fortuna’ del fascismo italiano - scrive lo storico - (l’) efflorescenza di partiti fascisti minori è… un aspetto secondario… più importante… e se mai un altro aspetto: quello dell’ammirazione e del consenso che in numerosi ambienti democratici e liberali suscitò la politica economica attuata in Italia per fronteggiare la crisi. Voci in questo senso si levarono un po’ dappertutto, in Europa come in America, e non di rado allargando il discorso dai singoli interventi messi in atto dal governo fascista al corporativismo, come avvio di un nuovo e più razionale sistema economico. Per quel che riguarda gli USA, bene il Diggins ha sintetizzato lo stato d’animo da cui queste voci prendevano le mosse: ‘Negli anni trenta lo Stato corporativo sembrò una fucina di fumanti industrie. Mentre l’America annaspava, il progresso dell’Italia nella navigazione, nell’aviazione, nelle costruzioni idroelettriche e nei lavori pubblici offriva un allettante esempio di azione diretta e di pianificazione nazionale. In confronto all’inettitudine con cui il presidente Hoover (il predecessore di Roosevelt che non seppe prevenire la crisi del 1929: insomma un G.W. Bush dell’epoca, nda) affrontò la crisi economica, il dittatore italiano appariva un modello di attività’. Si spiega così come nel maggio ‘32 una rivista come ‘Fortune’ scrivesse: ‘Nella crisi mondiale contrassegnata dallo smarrimento e dall’incertezza del governo, Mussolini rimane saldo. Egli presenta, anche, la virtù della forza e di un governo centralizzato che opera subito e senza incontrare opposizione per il bene dell’intera nazione’. E si spiega anche perché due mesi dopo la liberale e antifascista ‘Nation’ arrivasse ad auspicare un Mussolini anche per gli Stati Uniti. Né questo atteggiamento mutò sostanzialmente dopo l’elezione di Roosevelt alla presidenza. Che Roosevelt fosse un sincero democratico è fuori dubbio. Per lui a quest’epoca Mussolini e Stalin erano ‘fratelli di sangue’. Ciò non gli impediva però di considerare il ‘duce’ un ‘vero galantuomo’, di tenersi in contatto con lui e di dirsi ‘molto interessato e profondamente impressionato da ciò che egli ha realizzato e dal suo comprovato onesto sforzo di rinnovare l’Italia e di cercare di impedire seri sconvolgimenti in Europa’. E se il presidente guardava con curiosità ed interesse alla politica economica fascista (specie in materia di sicurezza sociale), il corporativismo, specialmente nella interpretazione interventista e pianificatrice datane da Bottai, interessò in questo periodo non pochi studiosi e tecnici americani, tra i quali alcuni dei massimi dirigenti della NRA (il principale ente amministrativo per l’attuazione del New Deal, nda), come J. Farley (che nel ‘33, di ritorno da un viaggio di studio in Italia, scrisse a Roosevelt una entusiastica relazione sui progetti mussoliniani di bonifica) e come il suo stesso capo H. Johnson (che al momento di lasciare la sua carica avrebbe fatto esplicito riferimento al ‘nome luminoso’ di Mussolini). Un esempio assai significativo di questo interesse è offerto dal numero speciale sul corporativismo italiano pubblicato nel ‘34 da ‘Fortune’. Esso offre infatti bene la possibilità di rendersi conto sia dei caratteri e dei limiti dell’interesse americano per il corporativismo, sia delle riserve che l’andamento dell’economia italiana suscitava oltre oceano, sia infine di cosa intendessero coloro che affermavano che ‘lo Stato corporativo sta a Mussolini come il New Deal sta a Roosevelt’. Né si deve credere che l’ammirazione e il consenso per la politica economica fascista fossero solo un fatto americano. Esempi significativi nello stesso senso si possono cogliere in Francia e soprattutto in Inghilterra. E in questo Paese non solo a destra, tra liberali e conservatori, ma anche tra gli stessi laburisti. Tipiche in questo senso sono due interviste, una di Lloyd Gorge al ‘Manchester Guardian’ del 17 gennaio ‘33, nella quale il vecchio leader liberale affermò che lo Stato corporativo mussoliniano era ‘la più grande riforma sociale dell’epoca moderna’…, l’altra del capo dell’opposizione laburista Landsbury al ‘News Chronicle’ del 16 febbraio ‘33, nella quale,…, egli affermava: ‘Io non riesco a vedere che due metodi, e questi sono già stati indicati da Mussolini: lavori pubblici o sussidi. A mio avviso vi è una enorme quantità di opere che possono essere compiute nel campo dell’agricoltura e della bonifica, nelle strade, nelle comunicazioni e nelle miniere… Se io fossi un dittatore, io farei come Mussolini: sceglierei cioè gli uomini che sappiano tracciare dei piani di opere pubbliche effettivamente utili al Paese e continuerei risolutamente sulla mia strada fino a portare una completa riorganizzazione nella vita nazionale’. Né, ancora, si deve credere che l’ammirazione e il consenso per la politica economica fascista riguardassero solo dei politici o dei tecnici alla ricerca di soluzioni pratiche con le quali fronteggiare la crisi. Esempi significativi nello stesso senso si possono infatti trovare anche a livello di intellettuali e di studiosi puri, non impegnati operativamente nella gestione politica o economica. Tipico è il caso di W. Sombart (15), che, alla fine del ‘32, dichiarò: ‘Uno dei meriti più alti del fascismo consiste, secondo me, nell’aver completamente superato il concetto della lotta di classe, di aver invece ammesso il saggio contemperamento del principio di iniziativa individuale e della libera produzione col principio dell’organizzazione e del corporativismo, sì da evitare, nello stesso punto, lo scoglio di una centralizzazione livellatrice, statolatrica, bolscevizzante… Se il secolo scorso è per me caratterizzato dal primato dell’economia - la ipertrofia capitalistica la quale ha suscitato il mito marxista della lotta di classe in senso assoluto - il secolo attuale io sono convinto che sarà caratterizzato da un nuovo predominio dell’elemento politico sull’elemento economico, non in senso assolutistico e assorbitore, ma in senso, come ho detto, razionalizzatore e regolatore, oltreché nel senso di collegare le forze dell’economia privata ad un piano più alto di fini, ove esse non sono annullate, ma integrate. E’ per questo che io considero la nuova Italia e la sua notevolissima creazione, lo Stato corporativo, con ammirazione di uomo e con attenzione di scienziato. Essa mi offre invero l’esempio della prima realizzazione costruttiva del dopoguerra che non potrà non significare anche una pietra miliare per la via che ogni altra nazione tesa alla propria integrazione politica ed economica non potrà non seguire» (16).

Continuità della politica sociale ed economica tra fascismo ed antifascismo


Liberali conservatori intelligenti come Sergio Romano conoscono bene quanto sia stretto il rapporto che ha legato, sia in America che in Europa, il New Deal e, più in generale, in perfetta continuità storica, l’intera economia «keynesiana» del dopoguerra al dirigismo corporativista fascista anteguerra.
Recensendo la riedizione, per le edizioni Segnalibro di Torino, nel 1998, di un libro del 1923, «Lo Stato che declina», del pensatore liberale Robert de Jouvenel, zio del più noto politologo Bertrand, l’ambasciatore Sergio Romano ha sottolineato il carattere sostanzialmente corporativista delle idee espresse in quel libro, tra le quali quella di associare le rappresentanze dei lavoratori alla fase decisionale nell’azienda e quella del parlamento professionale e sindacale al quale delegare tutte le materie per le quali il parlamento politico non ha le competenze neanche tecniche, come contratti collettivi, condizioni di lavoro, tariffe doganali, legislazione sociale, anche con l’intento di porre fine, mediante la diretta e visibile rappresentanza degli interessi costretti a confrontarsi e mediare con gli altri interessi, alle pressioni con le quali le varie lobby, da quelle industriali e bancarie a quelle sindacali e professionali o territoriali, influenzano occultamente, nel regime parlamentare liberale, i deputati ed i governi.
Importante è però quanto poi aggiunge lo stesso Sergio Romano: «Ciascuna di queste idee attraversa il secolo e riappare con forme diverse in molti regimi politici. La rappresentanza dei ‘lavoratori intellettuali e manuali’ alla ‘fase decisionale’ diventa la ‘partecipazione’ dei gollisti, il consiglio di fabbrica italiano e la ‘mitbestimmung’ (la codeterminazione o cogestione, nda) del ‘capitalismo renano’. Il parlamento professionale diventa la Camera delle Corporazioni nella variante fascista o salazariana, la ‘National Recovery Administration’ di Roosevelt (una ‘authority’ per la regolamentazione del mercato che la Corte Suprema, nel 1935, dichiarò incostituzionale), il ‘Commissariat au plan’ del dopoguerra francese o la formula italiana del ‘Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro’. Anche quando fioriscono in sistemi politici diversi molti programmi economici dirigisti e interventisti sono legati da vincoli di cuginanza ideale. La distinzione tra fascismo ed antifascismo diventa in queste materie irrilevante. Mussolini non aveva del tutto torto quando scrisse nel ‘Popolo d’Italia’ che il New Deal era parente del fascismo (…). L’idea di una sede in cui industriali e sindacati dovrebbero trovare una intesa nazionale… (oggi) si chiama ‘concertazione’ (ed è) lontana nipote di quella ‘Camera delle corporazioni’ che piacque, fra le due guerre, a tanti intellettuali europei» (17).
Che in queste materie la distinzione tra fascismo ed antifascismo non sussiste è cosa lapalissiana a chi conosce anche solo un poco la storia del XX secolo.
Ma non conoscono affatto la storia del secolo appena trascorso, e se la conoscono fanno ora finta di non conoscerla per questioni di carriera politica o professionale, i vari Fini, Alemanno, Veltroni, Ferrero, Berlusconi ed anche, evidentemente, il nipote di Roosevelt nonché la maggior parte dei giornalisti pennivendoli che infestano le redazioni dei giornali quotidiani e delle televisioni, tutti interessati, appunto per questioni di posti e poltrone, a mantenere agli occhi della gente quella distinzione che se cadesse svelerebbe che il «re» della speculazione finanziaria e del capitalismo liberista di tipo anglosassone è del tutto nudo.

Il socialista e sindacalista Bruno Buozzi, che fu arrestato ed assassinato dai nazisti all’indomani dell’8 settembre su soffiata del PCI, all’atto di prendere in consegna, per conto del governo Badoglio, la gestione dell’apparato sindacale corporativo ereditato dal fascismo, ebbe a riunire
i vecchi quadri sindacali fascisti elogiandoli per l’immensa opera giuridica e quotidiana che quell’apparato aveva saputo profondere a tutela del lavoro ed auspicando non la sua eliminazione ma soltanto la sua democratizzazione: un auspicio che era già stato di Giuseppe Bottai, fascista di sinistra.
Questa posizione di valorizzazione dell’ordinamento sindacale-corporativo segnò la sua fine e spiega la soffiata partita dal PCI.
Giuseppe Di Vittorio, che pure ebbe trascorsi di sindacalista rivoluzionario, e dunque appartenne a quella sinistra «eretica» ed interventista, ossia nazionale, dalla quale nacque anche il fascismo, scriveva il 13 febbraio 1944 a proposito delle idee di Buozzi: «Si sentono dire da Buozzi cose da mettersi le mani nei capelli. C’è da augurarsi che egli non le dica mai in pubblico. Giunge a dire, ad esempio, che la più parte delle leggi sindacali fasciste, dei contratti di lavoro, la Carta del Lavoro, sono ottime cose alle quali basterà cambiare qualche parola, per la forma, e potremo apporvi la nostra firma» (18).
Ma l’auspicio di Buozzi si realizzò comunque nel dopoguerra perché tra la «Carta del Lavoro» del 1927, di Rocco e Bottai, la Costituzione Repubblicana, nata dalla resistenza, nella sua parte economica e lo «Statuto dei Lavoratori» del 1968, che lo si voglia o meno, esiste una sostanziale continuità ideale sotto il profilo giuridico, sindacale ed economico.
Ne sono prova alcuni articoli della nostra Costituzione che esprimono per l’appunto la volontà, anche se non del tutto attuata secondo le forme ivi previste, di democratizzare, come avrebbe voluto Buozzi, il sistema corporativista fascista nonché la volontà di recuperare alcuni suoi sviluppi socializzatori del periodo della Repubblica Sociale Italiana.
Parliamo in particolare dell’articolo 39 della Costituzione sul riconoscimento giuridico dei sindacati e dei patronati nonché dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi di lavoro, che prevede una «rappresentanza unitaria degli interessi» nella quale far confluire su base democratica le varie sigle sindacali e padronali in una sorta di riedizione della corporazione fascista (articolo poi mai attuato per i timori dei sindacati cattolici di rimanere schiacciati numericamente da quelli comunisti all’interno della rappresentanza unitaria, sicché la giurisprudenza per assicurare la validità generale dei contratti collettivi adottò il criterio diventato noto a tutti di ritenere validi erga omnes i contratti stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, ossia dalla triplice, ma senza che mai si sia effettuato un controllo di tale presunta maggiore rappresentatività), e dell’articolo 46 della Costituzione sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione ed ai risultati economici dell’azienda che, anch’esso mai attuato per l’opposizione congiunta della Confindustria e della sinistra comunista, si ispira con tutta evidenza ai cosiddetti 18 punti di Verona ossia al manifesto programmatico della RSI nel quale si prevedeva la socializzazione della industrie mediante la paritetica cogestione e partecipazione agli utili d’impresa tra capitale e lavoro.
Come si vede, anche da questi esempi, distinguere, in materia sociale ed economica, tra fascismo ed antifascismo è solo uno specchio per allodole utile alle intenzioni di chi vuole nascondere l’unica vera distinzione reale: quella tra un capitalismo prevaricatore, speculatore, individualista e cinico, che pur contrastato ha sempre trionfato nei Paesi anglosassoni (vedasi la bocciatura che la Corte Suprema fece nel 1935 della politica economica rooseveltiana) ed un capitalismo sociale, nazionale, partecipativo, comunitario tipico dello Stato sociale di mercato europeo.

Ed il mondo cattolico?

Come ha rilevato Maurizio Blondet, Obama appena eletto ha fatto qualcosa di «sinistra» nel senso liberal, ossia radical-chic, che ormai, con vivo dispiacere dei vecchi comunisti togliattiani e stalinisti, ha questa parola.
Favorire il relativismo etico però è una contraddizione per chi, come Obama, vorrebbe poi una economia regolata e non più liberista.
Infatti il liberismo è il volto economico del relativismo filosofico ed etico.
Sicché continuare nel trucco del pensiero dicotomico, che oppone ciò che dovrebbe stare assieme come la contestuale denuncia del relativismo e del liberismo, è suicida per qualsiasi buona intenzione che in politica economica possa nutrire Obama.
Ma del pensiero dicotomico sembra purtroppo prigioniera anche la Chiesa che alle prese con la giusta e sacrosanta battaglia in difesa della vita contro aborto ed eutanasia si fa schiacciare su una della due parti nel sistema politico bipolare dei Paesi occidentali.
Non a caso l’ex arcivescovo di Saint Louis, monsignor Leo Raymond Burke, attualmente alla guida del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica (quanta «America», ossia quanto catto-protestantesimo, vi è, purtroppo, nella curia di Benedetto XVI!), si è immediatamente detto deluso dai cattolici che hanno votato l’abortista Obama (19).
Crediamo, però, che l’alto prelato non tenga in debito conto il dramma dei cattolici americani che rischiano, causa sub-prime e crisi globale, di restare senza casa e senza lavoro.
E’ vero che «non di solo pane vive l’uomo», ma con queste parole Nostro Signore Gesù Cristo ha implicitamente detto che «anche di pane vive l’uomo» ed infatti la Chiesa ha sempre insegnato, antignosticamente, che l’essere umano è fatto di anima e di corpo e vive sia di esigenze spirituali che materiali.
La carità, infatti, secondo l’insegnamento tradizionale è fatta, per l’appunto, di opere di carità spirituale e di opere di carità materiale.
Sia ben chiaro: da parte nostra condividiamo e sosteniamo completamente ed indiscutibilmente quanto la Chiesa fa per difendere la vita a fronte di politiche nichiliste e libertarie (che, per l’appunto, come dice lo stesso aggettivo, hanno radici nella cultura del soggettivismo che in politica altro non è che liberalismo ed in economia liberismo).
Diciamo soltanto che Essa, oggi, non sembra, a differenza di un tempo, del tempo preconciliare, affrontare la battaglia contro il liberalismo/liberismo a tutto tondo ossia anche sul piano politico e socio-economico, denunciandolo chiaramente ed insistentemente così come fa nel campo della bioetica con il relativismo morale.
Il fatto è che la Chiesa si è in qualche modo arresa alla secolarizzazione politico-economica e spera di conservare posizioni soltanto in ambito etico e morale, senza rendersi conto che la battaglia così impostata, ovvero dimezzata, è già persa in partenza, anche perché senza concretezza sociale la gente, salvo esserne toccata direttamente come succede a coloro che vivono i drammi dell’aborto e dell’eutanasia, percepisce i temi bioetica in termini di astrazione dai problemi quotidiani.
Chi non prova un senso di desolazione di fronte ai vari Ruini e Bagnasco che dai TG annunciano gli ultimi inutili «decreti»?
Lo diciamo da cattolici: è penoso vedere questo o quel teologo o prelato di Santa Romana Chiesa disquisire con i Cacciari ed i Giorello da Bruno Vespa di questioni etiche nell’indifferenza del pubblico che sotto sotto simpatizza per i filosofi laicisti.
La Chiesa non deve essere catodica, e deve, come un tempo, parlare soltanto come Madre e Maestra ossia docente dalla cattedra, senza abbassarsi al dialogo che è strumento di confusione tipicamente liberale.
Il dialogo lo deve lasciare ai cattolici laici.
Invece, nonostante tutti i proclami del Vaticano II, la Chiesa di oggi è diventata molto più clericale di un tempo.

Eppure la Chiesa ha al suo attivo un antico magistero sociale al quale dovrebbe oggi, proprio oggi, richiamarsi riattualizzando documenti eccezionali come la già citata «Quadragesimo Anno» di Pio XI.
Infatti, nell’immediato dopoguerra, anche grandi studiosi dell’economia presero molto sul serio quella enciclica papale.
Cinque anni prima di morire in una pubblica conferenza a Montréal nel 1945 («L’avenire de l’enterprise privée devant les tendances socialistes modernes»), l’economista austriaco J. A. Schumpeter, sorprendendo tutti gli studiosi del suo pensiero, si schierò a favore del corporativismo come dottrina politica ed economica (20).
Schumpeter auspicò l’instaurarsi di un sistema economico fondato sul corporativismo cattolico, così come delineato dalla enciclica «Quadragesimo anno» di Papa Pio XI (1931).
Secondo Schumpeter il capitalismo ha dimostrato avere saggi di crescita importanti e l’incremento globale del prodotto non è maturato in modo sfavorevole alla classe operaia.
Ne segue che il progresso materiale della classe operaia non è legato alla lotta di classe.
Ma neanche l’individualismo economico liberale è una buona prassi dei rapporti industriali.
La visione necessariamente conflittuale dei rapporti sociali, che nasconde una evidente antropologia negativa di radice protestante, è irrealistica oltre che errata, perché il «fascio delle forze che fanno funzionare l’organismo sociale contiene sia elementi di solidarietà che di antagonismo» sicché gli elementi di cooperazione e di antagonismo devono necessariamente convivere in un quadro giuridico finalizzato al Bene Comune.
In una società normale questi elementi si integrano in modo armonioso nel quadro di una cultura e di una fede comuni, le quali impediscono l’accentuarsi degli antagonismi.
Pertanto per Schumpeter le ricorrenti crisi del capitalismo sono manifestazioni di una più grave crisi sociale, le cui cause non devono essere ricercate nell’ambito strettamente economico.
Infatti «le famiglie, le officine, le società - affermò Schumpeter - non funzionano se nessuno accetta i propri doveri, se nessuno sa farsi accettare come leader e se ciascuno è intento a tracciare il bilancio dei propri vantaggi e svantaggi personali e immediati ad ogni istante».
Quindi, le crisi economico-sociali sono una crisi strutturale, che affonda le radici proprio nella mentalità conflittuale: viene a mancare la percezione di appartenenza ad uno stesso corpo che è culturale e spirituale prima che economico.
Alla radice di queste crisi Schumpeter individua la filosofia utilitaria dell’Ottocento dalla quale attingono congiuntamente la propria linfa sia il liberalismo che il marxismo.
Come rimedio Schumpeter indica il ricorso «… all’organizzazione corporativa nel senso auspicato dall’enciclica ‘Quadragesimo anno’. […] Tale dottrina […] riconosce tutti i fatti dell’economia moderna. […] Il principio corporativo organizza ma non irregimenta. Si oppone a ogni sistema sociale a tendenza centralizzatrice e a ogni irregimentazione burocratica; in effetti, è il solo modo per rendere impossibile quest’ultima».
Ma ciò non è sufficiente.

Il «Papa non parlava delle nuvole» perché aveva di mira soprattutto l’insufficienza e l’incapacità del liberalismo economico di fronte ai problemi reali, sicché il Papa - affermò Schumpeter - ha richiesto anche l’intervento del potere politico. […]
Un intervento che non deve essere concepito come la semplice e meccanica sostituzione al fallimentare laissez faire del meccanismo burocratico che pure è necessario al potere politico per intervenire.
Ora, il corporativismo associativo evita il meccanicismo sociale proprio nel momento in cui invoca l’intervento e la presenza, nel giusto suo ruolo, dell’Autorità politica e dei pubblici poteri.
Il corporativismo richiede l’Auctoritas pur non potendo essere imposto o creato dal potere
legislativo, che può solo dare ad esso forma giuridica nell’ambito dello Stato moderno.
Il corporativismo non si realizza, però, senza una fede che ispiri l’agire umano.
Il corporativismo implica soluzioni economiche strettamente connesse, però, a tutta una serie di implicazioni extra e sovra-economiche.
L’economista austriaco finì per cogliere la grandezza di un’epoca unitaria come il Medioevo che, nella sua mistica unità imperiale, manifestò un ordine finalisticamente impostato: ogni persona è orientata al rapporto col Mistero, e ciò è vero anche nelle edificazioni temporali dell’uomo, anche in ciò che è economico e sociale.
La Chiesa nel Sacro, l’Impero in politica e le corporazioni in economia furono, nel medioevo, un segno di questo rapporto con il Mistero.
E’ con l’umanesimo che iniziò quel processo di disarticolazione culturale che porterà l’uomo a rifiutare gradualmente il suo rapporto con il Mistero.
Il processo culminerà nella Rivoluzione Francese, nello scardinamento delle strutture tradizionali, nel modernismo.
Nel riferirsi al corporativismo non a caso Schumpeter si richiama agli insegnamenti di Pio XI che affondano direttamente nella tradizione cattolica medievale.
Il centro della questione, dunque, non è per Schumpeter di matrice strettamente economica: perché le dinamiche cooperative superino con efficacia quelle di antagonismo è necessario che un popolo condivida una struttura spirituale.
Non una morale od un’etica, ma una coscienza, la consapevolezza di un’appartenenza comune e di un destino ultraterreno condiviso, consapevolezza che fu tipica della Res Publica Christianorum medioevale.
Ma oggi avete mai sentito un intellettuale cattolico argomentare negli stessi termini di Schumpeter?
Oppure avete mai sentito un prelato condannare la speculazione finanziaria come fece Pio XI nella «Quadragesimo Anno»?

Anche Renzo De Felice ebbe ad osservare, con riferimento particolare al periodo precedente la seconda guerra mondiale, ma il suo discorso è del tutto estensibile anche all’oggi, che:
«… l’influenza cattolica sulla storiografia è quasi inesistente, salvo in settori del tutto particolari e in buona parte legati a una matrice precisa. Settori particolari, nel senso di settori che si occupano - è difficile dirlo, perché dire ‘storia economica’ sarebbe troppo, ma non è facile trovare un altro termine - di studi connessi alla vita economica non tanto sotto il profilo dell’analisi delle condizioni sociali, quanto piuttosto sotto il profilo dello studio di un pensiero riformista cattolico e di certe particolari iniziative. Oltre ad avere questo carattere, essa in parte ha anche motivazioni di ordine politico. E’ espressione di un gruppo, che si forma soprattutto nell’ambito dell’Università Cattolica di Milano. Forse il nome più facile da mettere a fuoco, il più noto, è Fanfani che viene proprio da questo gruppo».
Secondo il noto storico del fascismo questo minoritario indirizzo di studi storico-economici nacque in polemica con il corporativismo fascista.
Da parte nostra riteniamo  errato questo giudizio perché piuttosto negli anni trenta ci fu da parte della Chiesa e del mondo culturale cattolico la speranza di una trasformazione in senso cattolico-social-nazionale del regime che ne permettesse il «battesimo» (speranza che venne meno a seguito della funesta alleanza perdente con il neo-paganesimo nazista).
Si pensi, come esempio, proprio agli scritti pieni di attenzione elogiativa, benché non esenti da necessarie puntualizzazioni critiche, al corporativismo fascista di un giovane professore di storia delle dottrine economiche alla Cattolica di Milano, citato anche da De Felice, ossia Amintore Fanfani.
Certamente pur nutrendo quella speranza, da parte della Chiesa e del mondo cattolico, lo si è già visto nella citazione della «Quadragesimo Anno» sopra riportata, l’esperimento fascista, pur apprezzato, veniva anche benevolmente criticato nelle sue insufficienze teoriche e pratiche.
Ed in questo senso, solo in questo senso, che il giudizio di De Felice può avere un suo fondamento:
«Dicevo - egli scrive - anche motivazioni di ordine politico: attraverso un certo tipo di discorso sulle riforme economiche, spesso anche abbastanza remote, settecentesche - basta pensare agli studi di Canaletti Gaudenti - si opera il recupero di certi valori e di certe idee tipicamente cattoliche del corporativismo, in contrapposizione o in polemica, più o meno velata, con il corporativismo di tipo fascista. La componente corporativa cattolica è una componente vecchia e robusta, certo anteriore a quella fascista. E’ da vedere questo tipo di indagine proprio nel senso di una presa di distanza o di discussione, specie negli ultimi anni Trenta e negli anni della seconda guerra mondiale, da parte dei cattolici di più stretta osservanza nei confronti del corporativismo fascista» (21).
Il sale ecclesiastico oggi ha a tal punto perso sapore che di recente monsignor Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali, di fronte all’attuale crisi finanziaria globale, ha dichiarato che la Chiesa non ha mai detto grandi cose su questi temi e pertanto sarebbe in ritardo rispetto alla storia (22).

Questo della Chiesa sempre in ritardo nei confronti della storia è il solito refrain dei chierici progressisti: lo si disse anche della «Rerum Novarum» di Leone XIII senza considerare che essa era soltanto la consacrazione del cattolicesimo sociale, nato, all’indomani della Rivoluzione Francese, a «destra» sul terreno dell’intransigentismo cattolico anti-liberale, che la precedette di molti decenni.
Ma monsignor Celli ha dimenticato quale ferma condanna, ancor oggi assolutamente attuale, della finanza speculativa fu solennemente pronunciata, guarda caso, nei numeri 105, 106 e 109 della «Quadragesimo Anno» di Pio XI: «E in primo luogo ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione di ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento. Questo potere diviene poi più che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il danaro, la fanno da padroni; onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso di cui vive l’organismo economico, e hanno in mano, per così dire, l’anima dell’economia, sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare (…). Nell’ordine poi delle relazioni internazionali, da una stessa fonte sgorgò… non meno funesto ed esecrabile, l’imperialismo internazionale del denaro, per cui la patria è dove si sta bene».
Il fatto è che certi prelati sono del tutto a digiuno della Tradizione anche nell’ambito del Magistero politico-sociale e questo perché nei seminari non si insegna più la dottrina cattolica ma le filosofie atee e gnostiche partorite dall’immanentismo moderno e post-moderno.
Non solo certi prelati ma anche quei sacerdoti che, come padre Livio Fanzaga di Radio Maria [che un tempo lo scrivente stimava e dal quale oggi non può non dirsi deluso per la sua deriva «cristianista», con la quale - ci dispiace dirlo - non rende affatto un buon servizio alla Madonna], tutti presi in questi ultimi anni da un’islamofobia esagerata che li ha portati ad arruolarsi nelle file huntingtoniane/bushiste dello «scontro di civiltà», sembrano disperarsi in questi giorni per la fine politica dell’America conservatrice baluardo dell’Occidente (presunto) cristiano.
Padre Livio, in uno dei suoi commenti mattutini alla stampa quotidiana, utilizzando quasi alla lettera certi termini berlusconiani, si è rammaricato dell’aurea di messianicità con la quale l’elezione di Barack Obama è stata celebrata dalla stampa italiana ed ha ricordato che nessuno ha la ricetta della panacea universale per risolvere la crisi economica globale.

Anche noi, come abbiamo spiegato all’inizio di questo nostro contributo di riflessione, siamo ben lungi dal farci incantare dalle sirene dell’«obamismo» ma non per le stesse ragioni di padre Livio, dal quale avremmo piuttosto preferito sentire, almeno qualche volta ed almeno in questa occasione, sacrosante e cristiane parole di biasimo per l’ideologia che ci ha portato alla debacle globale, ossia il liberismo che, vogliamo ricordarlo a padre Fanzaga, come il comunismo sia stato ripetutamente condannato dal Magistero, e per un presidente come Bush che lascia l’America ed il mondo nel caos.
Ma da questi prelati, da questi sacerdoti, proviene, in questi ambiti, solo un assordante silenzio.
Voglia Iddio che non venga mai quel giorno nel quale questi silenzi siano rimproverati alla nostra Santa Madre Chiesa, perché di essi responsabili sono solo certuni tra i suoi ministri, che però usano purtroppo in malo modo i pubblici microfoni ed i pubblici pulpiti, e non la Chiesa nella sua divina ed indefettibile essenza.                                                            
 
Luigi Copertino




1) Confronta Il Messaggero del 6 ottobre 2008, «I have a dream 45 anni dopo»: «Roma (5 novembre) Il sogno di Martin Luther King è diventato realtà, 45 anni dopo quell’‘I have a dream’ (‘Ho un sogno’) del famoso discorso tenuto dall’icona dei diritti civili dei neri il 28 agosto 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington al termine di una marcia di protesta per i diritti civili. Oggi i cittadini americani hanno deciso che Barack Hussein Obama sarà il primo presidente nero degli Stati Uniti, il primo uomo di colore ad insediarsi alla Casa Bianca. E un segnale indiscutibile di coraggio, di capacità di cambiare. E’ un segnale che conferma che l’America può sempre trovare dentro di sé - soprattutto quando tutto sembra andare per il verso sbagliato - la forza, la determinazione e le motivazioni per scegliere strade nuove, per avviarsi in sentieri inesplorati alla ricerca ancora di un’altra ‘nuova frontiera’ (…) . Gli Stati Uniti oggi hanno dato una lezione importante anche alla Vecchia Europa. Nei momenti difficili gli americani sanno ritrovarsi… Sanno decidere con coraggio senza guardarsi indietro, sanno scegliere senza paura di sbagliare, sanno osare voltar pagina. Non in tutti i Paesi europei oggi sarebbe possibile immaginare un presidente di colore figlio di un immigrato». Ed ancora: «La figlia di Martin Luther King, Berenice King, ha reagito oggi all’elezione del democratico Barack Obama… affermando che… ‘mio padre sarebbe stato fiero dell’America… Questo successo significa che ciò per cui mia madre e mio padre si sono sacrificati non è stato vano… E’ un nuovo giorno quello che sorge sull’America». Una bolsa e stucchevole retorica che francamente ci fa vergognare dello stato di prostrazione e di sudditanza nella quale l’Europa è precipitata. Se avesse vinto Mc Cain la stessa retorica del «sogno americano», ma in versione muscolare e non multiculturalista, ci sarebbe stata propinata dalla stampa di destra, da Il Giornale a Il Foglio.
2) Fonte: www.affaritaliani.it/ del 7novembre 2008.
3) Confronta E. Buzzi «Verso la terra promessa - L’esperienza del popolo nel puritanesimo americano» supplemento al numero 8 settembre 1994 di Litterae Communionis Tracce, Milano, pagina 17. Per capire quanto questa mentalità «puritana» abbia ormai conquistato anche la nostra povera Europa, un tempo cattolica, basta rileggere una frase dell’articolo citato alla precedente nota numero 1): «E’ un segnale che conferma che l’America può sempre trovare dentro di sé - soprattutto quando tutto sembra andare per il verso sbagliato - la forza, la determinazione e le motivazioni per scegliere strade nuove, per avviarsi in sentieri inesplorati alla ricerca ancora di un’altra ‘nuova frontiera’ ».
4) Confronta Il Messaggero del 6 ottobre 2008, «Il discorso dopo il trionfo: ‘In America nulla è impossibile. Il cambiamento è arrivato’ ».
5) Fonte: www.ilsussidiario.net del 6 novembre 2008.
6) Fonte: http://cronologia.leonardo.it/mondo19e.htm.
7) La concertazione europea anti-crisi ed il piano Paulson, con il loro soccorso pubblico agli speculatori, altro non sono che atti immorali, aiuti di Stato fino ad ieri proibiti dal dogma liberista quando si trattava delle politiche sociali, ma ora permessi per salvare i ricchi usurai mondiali: e non si dica che così si sono salvati i correntisti ed i risparmi di tutti noi perché questo scopo sarebbe stato possibile raggiungere con altri mezzi senza salvare gli speculatori.
8) Si noti - incidentalmente - che Keynes, pur non aderendovi in toto, fu interessato studioso del «social credit» del maggior Douglass e della «moneta prescrittibile» di Gesell nonché delle idee di Ezra Pound, e che, come riconobbe egli stesso, da Douglass, Gesell e Pound trasse alcune idee fondamentali per l’elaborazione della sua «Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta».
9) Ecco alcuni passaggi chiave di James Roosevelt nell’intervista di Anna Guaita (che alla stessa premette questa introduzione «Obama ha la stoffa e la forza per diventare il nuovo Roosevelt?Lo chiediamo al nipote del grande presidente che negli anni Trenta lanciò il New Deal, combatté contro il nazifascismo e inaugurò un’epoca di crescita economica e di rafforzamento della democrazia. James Roosevelt è uno degli uomini più ascoltati e rispettati del partito, di cui è consulente legale. E’ anche alla guida della Commissione che lo scorso maggio ha risolto la ‘lite’ fra Barack Obama e Hillary Clinton»): «… L’America funziona meglio quando respira un’atmosfera di idealismo (…). So che Obama intende intervenire capillarmente, nella comunità, con un grande programma di investimenti nelle strutture. Proprio come fece mio nonno (…). Dobbiamo ringraziare (per l’aumento del deficit pubblico) otto anni di amministrazione repubblicana… Dovremmo porre fine alla guerra in Iraq e al dissanguamento che ci causa, e poi accettare che per un certo periodo si deve spendere anche avendo un deficit. Se non smuoviamo la locomotiva economica, anche pagando il carburante a credito, sarà la paralisi (…). L’idea reaganiana che il governo sia parte del problema e non parte della soluzione è tramontata in questi otto anni di Bush. Abbiamo capito che il capitalismo di mercato - che rimane la nostra scelta di fondo - deve convivere con i principi della democrazia, e cioè accettare che il governo imponga delle regole e intervenga con i suoi progetti di stimolo (…).» Infine alla domanda «Crede che Obama abbia la stoffa per essere un nuovo Roosevelt?», il nipote del famoso presidente degli anni Trenta risponde: «Ho conosciuto quest’uomo… e il suo amore per l’America. Credo che siamo alla vigilia di una epoca importante. Obama può essere quello che Kennedy non poté essere perché la sua vita fu stroncata troppo presto …». Dunque, giudizio di Roosevelt nipote, Obama se non eguaglierà il nonno sarà almeno pari a Kennedy. Salvo che non faccia la stessa fine.
10) In un’intervista a Panorama il grande storico francese Francois Furet alla domanda: «Condivide lei la distinzione che De Felice ha stabilito tra il fascismo italiano e il nazismo tedesco?» ha così risposto: «Sì. Lo seguo anche in questa distinzione: non solo perché il fascismo italiano è stato un’esaltazione della nazione, mentre il nazismo si è costruito sull’idea razzista, ma anche perché il regime di Mussolini è ben lunga dall’aver costituito un disastro di tipo apocalittico nella storia italiana, paragonabile a quanto si è prodotto in Germania con il nazismo. Anzi, io tenderei persino ad andare un po’ oltre De Felice nella separazione tra i due regimi, e a escludere il regime italiano dal concetto stesso di ‘totalitarismo’. E’ un po’ paradossale, giacché il termine ‘totalitario’ è un’invenzione di Mussolini o dei fascisti italiani. Eppure, nel regime di Mussolini non troviamo quel controllo assoluto della società da parte dello Stato, quella rivoluzione operata nel tessuto sociale che invece appare sin dai primi anni nel nazismo. Di fatto, il concetto di totalitarismo, secondo me, accomuna il regime di Stalin e quello di Hitler, anziché quelli di Mussolini e di Hitler. Fra l’altro, non sono sicuro che lo stesso De Felice non propendesse in questo senso, quando parlava di ‘gradi’ che separano le esperienze totalitarie, come nell’ultima discussione che abbiamo avuto insieme, dove lascia aperta la questione. L’alleanza tra i due regimi si deve però addebitare anche agli errori di Francia ed Inghilterra che, in occasione dell’impresa coloniale etiopica, gettarono tra le braccia di Hitler l’Italia di Mussolini che solo due anni prima, all’indomani dell’assassinio del cancelliere austriaco, cattolico social-nazionale, Dollfuss, perpetrato il 25 luglio 1934 dai nazisti austriaci, unica in Europa, inviando quattro divisioni al Brennero, aveva fermato l’Anschluss, che altrimenti si sarebbe avverato con anticipo. In quell’occasione Mussolini, anche per evidenziare alla sorda Francia le differenze di ‘civiltà’ tra Italia e Germania, così il 6 settembre di quello stesso anno, in un discorso a Bari, giudicava l’ideologia nazista: ‘Trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine di oltr’Alpe, sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scrittura, con la quale tramandare i documenti della propria vita, nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio e Augusto».
11) La politica «keynesiana» della Germania hitleriana fu ispirata da Hjalmar Schacht, presidente della Reichsbank, ossia il banchiere centrale tedesco, inventore dei cosiddetti «effetti Mefo», una sorta di cambiale a garanzia statale con la quale, senza aumentare spesa pubblica ed inflazione, lo Stato, pagando gli industriali suoi fornitori, sosteneva sì l’economia nazionale ma in funzione del riarmo tedesco per il Nuovo Ordine Europeo (questo dei «nuovi ordini» è il sogno ricorrente, desunto dalla loro eredità massonica, dei più disparati movimenti e regimi: anche il nazismo, con il suo culto nazionale teofanico, altro non fu che una setta, fuoriuscita dal calderone dell’occultismo esoterico della «Germania segreta» del XIX-XX secolo, che, a differenza di altri similari gruppuscoli che infestavano la Germania, e l’Europa, del tempo, riuscì a trasformarsi in un moderno partito di massa imponendo ad un intero popolo il proprio neo-paganesimo ed i rituali panteistici della deificata «Natura», che era all’epoca ciò che è «Gaia» oggi per gli ecologisti, e della mistica razziale del «sangue»). Schacht era ebreo ma fu nominato da Hitler «ariano d’onore». Quello degli ebrei arianizzati per decreto fu un fenomeno rilevante nella Germania hitleriana, come ha dimostrato un recente libro, del giovane storico ebreo Bryan Mark Rigg, «I soldati ebrei di Hitler», pubblicato da Newton & Compton. Furono, infatti, circa 150.000 i soldati ebrei di Hitler tra i quali Gefreiter Werner Goldberg al quale la rivista nazista «Signal» dedicò nel 1939 la copertina del «soldato tedesco ideale», additato ad esempio della purezza razziale ariana, immagine famosa tuttora spesso presente nei testi di storia anche scolastici: il che dovrebbe far riflettere chi ancora crede all’opposizione tra nazismo e sionismo, fenomeni invece segretamente conniventi ed ideologicamente affini.
12) Confronta Claudio De Boni - Enrico Nistri «L’Europa e gli altri», D’Anna, Messina - Firenze, 1992, pagina 368.
13) Confronta R. De Felice «Mussolini e il fascismo», volume IV, «Gli anni del consenso», Einaudi, 1974- 2006, pagine 166-167.
14) Confronta B. Mussolini «Che cosa vuole l’America?» articolo del 14 agosto 1934, ora nel XXVI volume dell’«Opera Omnia», Firenze, La Fenice, 1958.
15) Werner Sombart fu allievo di Giuseppe Toniolo, sociologo ed economista cattolico corporativista, nonché grande consigliere di Leone XIII anche per l’estensione della «Rerum Novarum», la prima enciclica sociale moderna della Chiesa, promulgata nel 1891.
16) Confronta R. De Felice «Mussolini e il fascismo», volume IV, «Gli anni del consenso», Einaudi, 1974- 2006, pagine 541- 544.
17) Confronta S. Romano «I luoghi della storia - un bilancio del ‘900», BUR, Milano, 2001, pagine 398-399.
18) Citato in Aldo Forbice «Matteotti, Buozzi e Colorni», Franco Angeli, Milano, 1996. Confronta anche l’articolo di Marco Daniele Clarke su Il Tempo del 4giugno 1997. Forbice identifica i motivi ideologici dello scontro tra Buozzi e Di Vittorio nella coerente impostazione politica del primo, fedele alle idee di Turati, Treves, Modigliani e Matteotti. Lo stesso PCI, nel dopoguerra, si mise alla ricerca dei vecchi sindacalisti fascisti allo scopo di reclutarli nelle proprie fila dal momento che erano gli unici ad avere competenza ed esperienza sindacale ed in quanto come ebbe a dire Togliatti, in occasione del suo placet alla giunta comunista-missina di Milazzo negli anni ‘50, consapevole delle origini di sinistra del fascismo e memore dell’appello «Ai fratelli in camicia nera» lanciato dal PCI negli anni trenta sulla rivista parigina «Lo Stato operaio», «tra noi comunisti e molti fascisti vi è un grande equivoco essendo le nostre radici comuni». Del resto un «filo rosso» corre anche tra cattolicesimo politico e fascismo. Si pensi al percorso di Enrico Mattei, giovane «fascista di sinistra», poi partigiano democristiano ed infine continuatore del «corporativismo» fanfaniano all’interno della sinistra democristiana. Mattei fu il fondatore dell’ENI che realizzò partendo dall’AGIP fascista. Egli era stato chiamato a liquidare, per conto degli anglo-americani, l’Agenzia Italiana Petroli creata da Mussolini ed invece, compresa la sua potenzialità di garante della indipendenza nazionale, ragione che aveva spinto il fascismo a istituirla, non cedette alle pretese dei vincitori e la trasformò in una multinazionale di Stato capace di stringere forti rapporti geopolitici ed economicamente strategici con i Paesi mediterranei e vicino-orientali, trattando con essi, in materia energetica alla pari (noi diamo le tecnologie e prepariamo i vostri tecnici e voi ci date la preferenza nell’acquisto a prezzi onesti del greggio) e non da padrone coloniale. Grande denigratore di Mattei, per conto degli ambienti liberal-conservatori italiani, quelli che si richiamavano alla «destra storica» di Sella e che sostenevano apertamente la più stretta subordinazione dell’Italia all’alleato americano, fu Indro Montanelli, prima editorialista de Il Corriere della Sera e poi fondatore de Il Giornale. E questo benché Montanelli fosse stato, prima della guerra, amico e discepolo culturale e politico di Berto Ricci, già anarchico e poi fascista di sinistra, direttore di una delle riviste intellettualmente più vive del ventennio, «L’Universale».
19) Confronta «Burke: sono deluso dai cattolici che hanno votato un abortista», Il Messaggero del 6novembre 2008.
20) Confronta Carmelo Ferlito «La svolta corporativista del pensiero di J. A. Schumpeter - Quando l’economista austriaco si schierò, a sorpresa, a favore di un sistema economico fondato sul corporativismo cattolico», in Rinascita, 7 agosto 2007, pagina 15.
21) Confronta R. De Felice «Dal liberale Jemolo ai nuovi corporativisti», in Avvenire del 20 maggio 1999. Si tratta del testo di una lezione che Renzo De Felice tenne, pochi anni prima di morire, il 20 novembre 1990, alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Roma.
22) «Nella Chiesa - così si è espresso per la precisione monsignor Claudio Maria Celli - una riflessio-ne su questi campi e appena cominciata, non abbiamo su finanza grandi interventi del magistero, c’è qualcosa della Conferenza Episcopale Italiana e di quella tedesca, ma credo che ancora si debba fare una analisi più ap¬profondita». Confronta «La Chiesa e il denaro - i soldi sono niente solo la Parola di Dio resta - Il Papa: lo vediamo nel crollo delle grandi banche. Successo e carriera? Rischio di illusioni», in Avvenire del 7 ottobre 2008. Monsignor Celli non si è reso conto della gravità di quanto ha detto. Non solo perché sull’usura la Chiesa ha sempre avuto un costante e chiaro Magistero, sin dai tempi apostolici, passando tra gli altri per l’Aquinate che definiva il prestito ad interesse un peccato contro natura, per giungere fino all’enciclica «Vix pervenit» di Benedetto XIV, da alcuni considerata la prima Enciclica sociale in età moderna, che ancora in pieno XVIII secolo, ossia quando, anche a causa della Riforma protestante e della fisiocrazia illuminista, il prestito usuraio veniva pubblicamente riconosciuto come benefico per l’economia, condannava l’interesse creditizio speculativo. Ma anche perché la condanna del prestito ad interesse è stata ancor prima del Magistero, che a tali parole si rifece, pronunciata da Nostro Signore Gesù Cristo: «Nihil mutuum date inde sperantes» (Luca, 6 -34,35: «E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto… prestate senza sperarne nulla e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi»).
 

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