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Architetti da uccidere
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I disordini delle banlieues francesi hanno dei colpevoli, dei mandanti morali non abbastanza denunciati.
Siamo in grado di farne i nomi, grazie a un articolo di Le Monde (1): Jean Dubuisson, Marcel Lods, Jacques Heny Labourdette, Bernard Zehrfuss, Raymond Lopez…
Non si tratta di quattordicenni del sottoproletariato immigrato maghrebino.
Sono architetti di grido, taluni novantenni.
Quelli che tra il 1953 e il '73, su commessa pubblica, costruirono i falansteri della rivolta permanente.
Si trattava, allora, di dare un tetto alle masse di «pieds noirs» rimpatriati dall'Algeria, al mezzo milione di algerini che avevano militato nell'Armée e ai lavoratori immigrati.
Quegli architetti progettarono 1,2 milioni di alloggi divisi in 300 «cités», città-satelliti indipendenti.
Nei loro studi lussuosi e nei salotti della vera Cité (quella felpata, medievale e aristocratica che si raccoglie attorno alla cattedrale di Notre Dame: lì abitano loro) questi architetti si celebrano come «progressisti», «comunisti», critici dell'ordine sociale esistente, perfino «rivoluzionari».
Apprendiamo senza stupore che questi «progressisti», nel progettare i falansteri, applicarono la «Carta di Atene del 1933»: un manifesto-proclama emanato nel Congresso internazionale di architettura moderna (ad Atene appunto) sotto la dittatura culturale di Le Corbusier, che lo pubblicò nel '43.

E' fin troppo facile notare la data: il 1933 è il trionfo dei totalitarismi europei.
A cui infatti Le Corbusier aderì con entusiasmo ideologico, offrendo i suoi servigi (ma rifiutato) a Lenin come a Hitler: non gli importava il colore, era il totalitarismo in sé a sedurlo.
Ma allora almeno le dittature di massa potevano sembrare il futuro, apparire solide come granito, capaci di sfidare i secoli.
Nel 1953-73, dopo la guerra, trent'anni dopo la caduta del nazionalsocialismo l'abbaglio culturale non era più giustificabile.
Ma gli architetti «intellettuali progressisti» non ritennero necessario ripensare la realtà, aggiornare le loro idee; più probabilmente, non ne avevano.
Così, per gli operai e immigrati, costruirono le città dell'«uomo nuovo» totalitario immaginario e futurista, collettivo e militante.
Come prescriveva decenni prima Le Corbusier: costruire «lontano dalle città antiche» (odiati segni di un passato organico e tradizionale) pile sovrapposte di «macchine per abitare» con enormi «sbarre» di edifici in linea retta a perdita d'occhio, «ben spaziate e inondate dal sole» e dall'aria aperta, affacciate su vialoni geometricamente dritti che si perdono nell'orizzonte.
Sono le «strade a percorrenza rapida» (Marinetti ne sarebbe stato entusiasta) che, nei progetti, dovevano unire le immense caserme-dormitorio ai quartieri «riservati al lavoro» e ad altri «riservati allo svago».

Le barre di edifici anonimi e monotonamente identici, che si sognavano «immerse nel verde», si chiudono attorno a immensi (come chiamarli?) cortiloni di mezzo chilometro di lato: destinati s'indovina, alla ginnastica mattutina cui gli occupanti degli appartamenti si sarebbero dedicati al suono del fischietto del capo-fabbricato in divisa.
Chi ha visto alcune banlieues parigine che covano il disordine sottoproletario, si è stupito della loro «volontà» estetica.
Nulla in comune con le periferie romane o napoletane, sorte a casaccio secondo le convenienze di una speculazione edilizia micragnosa e avara di materiali, truffaldina, per inquilini da poco inurbati o piccolo borghesi a corto di soldi, ma pretenziosi.
I quartieri dormitorio francesi sono ben tenuti e persino «belli», ancorchè agghiaccianti.
Si sente che rispondono a una pianificazione deliberata, vi si coglie la mano di architetti tecnicamente capaci.
Il che è peggio, in un certo senso.
Sarebbero perfetti per l'«uomo collettivo», ingranaggio minuscolo ma preso a carico - come futuro combattente - dallo Stato. La separazione tra «aree da abitare» e «luoghi di lavoro e di svago» presuppone camion che ogni mattina trasportino masse (che presumibilmente cantano felici «Bandiera Rossa»), rafforzate dalla ginnastica mattutina, a quei «luoghi» distanti; e un'autorità che organizzi divertimenti, adunate e occupazione obbligatoria - ma garantita - per le «armate del lavoro» dei suoi cittadini.
Insomma i falansteri dell'«architettura moderna» sono pensati per una società che, se mai esistette nel '33, non esiste più.
Un'utopia totalitaria tramontata.

Nelle «cités» non solo non arrivano la mattina i camion di Stato per portare le «armate» al «lavoro»: non arrivano i mezzi pubblici.
Nessun fischietto di capo fabbricato chiama i giovani alla ginnastica salutista.
Il verde naturale in cui sono immerse diventa, per carenza di manutenzione, discarica triste, o luogo pericoloso da attraversare.
Abitato da giovani per cui non è stato approntato il lavoro obbligatorio e garantito, non tanto disoccupati quando inoccupabili.
Non si trova un bar, una pizzeria, un luogo pubblico per gente normale e individuale; gli «spazi polivalenti», le «attrezzature collettive» dispostevi dai pianificatori di divertimenti sociali impossibili, o sono devastati o sono chiusi, in ogni caso inospitali e spogli.
I vialoni, troppo vasti anche per attraversarli senza rischio, geometricamente diritti e futuristicamente in fuga verso l'orizzonte, rendono la città vera, umana, ancora più irraggiungibile: non raccordi, ma trincee di relegazione.
Nella società individualista, le città satelliti collettiviste sono diventate ghetti sociali.

Ora, ma solo dopo i disordini, qualche architetto riconosce questa realtà evidente al buon senso: le città autentiche, quelle che la società umana ha costruito nei secoli per concrezione naturale, sono abitabili per la loro «mixité», la mescolanza vitale e spontanea di abitazioni con negozi, di uffici con cinema e teatri vicini; città modellate dalle loro strade e le loro piazze, nate dai passi degli uomini, non dal tiralinee pianificatore.
Solo ora un architetto, Roland Castro, descrive così le banlieues nate dai pianificatori progressisti: «anziché concepire città portatrici di continuità [spaziale e storica], questi grandi insiemi creano un avvenimento ideale dove lo spazio è generato dall'impilamento delle cellule abitative.
Gli immobili non hanno alcun rapporto con la strada, la citè vive su se stessa, lontana da tutto.
La 'mixitè' non si ottiene, se i luoghi non danno alla gente la voglia di viverci e l'occasione
di andarci».
Ora un altro, Paul Chemetov, critica la specializzazione per funzioni che fu teorizzata dall'architettura «moderna» anni '30 nella Carta di Atene, che ha creato le città-dormitorio senza commercio e senza aziende.
«Lo zoning è una coglionata; bisogna che il lavoro sia dentro la città. La vera mixité è quella delle funzioni, che porta alla mixitè sociale».
Chemetov aggiunge: «i grandi insiemi suburbani sono stati, per certi architetti, delle operazioni puramente tecniche. I grandi studi non accettavano commesse al disotto dei mille alloggi per volta: concepivano tre o quattro modelli e li incastravano gli uni sugli altri come dei Lego sì da costruire città intere - città dove loro non avrebbero mai vissuto - senza interrogarsi sul senso della commessa, né sul contesto sociale.
Ciò ha permesso loro di vivere da nababbi».

Ecco il punto.
Architetti fieramente anticapitalisti, che si rifiutavano di piegare l'architettura alle esigenze dei «padroni», arraffavano senza scrupolo commesse miliardarie del committente statale.
La questione del committente - chi paga e ordina l'opera - è cruciale nell'architettura, più di ogni teoria o di ogni estetica.
Per secoli l'architettura è fiorita per ordinativi di committenti umani, fossero, come nell'antica Roma, ricchi politici in carriera che donavano alle città opere pubbliche grandiose, o Papi, gran signori e principi, o comunità religiose, o pii donatori, sfarzosi mecenati, o grandi borghesi.
Il denaro che spendevano era il loro; loro l'ambizione che l'opera manifestava, loro il nome che volevano rendere imperituro, loro la responsabilità.
Sotto il loro occhio e il loro gusto le idee personali dell'architetto non potevano esprimersi liberamente; anzi divenivano malleabili come cera.
L'architettura è un «linguaggio» e come ogni linguaggio, è «comune», di tutti (2).
Il committente umano non consentiva rotture di linguaggio assolute.
Ma il committente delle cités francesi, delle banlieues, era la Cassa dei Depositi e Consegne: un ente burocratico incaricato dell'urbanizzazione di massa.
Non c'è cosa più inumana della burocrazia, l'anonimo mostro freddo.


Il committente burocratico non ha «occhi» per giudicare il progetto, ha solo capitolati, appalti e «parametri oggettivi».
Non ha ambizioni, né un nome da illustrare, come i Medici di Firenze o Papa Sisto committente di Michelangelo.
Il denaro che stanzia, non è il suo.
Papa Sisto, i Medici, e anche Mussolini e Hitler, anche gli avidi capitalisti che hanno sparso i loro nomi a New York (Rockefeller Center, Trump Tower, Chrysler Building) avevano con i loro architetti un rapporto caldo, esigente, personale e costrittore; la burocrazia ha solo rapporti burocratici, fatti di nulla-osta, di stadi di avanzamento, di contratti.
La burocrazia non sceglie l'architetto migliore, sceglie il più pagato (3).
E' la collusione fra il committente burocratico e gli architetti («progressisti» a parole) la tragedia dell'architettura moderna, la sua degradazione degradante, che abbruttisce le città.
La collusione tra una cecità anonima e irresponsabile e una irresponsabilità «rivoluzionaria», «teorica» incontrollata.
Il problema non è francese, è anche (soprattutto) italiano, perché la «modernità burocratica» committente ha più tesori tradizionali da devastare.

Basta pensare al Comune di Roma che ha affidato l'Ara Pacis a Nimeyer, architetto «internazionale» brasiliano; o al Comune di Milano che ha fatto «ornare» piazza Cadorna, con un grosso ago ficcato nell'asfalto (simbolo ridicolo del Made in Italy sartoriale), da un tedesco che non merita menzione: gente, in ogni caso, estranea al tessuto storico nazionale, alla sua «lingua» architettonica.
Naturalmente, con molti soldi, che attizzano ancor più irresponsabili avidità.
«C'è stata una cavalcata degli architetti importanti a cavalcare il mercato dell'alloggio sociale; alcuni sono diventati affaristi, facendo stoccaggio, non architettura», dice l'architetto Renée Gailhoustet.
La doppiezza di questi affaristi viene sottolineata da Christian de Portzamparc, architetto di grido: «lo zoning si è rivelato un'idiozia, ma va detto che non è stato applicato in quanto utopia; è stato applicato in quanto questa separazione delle funzioni rispondeva perfettamente agli interessi economici e tecnici».
Eccoli lì, gli «intellettuali progressisti» che si rifiutavano di «piegare la loro arte ai padroni»: ma agli «interessi economici e tecnici» si piegavano eccome, e quanto ben pagati.
Almeno smettessero di autocelebrarsi come rivoluzionari critici dell'ordine esistente, questi maggiordomi dell'esistente e dei poteri costituiti, nati dalla costola totalitaria di Le Corbusier.

Ma in Francia, almeno, si comincia a dirlo; in Italia è impossibile eccepire sugli Zanuso, i Fuksas, i Piano, stanchi ripetitori di «modernità» nate all'estero, ingoiatori di commesse pubbliche spesso ricevute in grazie alla loro tessera del PCI.
Ma anche in Francia, la critica arriva tardi e scarsa.
Quando ormai le cités radiose sono state abbandonate, appena possibile, dalla classe media minuscola per cui furono costruite, che ha lasciato i tristi posti «radiosi» a una popolazione di immigrazione, impoverita e precaria.
Che le municipalità, con tutta la loro retorica sul «decentramento», sono ben contente di lasciare là senza servizi.
«Non si può dire che l'ambiente ha creato la miseria, ma certo la miseria ha trovato il suo ambiente», dice Roland Castro.
Ciò consente anche agli architetti colpevoli di difendere l'indifendibile.
Così Jean Dubuisson, uno dei costruttori delle banlieues, oggi di anni 91: «la Carta di Atene ha principi molto generali, bastava non applicarli in modo brutale».
Sembra che non sia stato lui, ad applicarli brutalmente.
«Il problema è che i grandi insiemi concentrano gente che non ha scelto di viverci» (scoperta: i poveri non hanno scelta; e così, «la colpa è della società» se gli architetti hanno fatto per loro luoghi invivibili, lucrando da nababbi).

Bernard Reichen, Grand Prix di urbanismo 2005, insiste: «la forma urbana non è patologica in sé. I grandi insiemi erano i primi germogli di una città 'fuori delle mura', contro le città che da secoli si costituivano per integrazione progressiva dei sobborghi».
Già, così nascevano le città: non le creavano dal nulla gli architetti, ma le società viventi di uomini.
Ma lui, duro: «questa rottura non è stato un errore: segna il passaggio dalla città antica, radiocentrica, a una città-territorio, che è la realtà d'oggi. In questo senso, molti articoli della Carta di Atene sono pertinenti».
Insomma il testo è ancora quello dell'utopia totalitaria, anche se ormai «debole» (l'inesistente «città territorio», voluta dall'impero dell'auto).
Nessuna idea nuova è apparsa dopo il 1933.
Anche Paul Chemetov, che è il più critico, sostiene: «c'è a Ginevra una città per i funzionari internazionali, che è una stretta applicazione della Carta di Atene, e che funziona bene».
Già: per «funzionari internazionali».
Un'umanità senza radici ma ad altissimo reddito, con l'autista, che abita lì «in missione» temporanea.
Né è difficile immaginare che i materiali, i servizi e il «dècor» siano alquanto migliori delle barre delle banlieues popolari.
Per gli «internazionali» con in tasca il biglietto aereo, e a condizioni di lusso, la Carta di Atene «funziona».



1) Grégoire Allix, «L'utopie manquée del cités-dortoirs», Le Monde, 6 dicembre 2005.
2) Il linguaggio parlato è «comune» nell'ovvio senso che anche lo scrittore più eccelso non s'inventa di sana pianta la sua lingua : in massima parte, la «riceve» già formata dalla comunità storica cui appartiene, e solo la vivifica con il suo genio. Chi vuole inventarsi la sua lingua personale dal nulla - come fanno gli schizofrenici - diventa non-intelleggibile. Così l'architettura è una linguaggio, i cui elementi (gli archi e le colonne, gli ordini, il fraseggio degli ornati, le regole sintattiche ossia tettoniche) vengono da una tradizione appartenente all'intera comunità culturale, storicamente determinata; l'architettura anzi è un linguaggio ancor più comune degli altri (come ad esempio la musica o la lirica), per la sua vocazione ad essere essenzialmente pubblica. L'architetto è tenuto a costruire con elementi che i cittadini, e anche i passanti, possano «leggere» e capire. Così per esempio, in Europa, l'arte romanica: chiese romaniche spagnole, italiane e francesi appaiono «dialetti» della stessa lingua, il romanico, immediatamente riconoscibili come tali nonostante la diversa «inflessione». Solo nel secolo ventesimo gli architetti (come tutti gli altri artisti) hanno preteso di creare un linguaggio loro e assoluto - volevano obbedire solo alla geometria o alle «leggi oggettive insite nei materiali» - rompendo con la lingua secolare comune architettonica; di fatto, si sono rifiutati di «parlare» alla comunità. Come gli schizofrenici, sono diventati inintelleggibili, scostanti, anti-umani. Il tema è magistralmente approfondito da Hans Sedlmayr, «Perdita del centro», Rusconi editore.
3) Così, nonostante gli sforzi attivi e le idee contrarie del Duce, l'architetto «fascista» per eccellenza, preferito dalle burocrazie, è il pompieristico Piacentini, non già l'innovativo Terragni; al primo furono affidate le commesse più lucrose, all'altro solo qualche opera marginale.
 
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