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Il Libro di Isaia
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Un raggio di sole attraverso un cielo tempestoso

Portata a compimento l’opera di ripubblicazione del Nuovo Testamento a cura del domenicano padre Marco Sales, per EFFEDIEFFE comincia oggi una nuova avventura: quella del Vecchio Testamento.

Lo avevamo promesso ai nostri lettori due anni fa, all’atto della pubblicazione del primo Vangelo (San Matteo). Grazie al vostro sostegno possiamo dirci nella possibilità di perseguire e mantenere quella promessa. Confidiamo di riuscire a portare a compimento, perlomeno nei suoi punti più importanti, il lungo percorso che con ardimento ci accingiamo ad intraprendere.

Perché partire da Isaia?

Abbiamo riflettuto a lungo sulla possibilità di iniziare la pubblicazione del Vecchio T. partendo dal suo primo libro, dunque da Genesi, la qual cosa avrebbe apportato una logica maggiormente sequenziale e una risposta dottrinalmente salda a molte domande di cui il cattolico ancora oggi sente il bisogno.

  Copertina del Libro di Isaia
La scelta è però caduta sul profeta Isaia a cui farà seguito il Libro dei Sapienziali (che contiene Proverbi, Ecclesiaste, Cantico dei Cantici, Sapienza, Siracide). Questa ci è parsa la maniera migliore di procedere perché Isaia e i Sapienziali rappresentano un tratto d’unione tra “Vecchio” e “Nuovo” molto utile e propedeutico. Per il cattolico studiare ed acquisire corrette nozioni intorno a questi due libri rappresenterà una palestra d’eccezione, per potersi poi immergere “a capofitto” nei più alti misteri di Dio e così procedere per gradi, saldamente e robustamente, fino alla “sommità del Monte caliginoso”.

Isaia in particolare sembra essere stato scritto sotto la croce del Golgota e con esattezza storica e valore teologico è considerabile il “Vangelo prima del Vangelo”. Senza dubbio non è ancora in tutta la sua pienezza il Vangelo per eccellenza, il Vangelo di Gesù Cristo e degli Apostoli, ma ne è come il suo più perfetto preludio.

S. Ambrogio stesso ci ha tolto da ogni “imbarazzo”. Il grande Vescovo, volendo rispondere al desiderio di un Agostino ancora catecumeno di meglio prepararsi al battesimo, gli pose dinanzi la figura è l’insegnamento del profeta Isaia, il profeta evangelista. Sant’Agostino aveva difatti espresso la necessità a Sant’Ambrogio di voler, mediante la lettura della Sacra Scrittura, essere più adatto e più preparato a ricevere la grazia battesimale, che non lo fosse stato mediante la assimilazione degli ideali filosofici di Platone e di Plotino. E il S. Vescovo di Milano gli «comandò di leggere il profeta Isaia, essendo questi, a preferenza degli altri, preannunciatore più aperto del Vangelo e della vocazione dei gentili».

La scelta di partire “dal fondo” ci permetterà di spalancare le porte al corso canonico dell’Antico Testamento; fatto questo andremo ad attaccare il Pentateuco in tutta la sua vastità.

L’autore del commento al Libro di Isaia
Padre Giuseppe Girotti (1905-1945)


Nel 1936 padre Marco Sales muore lasciando la sua monumentale opera, di fatto, incompiuta. Al dotto domenicano mancano solamente due libri (Isaia e i Sapienziali) per completare il maestoso rifacimento della Bibbia del cardinal Martini, iniziato nel 1911.

La provvidenza chiama un altro (giovane) domenicano, di cristallina formazione, a sostituire Sales per portare a termine l’incompiuta opera. Questo avvicendamento sul commento della “Bibbia Martini” ci obbliga ad un discreto approfondimento sopra il nuovo esegeta, soprattutto per via della complessa figura storica di padre Girotti.

  Il beato padre Girotti a Gerusalemme (’32-34)
Alba, in provincia di Cuneo, è la città dove Giuseppe Girotti è nato il 19 luglio 1905 e dove ha vissuto i primi quattordici anni di vita. Terminata la guerra, nel gennaio del 1919 entra nella Scuola apostolica dei domenicani della provincia di San Pietro Martire a Chieri (Torino). Il 22 settembre 1922, nella chiesa di San Domenico di Chieri, veste ufficialmente il bianco abito dei Frati Predicatori e quattro giorni dopo parte alla volta del convento di Santa Maria della Quercia di Viterbo, dove all’epoca venivano riuniti tutti i novizi domenicani dell’Italia. Verrà ordinato sacerdote il 3 agosto 1930.

A partire dal 1932 inizia la vera e propria formazione di Girotti. Per perfezionare i suoi studi in scienze bibliche tra il 1932 ed il 1934 viene inviato a Gerusalemme, presso la prestigiosa École Biblique dei domenicani francesi fondata dal Padre M. J. Lagrange, celebre biblista di cui è in corso il processo di beatificazione. Di padre Lagrange è stato scritto che “gli alunni venuti a Gerusalemme per ascoltare le lezioni di un tale maestro hanno scoperto che questo studioso era soprattutto un uomo di preghiera, che viveva nellandirivieni continuo e senza divisione dal laboratorio alloratorio. Questo modo di praticare l’esegesi biblica secondo un’esigenza scientifica ha costituito per Lagrange un cammino spirituale; egli è stato veramente un esegeta alla ricerca di Dio”.

Terminato il prestigioso corso di studi sotto la guida del Lagrange, Girotti torna in Italia ed inizia il suo insegnamento presso i domenicani di Torino e presso i missionari della Consolata. Tra il 1934 ed il 1938 insegna esegesi, lingua ebraica, latino e Sacra Scrittura presso il convento domenicano di Santa Maria delle Rose di Torino. Nel giugno 1935, dopo aver sostenuto presso la Pontificia Commissione Biblica l’impegnativo esame in Scienze Bibliche, consegue il titolo di Prolita (licenziato) in Sacre Scritture.

Finalmente, il 13 dicembre 1937, appena trentaduenne, Girotti riceve dal Capitolo Provinciale dei Domenicani l’incarico di continuare il commento generale della Bibbia, iniziato dall’insigne teologo della casa pontificia Marco Sales O.P., deceduto l’anno precedente. A questo compito Girotti si dedica con particolare impegno; già nel 1938 dà alle stampe il Commento ai libri Sapienziali e nel giugno 1942 pubblica il Commento al Libro di Isaia, entrambe opere che gli frutteranno l’approvazione generale degli studiosi e delle più alte gerarchie ecclesiastiche, compresa quella del pontefice Pio XII.

L’esegesi di Padre Girotti è sulla stessa linea di quella del padre Sales, è cioè scientifica (anti-razionalista) e spirituale insieme. Egli era un vero studioso tomista e poteva vantare la migliore preparazione teologico-esegetica possibile in quegli anni di pieno secondo ‘neotomismo’, di cui Lagrange suo maestro, insieme a Fabro, fu l’esponente più rappresentativo. Girotti incarnava una speranza per la prosecuzione del pensiero anti-moderno in ambito ecclesiastico. Dio, però, dispose diversamente.

L’opera di un martire della Chiesa

Il Commentario ad Isaia ad opera di Girotti è preceduto da una lunga e poderosa introduzione che, si potrebbe dire, costituisce un autentico volume a sé stante. Qui, ma anche nelle note del testo, si rimane costantemente colti da una duplice meraviglia: quella che nasce dalla vasta e straordinaria erudizione di Padre Girotti, autentico uomo di studio, e nello stesso tempo dallo spirito soprannaturale che pervade i suoi scritti.

Lo spirito del Padre Lagrange, alla cui scuola Girotti si era formato, sembra essersi travasato nel giovane domenicano appena trentenne. Ma egli non è solamente un dotto domenicano, esegeta e biblista, è anche un beato della Chiesa cattolica.

La vicenda umana di padre Girotti è difatti commovente, e irradiata dallo spirito del martirio. Con atto solenne da parte della Chiesa, il 26 aprile 2014 (con decreto già firmato da Benedetto XVI prima delle sue ‘dimissioni’), Girotti – insieme a Rolando Rivi, il ragazzino seminarista martirizzato dai partigiani – viene posto sopra il moggio per illuminare con la sua esemplarità tutta la casa: l’ordine di San Domenico, la Chiesa tutta, il mondo intero.

La sua opera di commento ai due libri della Bibbia (Sapienziali e Isaia), a tutti gli effetti il suo unico lavoro in questa vita, sono non solamente due libri eccelsi da un punto di vista esegetico, ma anche il testamento spirituale di un martire, opera in cui Girotti trasfuse tutto sé stesso e nel quale egli superò la cortina di questo mondo, con uno sguardo anticipatamente proiettato nell’aldilà.

“Senza dubbio alcuno – scrive Girotti in una delle porzioni del suo commento – se si volesse approfondire ogni aspetto dello spirito di Isaia, molte bellezze si rivelerebbero in lui, ma è un compito troppo arduo per chi appena cammina; è già tanto avere osato, non con temerario ardimento, ma con trepidante riverenza, varcare la soglia impenetrabile, senza pretendere di andare oltre, fino all’intimo santuario dove brucia la fiamma: dove il ‘Dio nascosto’ si manifesta segretamente al suo amico, che a Lui anela e a Lui ha già fatto l’offerta suprema della vita”.

Girotti, all’interno di quel santuario dove brucia la fiamma, nell’intimità inaccessibile dove il ‘Dio nascosto’ si rivela a chi a Lui anela, aveva già fatto l’offerta suprema della vita. Da quel momento (siamo agli inizi della seconda guerra) cominciano le traversie dolorose per lui, negli anni del suo insegnamento torinese, da lui stesso accennate nella prefazione al suo commento su Isaia.

Egli scrive:

Quei che seminan tra le lacrime, nel giubilo mieteranno (Salm. 125,5). Abbiamo speranza che il Signore nella sua bontà verifichi almeno nell’altra vita la seconda parte della divina affermazione. È certo che la prima ha la sua piena realtà nella vita presente. Questo volume esce appunto di mezzo alle molteplici e gravi tribolazioni colle quali il Signore ha voluto visitarci: solo per la sua misericordiosissima bontà e per l’efficacissima intercessione della Vergine Santissima, Consolatrice degli afflitti, si è potuto condurre a termine l’opera che ora presentiamo al pubblico, continuando il commento alla Sacra Scrittura del Rev.mo P. M. Sales” (Torino, 20 giugno 1941).

Padre Girotti non si è perso in mezzo a quelle molteplici e gravi tribolazioni, ma ha saputo scorgervi la visitazione di Dio. E ha potuto sperimentare insieme a Giobbe che Dio “fa la piaga e poi la fascia” (Gb 5,18), intervenendo a suo favore in maniera prodigiosa e infinitamente misericordiosa “per l’efficacissima intercessione della Vergine Santissima, Consolatrice degli afflitti”.

Questo Commentario, come egli stesso ha scritto, non sarebbe stato condotto a termine senza un intervento divino. E anche per tale motivo possiamo considerarlo un bel dono di Dio alla Chiesa, meritevole di essere rimesso nelle mani dei cattolici della presente, tribolata generazione affinché torni a portare grande frutto.

Al termine della prefazione a Isaia, padre Girotti torna sulle sue vicissitudini e scrive:

Torino, Chiesa di S. Domenico, 20 giugno 1941, Festa della Vergine della Consolata che, anni or sono, in questo giorno benedetto, ci salvò da estreme angustie e ci fece il dono più prezioso, più bello, più grande che mai potessimo desiderare. A Lei quindi è dovuto il presente lavoro e di fatto a Lei lo doniamo quale tenue espressione d’un immenso affetto”.

In questa chiosa è contenuta tutta la delicatezza e la profondità dei sentimenti del beato domenicano, espressi costantemente con i fatti in quella grande carità che lo ha condotto sino al martirio. A posteriori viene da pensare che il Signore, attraverso quelle estreme angustie di cui sopra, lo abbia preparato a vivere la sua ultima passione, iniziata il 29 agosto 1939 e conclusasi il 1° aprile 1945.

“Noi non abbiamo conosciuto padre Girotti da vivo — scrivono i suoi confratelli Domenicani. Ma l’impressione che lascia in chi legge i suoi Commentari è quella di uno studioso che vive la sua comunione con Dio e che intende portare il lettore alla medesima esperienza di vita. Come per il padre Lagrange, anche per padre Girotti, secondo la tradizione propria dei domenicani, lo studio e l’esegesi biblica non sono semplicemente un lavoro di ricerca, ma un autentico ministero apostolico, perché la verità studiata non è una parola qualunque, ma una Parola che spira e suscita amore: ‘est verbum, non qualecumque, sed spirans amorem’ (S. Tommaso, Somma teologica, I, 43, 5, ad 2).

Girotti traduceva nell’esistenza, nel suo studio, nelle sue lezioni, quanto imparava dal suo Maestro quando celebrava la Messa e quando studiava le Scritture, in particolare quando commentava le parole di Isaia riguardanti il Messia veniente: “È stato offerto perché Egli stesso ha voluto”:

Si spiega – commenta Girotti – con qual cuore generoso, con quanto entusiasmo il Messia subisca per noi ogni sorta di tormenti: con piena libertà, con somma mansuetudine permette che lo si strazi, lo si uccida senza che si difenda, senza opporre la più piccola resistenza”.

Ecco la sintesi più perfetta, la migliore descrizione della sua vita e della sua opera.

Un domenicano a Dachau, facili conclusioni

Nel 1995, nel 50° anniversario della sua morte, Girotti è stato ufficialmente dichiarato “Giusto tra le Nazioni”, la massima onorificenza tributata a chi ha aiutato gli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Lo Yad Vashem ha fatto incidere il nome di Padre Girotti sul muro del cosiddetto ‘Giardino dei giusti’ a Gerusalemme. La cosa può spaventare, ma non deve sorprendere.

Sappiamo che una certa corrente storiografica, ideologica ed appiattente, pretende dipingere coloro che agirono con spirito cristiano durante il biennio ’43-45 come dei rivoluzionari anti-regime, ribelli ed amici dei ribelli, degli ebrei, dei comunisti, dei partigiani. La beatificazione di Girotti, avvenuta sotto l’attuale pontificato, ha dovuto procedere secondo questi canoni, impartiti alla Chiesa dalle alleanze strette a seguito del Vaticano II, di cui Israele è il primo coadiuvatore.

Nella storia ‘accettata’ di Girotti, i fascisti repubblichini ricoprono la parte dei malvagi persecutori, sempre e comunque; partigiani ed ebrei le sacre vittime perseguitate. La ricostruzione ufficiale appare obbligatoria. A farne le spese è però la memoria del martire, che di mezzo a queste vicende agì nell’unico modo possibile per un consacrato. Dalle ricostruzioni emerse durante il processo di beatificazione, si viene a sapere che a Torino, con l’aiuto di altri sacerdoti, Girotti si fece carico di procurare alla gente angariata dalla fame e dal freddo generi di primaria necessità che in molte zone scarseggiavano, quali cibo, vestiti, talvolta piccole somme di denaro.

Il Priore del convento di San Domenico, durante i primi anni della Seconda Guerra Mondiale ed in particolare dopo il giorno dell’armistizio, notava che il Padre Girotti giungeva in convento carico di pacchi, sovente in ritardo, e si giustificava di ciò unicamente dicendo: “Tutto quello che faccio è solo per carità”. Da quanto risulta venne arrestato a Torino il 29 agosto 1944 per aver aiutato e nascosto un professore ebreo, tal Giuseppe Diena, medico gastroenterologo, docente presso l’Università di Torino. Da qui ha inizio la “via dolorosa” che condurrà Girotti in Baviera da prigioniero. La riportiamo per sommi capi.

Dopo l’arresto viene tenuto nelle Carceri Nuove di Torino per circa tre settimane. Il 21 settembre viene incolonnato con altri prigionieri nell’androne del primo braccio delle Nuove per essere trasferito temporaneamente nella prigione di Bolzano transitando per quella di San Vittore (Milano). A Bolzano conosce don Angelo Dalmasso, giovane sacerdote appena 24enne che condividerà con padre Girotti la deportazione in Germania, alla quale il Dalmasso sopravvisse potendo testimoniare quanto avvenne. Dopo 3 settimane, nel tradizionale giorno di festa della Madonna del Rosario, proprio mentre i due religiosi stavano recitando questa pia orazione, arriva l’ordine di deportazione a Dachau. Dopo un viaggio durato un giorno ed una notte condotto sui carri merce, i due sacerdoti raggiungono la cittadina bavarese il 9 ottobre 1944. Li attende un primo periodo di quarantena, dopo il quale arriva il trasferimento nella baracca 26 riservata agli ecclesiastici (che ne contava in quel momento 1.090). Il nostro viene assegnato al lavoro cosiddetto del plantage, che consisteva nell’estrarre, spesso a mani nude, le patate da profonde fosse riempite di tuberi e poi ricoperte di terra, che funzionavano in pratica come giganteschi frigoriferi per la conservazione degli ortaggi. Si era a novembre, la terra era ghiacciata. Il lavoro doveva essere eseguito a carponi, sotto la pioggia, la neve, molte volte con gli abiti inzuppati dall’acqua. In queste condizioni compaiono i primi sintomi delle malattie che portarono Girotti alla consumazione. Accusò quasi subito un forte dolore lombare unito ad una febbre alta. Grazie all’aiuto di un certo mons. Sperling poté essere visitato da un medico cecoslovacco, anche lui detenuto, che gli riscontrò un principio di nefrite e di artrite. Per l’interessamento di questo medico gli fu sospeso il lavoro all’aperto e fu adibito a fare asole alle tende militari e ad attaccare bottoni, attività quest’ultima che fu interrotta verso la fine di febbraio dallo scoppio di un’epidemia di tifo petecchiale, alla quale Girotti scampò, che causò la morte di circa 10.000 internati. Nonostante il lavoro meno sfibrante a cui era stato sottoposto il male di cui soffriva si aggravò e dal 1° marzo 1945 dovette restare in baracca tormentato da dolori reumatici e da gonfiori alle gambe. Dopo circa due settimane, il gonfiore si era ormai esteso a tutto il lato destro del corpo. Lo stesso medico cecoslovacco lo fece trasferire in infermeria sotto la sua cura; dietro esame radiologico, gli diagnosticò un probabile carcinoma. Durante la permanenza in infermeria, per circa una decina di giorni, Girotti fu assistito dal Padre Manziana (poi Vescovo di Crema), anche lui detenuto, fino al Mercoledì Santo quando il Manziana venne dimesso. Il 1° aprile 1945, Domenica di Pasqua, dall’infermeria giunge la notizia del decesso di Girotti. Il suo corpo viene quindi sepolto in una fossa comune sul Leitenberg, una collina che sorge a circa tre chilometri dal campo di Dachau. Sulla sua cuccetta i sacerdoti del campo scrissero: “Qui dormiva San Giuseppe Girotti”.

Dalle ricostruzioni sappiamo inoltre che quando il lavoro e la salute glielo permettevano, padre Girotti si ritirava a pregare nella Cappella che la cattivissima Gestapo, per espresso interessamento della Santa Sede, aveva permesso di instaurare nel blocco 26 e che ogni mattina, alle 4 circa, partecipava alla Messa e riceveva la Comunione. I nazisti erano meglio dei comunisti.

Questa fu la Via Crucis di padre Giuseppe Girotti. Il resto del racconto che gli è stato appiccicato addosso travalica le vie della storia – una storia vera, di cui conosciamo la tragicità (molti furono i deportati, anche tra i militari italiani che per l’attaccamento alla bandiera non vollero vestire la divisa tedesca o repubblichina) – per entrare in quelle della “memoria”, del mito, dell’ideologia ingrossata e tragicommediata.

A farne le spese è proprio Girotti. In aggiunta alla facile etichetta di “amico degli ebrei”, “perseguitato dai nazi-fascisti”, di Girotti si vuole a forza rilasciare un’immagine di sacerdote anticonformista e in anticipo sui tempi, moderno, ribelle, già pronto al salto post-bellico nella Chiesa del futuro.

Girotti viene quindi presentato come un ‘fuori dalle regole’, poco rispettoso dei canoni di comportamento esteriore imposti dal suo ordine. Piccole cose, ma che gli avrebbero procurato delle noie con i superiori (secondo la ricostruzione ufficiale sarebbero queste le “molteplici e gravi tribolazioni” delle quali Girotti dà testimonianza nell’introduzione al suo commento). L’abito è trasandato, non disdegna qualche sigaretta. Non tiene il cappuccio in testa (!).

In una biografia ufficiale di Girotti si legge: “Egli possedeva inoltre un temperamento ilare e scherzoso, piuttosto noncurante di determinate prescrizioni che si riferivano esclusivamente al comportamento esteriore del frate, come ad esempio la compostezza dell’abito, la rasura, il silenzio imposto in determinate situazioni o in certi luoghi del convento, regole che infatti verranno modificate nel 1968 dal Maestro Generale dell’Ordine, Padre Aniceto Fernandez, seguendo le direttive del Concilio Vaticano II”.

Da martire della carità, imitatore di Cristo sulle orme di San Paolo, Girotti è trasformato in antifascista amico dei partigiani, quindi degli israeliani quale uomo simbolo della persecuzione nazista (ergo della shoah), teologo al passo coi tempi e fricchettone sessantottino impaziente di sbarazzarsi di tonaca e cappuccio.

Il vescovo che ad Alba lo ha beatificato il 26 aprile 2014 (una data non scelta a caso evidentemente), monsignor Giacomo Lanzetti, nella presentazione di una biografia dedicata a Girotti scrive che “la figura di padre Girotti riserva una forte carica di modernità (…). Egli non è un santo stereotipato tipo le figurine Panini (sic) ma un uomo, dai forti tratti di carattere”.

Sconcertanti banalità, tipiche di certa gerarchia contemporanea. L’asino vaticanosencondista, sul traballante ponte della storia, casca sempre “di sotto”.

Proviamo a velocemente controbilanciare. Ce lo impone la carità e la verità. Quel che ci interessa maggiormente “sistemare” è l’appellativo che si dà di Girotti di “amico dei fratelli maggiori nella fede”, perché avendo aiutato alcuni ebrei torinesi egli ne avrebbe riconosciuto la divina vocazione di popolo di Dio nostro predecessore. Se questa lettura dell’impostazione dottrinale di Girotti fosse corretta, egli sarebbe a tutti gli effetti un antesignano della cosiddetta ‘teologia del doppio binario della salvezza’. Per un biblista ed esegeta ciò rappresenterebbe un errore di fondo della massima gravità, perché ne minerebbe l’intera dottrina, soprattutto se questo biblista diventasse autore di un commento all’Antico Testamento. Questa (apparente) ombra va rapidamente fugata.

Lo spirito di carità che animò Girotti durante gli anni della guerra cosiddetta civile (ma che vide gli americani occupare il Paese con l’aiuto dei traditori del patto Roma-Berlino), fu qualcosa di differente: arse di quell’incendio immenso che Gesù venne a portare sulla terra (fons vivus, ignis, charitas inneggia la liturgia allo Spirito Santo) e si modulò esclusivamente sulle corde dell’animo del santo Pio XII, che la Madonna del Rosario chiamò nel 1939 affinché apportasse con sé il balsamo di un’amorosa fortezza. Ultimi difensori delle nostre tradizioni, furono uomini che sacrificarono le loro vite sull’altare della verità opportunamente pronunciata nei confronti di quegli israeliti che avevano rigettato Cristo, i cui discendenti erano intenti a mettere a ferro e fuoco l’Europa; al tempo stesso, in molti modi, diedero la vita per questi peccatori. Se Dio amò gli uomini nella verità, nondimeno salì in croce per redimerli.

Nessuno lo ha spiegato meglio del card. Ottaviani: “È dunque a questo Amore, a questo Spirito di verità, a questo divino Consolatore, dulcis hospes animae, soave ospite dell’anima cristiana, che il mondo deve tanti incliti confessori, tanti eroi ed eroine del martirologio cristiano, tante schiere di vergini votate all’esercizio della carità più edificante ed altruistica, tanti sapienti del domma e delle altre verità cristiane, tanta sicurezza di spirituale guida da parte di intemerati sacerdoti, tanto spirito di sacrificio di anacoreti, di eroici missionari, di Vescovi, immagini redivive del Buon Pastore, di incliti Papi che con l’aureola del martirio o della santità hanno nobilitato e resa gloriosa la serie dei successori di Pietro ed hanno ingemmato di preziose perle la corona di gloria che orna la Sposa di Cristo. Ed anche oggi è questo Amore, questo divino Consolatore che asciuga le lacrime e terge il sangue che sgorga dalle ferite del Corpo Mistico nelle terre della persecuzione e dell’oppressione [comunista]” (Il Baluardo).

È ora sufficiente raccogliere piccole porzioni del commento ad Isaia di Girotti per farne emergere chiarissima l’esegesi anti-talmudica, anti-giudaica ed anti-modernista di questo tomista, degna di un chiaro esponente della seconda neoscolastica. Nel corso del commento il lettore scorgerà numerosi dardi di sana dottrina, scagliati contro coloro che Girotti chiama l’“Israele carnale”, ispiratore della massoneria.

Ne riportiamo tre piccoli stralci:

«La trasparenza dei simboli [in Isaia] è così lucida che solo un occhio carnale può trovarvi l’affermazione di un’egemonia plutocratica e l’ambizioso sogno di un dominio universale, che smidolli e disossi le nazioni della terra. Se l’Israele carnale [la sinagoga], con la massoneria e col marxismo, ha creduto di poter narcotizzare e dissanguare le nazioni, dando realtà concreta alle aspirazioni profetiche, ciò è dovuto non a queste aspirazioni, ma alla carnalità d’Israele, che alle aspirazioni profetiche, protese verso Gesù Cristo e la Chiesa, ha dato una opposta direzione e ai beni salutari messianici ha sostituito le ricchezze e i piaceri della terra».

Prosegue Girotti:

«Anche per la vocazione del popolo giudaico, S. Tommaso ci pone di fronte al mistero e ciò invita a riflettere sia coloro che di tale vocazione parlano con una certa leggerezza, sia coloro che, abusando degli speciali benefizi ricevuti in passato, li traducono in linguaggio carnale, quasi predestinazione d’una razza alla egemonia universale; il che spiega la reazione di quanti, giustamente, a ciò si oppongono come a cosa innaturale e disumana».

Ancora:

«Per il tempo di Isaia e per i tempi successivi – scrive Girotti – non Israele come tale è “una stirpe sacerdotale più santa e più onorata”, ma Israele in quanto crede nel Messia venturo, Gesù Cristo. Solo così le parole profetiche hanno il loro pieno valore. L’Israele carnale, invece, intendendo materialmente la promessa contenuta nel versicolo 5 del capitolo 61: 5E vi saranno degli stranieri, e pascoleranno le vostre greggi: e i figli dei forestieri saranno i vostri agricoltori e i vostri vignaiuoli, si illude di trovarvi la giustificazione del suo sogno di dominazione universale e di egemonia despotica sulle Nazioni della terra. In realtà, il pensiero di Dio, espresso dal profeta nel linguaggio della terra, ha un ben diverso valore. […] Soltanto nell’Israele spirituale, nella Chiesa, si attua questa promessa (Apoc. 5, 10) e in tanto Israele (sia pure in mezzo ai pagani convertiti) può partecipare a questo sacerdozio, in quanto non è più popolo ebreo, ma popolo cristiano».

Se il pensiero e le opere di preti “con una forte carica di modernità” fossero tutte così, la Chiesa, che è il faro della storia, non sarebbe ridotta allo stato in cui versa attualmente!

La teologia di padre Girotti è dunque salda, come una forte roccia; fu chiamato non per caso, ma per provvidenza, a completare l’opera di un esegeta del livello di padre Sales, di cui si dimostra un degno erede.

Scrivendo a cavallo dei fatti di Spagna e della dichiarazione di Guerra italiana, si ha netta la sensazione che Girotti conoscesse ottimamente il volto del nemico (giudaismo internazionale ispiratore della massoneria e del marxismo). Partendo da Isaia, egli sapeva che l’apostasia – dentro la Chiesa, nel mondo –, prodotto più certo della medesima radice sovversiva, avrebbe attirato tenebre dalle quali la terra sarebbe stata come sommersa sussultando dalle sue fondamenta. Isaia, se letto correttamente, ne permette la visione.

«Quando si amano le tenebre, come dice il Vangelo (Giov. 3, 19), si vogliono farle passare per luce e onorarle con questo nome; e siccome la luce vera facilmente le scoprirebbe, si tenta di spegnerla e le si dà il nome di tenebre. — Qualora accadesse un sì grave sconvolgimento nella Chiesa, non rimane che ricorrere a Dio e dirgli col Salmista: “Sorgi, Signore! Tu sei la verità suprema, sostieni tu stesso la tua causa e difenditi contro gli assalitori”».

Preghiamo dunque il beato Girotti martire in tutta sicurezza, affinché illumini il nostro studio e il nostro cammino ascetico, non seguendo le direttive dello Yad Vashem ma secondo quelle della verità.

Una recensione d’eccellenza


Mi scuso per il lungo excursus sulla vita di Girotti, ma era doveroso il tributo, e una necessità riportare i fatti su un giusto (ed unico!) binario. Torniamo ora rapidamente a parlare dell’opera in sé.

Per farlo al meglio riproduciamo il parere di un teologo del calibro di P. Alberto Vaccari S. J., che nel 1944 recensì il Libro di Isaia commentato da Girotti.

«Il commento a tutta la divina Scrittura, felicemente cominciato e in gran parte eseguito dal compianto P. M. Marco Sales O. P., arriva al suo compimento sotto la giovane ma robusta mano del P. Girotti. Questi, come appare subito anche dalla mole del volume (700 fitte pagine di grande formato solo per il libro d’Isaia, e sia pure con una Introduzione generale ai profeti di 100 pagine circa) ha concepito il suo compito con più vaste proporzioni che non il suo dotto predecessore: copiose introduzioni dove tutte le questioni relative sono ampiamente esposte e discusse; note a piè di pagina che ne occupano in media i quattro quinti nella spiegazione di singole sezioni e versetti; e poi anche frequenti appendici ai capi o “excursus” (ma chiamati ancora col modesto nome di “Nota”) sui vaticinii di speciale importanza o difficoltà, talora per lumeggiare appieno un concetto, come il senso e il valore della dottrina del Vecchio Testamento intorno allo Scheol o intorno al «Dio nascosto». Le più considerevoli di queste “note” escursionali stilate da Girotti sono quelle intorno alla profezia dell’Emmanuele (più di 20 pagine) e quella sui carmi del “Servo di Jahvé” (circa 40 pagine). Il P. Girotti, si vede, non ha risparmiato cura né spazio per il suo commento.

Alla quantità fa buon riscontro la qualità. Il commentatore dà luminose prove d’un’ammirabile conoscenza del suo soggetto e delle pubblicazioni ad esso relative. Le copiose “bibliografie”, poste in fine di molti capi e delle suaccennate “note” erudite, non stanno là per ostensione; ogni pagina, si può dire, abbonda di citazioni, spessissimo testuali, di autori d’ogni età e d’ogni scuola, soprattutto di cattolici, da Clemente Alessandrino fino al Messaggio di Pio XII del 29 giugno 1941. Tutto è nutrito di scienza filosofica e teologica e di storia religiosa comparata; né fa specie, sotto la penna di un dotto domenicano, che fra gli scrittori adottati a dichiarazione o conferma chi più sovente compare da un capo all’altro del volume sia S. Tommaso d’Aquino. Ciò basterà a dare una sufficiente idea dell’indole e della tempra del commento.

La traduzione italiana del testo è, secondo il programma, condotta sulla Volgata latina, ma con l’occhio costante all’originale ebraico (che per ciò che riguarda Isaia è di fondamentale importanza e fondamentale precisione, ancora più della stessa Vulgata), del quale è poi dato il giusto senso, perlopiù in nota, ma talora nel testo medesimo, correggendo qui e là qualche imperfezioni dell’interprete latino. A questo proposito non sarebbe stato discorde dal tono, sovente e giustamente filologico, né dall’elevato livello di questo commento, l’osservare che più volte il difetto non viene da S. Girolamo, autore della traduzione, ma dall’edizione corrente di essa (clementina). Del rimanente, quanto all’esame del testo originale notiamo con piacere come il bravo commentatore Girotti si dilunghi talora in minute analisi del significato della parola ebraica. Tali disquisizioni lessicali potrebbero essere da alcuni lettori giudicate superiori alla loro capacità; ma sono un buon esempio dell’utilità di tali ricerche, tanto giovevoli alla retta intelligenza della divina Scrittura, e saranno anche, giova sperare, uno stimolo ai giovani studiosi. E vada anche l’osservazione come prova dell’alto livello di questo lavoro.

(…) Molta e soda dottrina ci presenta insomma il P. Girotti nel suo commento (…) E noi non possiamo da lui separarci senza riconoscergli anche brillanti doti di scrittore. Nelle sue pagine, con la scienza scorre una vena di vivacità e di facondia, un calore di fede e di pietà, che tutto insieme piace e fa un bene all’anima.

Roma, aprile 1944
P. A. VACCARI S. J.»

Breve accenno alle profezie di Isaia

Dopo aver dato uno sguardo all’opera di commento del beato Padre Girotti, alla sua vita consumata nella verità e nel martirio, mancherebbe di parlare di Isaia, della portata universale della sua azione profetica, dei suoi contenuti e delle insondabili profondità del suo spirito. Non ci dilungheremo ancora molto, nonostante gli aspetti inerenti al libro siano pressoché inesauribili per estensione e profondità.

Pigiando al massimo i contenuti, diremo che nel «Maestro» che è Gesù Cristo si incentrano le linee che nell’Antico Testamento tendono a Lui e nel Nuovo Testamento da Lui partono, per insegnare all’uomo la via di Dio (Is. 40, 3; Matt. 3, 3). Questo è un primo, fondamentale approccio per addentrarsi nella vasta ‘oscurità luminosa’ rappresentata dal Vecchio Testamento. I simboli e le verità, ovvero il contenuto e il significato della caligine, non sono sgorgati semplicemente dall’esperienza mistica, o comandati da una speculazione dommatica sulla portata della visione; ciò significa che il Magistero profetico non fluisce dallo spirito umano, ma ha nel «Dio nascosto» la sua sorgente luminosamente oscura e oscuramente luminosa. A dimostrare l’ignoranza di questa sublimissima conoscenza – sublimissimae cognitionis ignorantiam canta il Magistero – si dice di Mosè che: “s’avvicinò alla caligine dove era Dio”.

Se nel Nuovo Testamento si sprigiona lo sviluppo meraviglioso nella vita della grazia per la quale le anime si aprono all’azione redentrice del Salvatore venuto, nel Vecchio Testamento la fede e l’amore nel Salvatore venturo aprivano nelle anime sante insospettati slanci d’amore e generose dedizioni di vita. Tra questi santi uomini di Dio, Isaia, vissuto 700 anni prima di Cristo, è certamente tra i più eccellenti e la sua vita mistica ebbe senza dubbio lo splendore fulgorante dei più grandi geni della virtù che poi ritroveremo nelle esperienze dei Santi e nei luminosi insegnamenti dei Dottori della Chiesa Cattolica.

Così procedendo, sempre attingendo qualche piccolo spunto dalle vastissime riflessioni di Padre Girotti, è possibile soffermarci sull’insegnamento di Isaia riguardante il “destino” come opposto alla “Provvidenza divina”. Isaia è il profeta da una parte della Provvidenza, dall’altra dell’amore di Dio per gli uomini. Coloro che accusarono l’Antico T. di descrivere le ire di un “dio” differente da quello presentato nel Nuovo T., sono o in malafede o grandi ignoranti, di un’ignoranza superba pari a quella dei millenaristi intorno al carattere tipico delle profezie, poiché Isaia dona di Dio il chiaro senso di bontà, quale Sovrano dell’universo e insieme Provvidenza amorosa per gli uomini.

Il senso generale dell’annunzio isaiano è che non soltanto Dio ci perdona, ma ci perdona non attraverso una punizione più che sufficiente ad espiare i peccati commessi, ma attraverso ricompense, doni, grazie molto più grandi che non il castigo subito, tanto che San Paolo poté affermare che ove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia (Rom. 5, 20).

Diremo inoltre che la portata delle profezie isaiane è profondamente apocalittica, tanto che si può propriamente parlare di una Apocalisse di Isaia; questo è uno degli aspetti maggiormente sconvolgenti di tutta la sua opera. La nuova creazione, che seguirà alla punizione purificatrice ed al giudizio, nella Gerusalemme celeste – nella nuova terra che sostituirà la vecchia creazione – viene ripetutamente descritta da Isaia con pennellate meravigliose che completano quelle del Nuovo Testamento in un reciproco combaciamento. Isaia precede e si integra all’Apocalisse di S. Giovanni laddove i due libri trattano il medesimo argomento (castigo finale di Dio, ritorno di Cristo, Giudizio Universale, Gerusalemme Celeste) senza mai sovrapporsi.

In Isaia la storia del popolo d’Israele (liberazione dalla schiavitù babilonese, l’assedio del re assiro Sennacherib, la minaccia di Damasco alleata con il regno scismatico di Samaria, etc.) da una parte è impiegata da Dio come simbolo e figura dei tempi messianici – ovvero nella totalità di tempo racchiusa nelle due venute del Messia –, ma è soprattutto un’anticipazione esemplare per i tempi finali che ci attendono, i quali chiuderanno i 1000 anni simbolici dell’Apocalisse e precederanno immediatamente il Giudizio a carico delle nazioni. I giudizi particolari esercitati contro i vari popoli, vengono a sfociare nel grande Giudizio Universale, come piccoli fiumi in un più vasto oceano.

Leggere Isaia è pertanto necessario, poiché nelle sue visioni sono stati racchiusi i consigli del Cielo e gli ammonimenti alla terra per i tempi ultimi, su cui è bene tornare a meditare grazie alla guida di padre Girotti che ci consentirà di orientarci al meglio attraverso la maestosità della mente altrimenti oceanica del profeta.

Accanto alle punizioni divine, meglio di chiunque altro Isaia spiega quanto tali punizioni rappresentino uno strumento di conversione. Lungi dal fermarsi solo ad annunciarle o a dipingere straordinariamente i cataclismi apocalittici, il profeta si sofferma quasi maggiormente a descrivere il dopo, ovvero la restaurazione del regno di Dio, del banchetto messianico, della futura Gerusalemme celeste di cui San Giovanni descriverà soltanto le fattezze.

Approfondendo l’amore inconcusso di Dio per i suoi figli, potremo finalmente capire la profondità del sacrificio di Cristo, il quale urlò “Perché mi hai abbandonato”?, una frase che nonostante numerose esegesi e spiegazioni è sempre difficile da comprendere nella sua essenza.

Però, “leggendo Isaia diventa tutto maggiormente intelligibile” — spiega Padre Girotti. Cristo sperimentò difatti, nella sua natura umana, un abbandono che noi uomini non subiamo mai; Lui fu abbandonato sulla croce affinché, in virtù dei suoi meriti ab aeterno previsti nel Dio trinitario, non lo fossimo noi. Allora, l’amore che per tramite di queste cognizioni si sprigiona per l’umanità di Nostro Signore è di altissima qualità; Isaia, difatti, è il profeta dell’Emmanuele Consolatore, ed il suo annunzio non perde mai la sua attualità e la sua forza. Padre Girotti esclama: “Dio è stato fedele alla sua promessa di salute e di elevazione, come solennemente annunziato in Genesi. Possa l’uomo, con l’aiuto di Dio, trovare nella consolazione che è Gesù Cristo, il senso supremo della sua vita e il valore eterno dell’anima sua, per Lui e in Lui”.

Il raggio di sole portato da Isaia di mezzo alla tempesta è dunque il raggio luminoso del divino annunzio dell’Emmanuele. Gli ebrei, non a caso, hanno espunto Isaia dalle loro letture bibliche a causa della sua unicità intorno alla figura del Cristo Redentore. La grande idea della morte sostitutiva del Servo di Jahvé, difatti, si trova unicamente in questo punto dell’Antico Testamento.

Leggere Isaia ci infiamma d’amore per Cristo umile e sofferente, e ci aiuta a procedere sulla vera strada della sua Imitazione. Egli è l’araldo e il messaggero del «Santo d’Israele», il Profeta della Consolazione che non abbandona mai gli uomini, il cantore più perfetto dell’amabile “Servo di Jahvé”, il suo miglior difensore e preannunciatore di fronte ai giudei carnali perché nell’annunciare la conversione dei popoli lontani, dei re e dei prìncipi che serviranno la Chiesa, sbugiarda implicitamente le velleità nazionalistiche e razziali dell’ebreo post-Cristo.

Da un punto di vista estetico e letterario, non può nuocere sapere che le descrizioni tratteggiate da Isaia sono a tal punto belle ed armoniose che è lecito voler asserire come il Libro di Isaia sia un poema magnifico, certamente uno dei più belli dell’intera Bibbia, e si può affermare, senz’ombra di esagerazione, che può vantaggiosamente sostenere il confronto coi capolavori delle letterature di tutti i tempi.

In Isaia abbiamo pertanto un grande trittico, le cui parti sono indissolubilmente unite tra loro: 1) la descrizione dell’Emmanuele o Servo di Jahvé, centro esclusivo della nostra vita di fede; 2) l’Apocalisse a cui seguirà direttamente il giudizio universale, quella fine dei tempi storici vista da Isaia con una precisione quasi fotografica; 3) la descrizione della Gerusalemme celeste, ovvero il premio sempiterno che Dio darà a chi avrà perseverato fino alla fine. Questo trittico rappresenta in definitiva tutto Isaia e, come vediamo, corrisponde precisamente alla storia della Chiesa. L’attualità di Isaia è pertanto certa; anzi, si può dire che il suo libro rappresenti a tutti gli effetti la storia futura, che è la nostra storia presente.

Possiamo paragonarlo ad un faro, che s’innalza sull’alto d’una roccia, illeso dalle tempeste e dalle onde che furenti si infrangono ai suoi piedi, il quale lancia i suoi fasci di luce nella densa oscurità della notte per indicare a tutti i pericolanti la via del porto sicuro. Isaia, quale fiaccola ardente e luminosa, rimase l’uomo della fede in un tempo di generale rilassamento religioso e di spirituale cecità. Nonostante persecuzioni ed insuccessi, perseverò più di quarant’anni e non soccombette neppure un’istante di questo lungo periodo alla tentazione di pentirsi. Il suo animo non fu mai paralizzato né da scoraggiamenti né da pessimismo. Per noi, che viviamo in tempi di vera apostasia, non può esserci esempio più edificante.

«Anche nel giudizio dei nostri tempi – scrive infine il padre Girotti – Isaia è una delle più prodigiose apparizioni della storia, uno dei più grandi uomini di tutte le letterature. Attraverso l’oscurità dei tempi antichi (…) brilla il profeta Isaia il quale, con l’ardore della sua fede e col solo prestigio della sua magnifica parola, salvò il monoteismo israelitico dalla soffocante e fetida morsa del paganesimo semitico».

Se attraverso Isaia il popolo d’Israele venne elevato “oltre la vita nazionale”, anche noi, leggendo la descrizione della gloria e delle meraviglie che Dio ha predisposto per il giusto, saremo sollevati al di là del tempo, dove la vita morale ha la sua sanzione definitiva.

Quest’opera unica pubblicata 75 anni fa (e da allora mai più ristampata) torna oggi disponibile grazie alla provvidenzialità di Dio per tutti i cattolici ancora volenterosi ed amanti della verità.

In alto i cuori.

Lorenzo de Vita



(Il Libro di Isaia, 700 pp. formato grande con bandelle)
 
25,00 euro
 



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