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La babele globalista (parte III)
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Dalla Tecnocrazia alla Bancocrazia

Tralasciando, senza non segnalarne l’intrinseca malignità, la pretesa di manipolare la vita, poniamo la nostra attenzione alla bancocrazia.

Il progetto di realizzare la perfetta convivenza sociale globale, nella pace e nel benessere planetari, è oggi portato avanti proprio da quella particolare specie di tecnocrati che sono gli ingegneri monetari, ossia i banchieri e gli economisti globalisti neoliberisti.

La storia moderna, è attraversata, silenziosamente, dalla prometeica tentazione di costruire il paradiso umanitario, il «regnum hominis», attraverso la progressiva unificazione mondiale delle economie resa possibile, più e prima che dall’abbattimento delle frontiere tra i mercati, dalla progressiva unificazione monetaria planetaria.

Una sola moneta mondiale che, diretta da un’unica centrale di governo tecnico-bancario o imposta dalla libera concorrenza monetaria, costringerebbe le economie ad unificarsi e gli Stati a dileguarsi.

Questa utopia monetaria – si badi! – è stata coltivata sia a destra, da Hayek, che a sinistra, da Keynes (esiste, infatti, un umanitarismo di destra, conservatore, ed uno di sinistra, progressista). Con la differenza che mentre Hayek voleva che fosse il mercato, nella sua pretesa spontaneità, a stabilire quale moneta debba prevalere sulle altre, secondo la legge per la quale la moneta buona scaccia la cattiva, Keynes avrebbe invece voluto l’introduzione, da parte di un’Autorità politica mondiale, di una moneta unica, che egli chiamava «bancor» e che interpretava come strumento di sviluppo per i Paesi poveri.

Orbene, l’euro è stato progettato, secondo questa prospettiva, come momento europeo intermedio verso la moneta unica mondiale. Ecco perché le tecnocrazie, che lo hanno elaborato, oggi ci ripetono continuamente, di fronte alla sua crisi, che esso è irreversibile. Quelle tecnocrazie non consentiranno a nessuno Stato europeo di uscire dall’euro: costi quel che costi. Costi pure l’impoverimento, fino alla fame, dell’Europa del sud, generalmente di radici cattoliche o, come nel caso greco, comunque apostoliche, ed il suo futuro destino di asservimento coloniale in favore dell’Europa protestante del Nord.

Uno dei tecnocrati d’alto rango, un «eurocrate illuminato», Jacques Attali, lo ha detto chiaramente: «Tutti coloro che hanno avuto il privilegio di tenere la penna per scrivere la prima versione del Trattato di Maastricht hanno fatto in modo che un’uscita (dall’euro) non fosse possibile. Siamo stati ben attenti a evitare di scrivere un articolo che consentisse a uno Stato membro di andarsene. Questo non è molto democratico, ma è una garanzia per rendere le cose più difficili, in modo che fossimo costretti ad andare avanti» (1).

Quando Mario Monti dice che la crisi è benefica perché costringe Stati e popoli ad integrarsi secondo i paradigmi monetaristi imposti dall’Eurocrazia di Bruxelles e Francoforte, allontanando il pericolo «populista», in fondo ragiona con lo stesso metro di Attali, essendo entrambi tecnocrati del medesimo «club». Ancora Monti, intervenendo di recente in un meeting dell’Internazionale di Centro, alla presenza di Gianfranco Fini, ha affermato che la globalizzazione «implica la necessità di un governo della globalizzazione altrimenti il cratos, il potere dell’uomo sulla natura e sugli altri uomini, viene meno. Ma perché ci sia una governance della globalizzazione occorre un coordinamento più o meno incisivo dei governi dei diversi Paesi. Questo implica una cessione, che io preferisco chiamare una condivisione, delle sovranità nazionali. Altrimenti il cratos viene dato esclusivamente ai mercati ed esce dalla sovranità degli uomini».

Da notare che questa difesa montiana della sovranità politica dall’invadenza dei mercati implica, in realtà, l’esaltazione del Potere Umanitario Globale, al cui servizio è, per l’appunto, la cultura di formazione e provenienza di Mario Monti. La Tecnocrazia bancaria, infatti, ambisce a dominare le stesse forze della finanziarizzazione facendone degli strumenti da usare per indirizzare le scelte dei governi verso l’obiettivo finale della pianificazione planetaria della libertà di mercato da raggiungere attraverso l’unificazione monetaria mondiale quale leva per l’abbattimento definitivo dei protezionismi statuali (2).

La Bancocrazia, erede della Tecnocrazia di comtiana memoria, vuole dunque realizzare – la costruzione eurocratica ne è solo un momento di passaggio – l’Assoluto Potere Umanitario sul mondo e non si fermerà fino a quando avrà raggiunto il suo obiettivo.

Ne siamo stati avvertiti in anticipo: «Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome. Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d’uomo. E tal cifra è il seicentosessantasei» (Apocalisse 13, 16-18).

Secondo la numerologia biblica il 6 è numero dell’imperfezione della creatura a confronto del 7 numero della perfezione divina. Un triplice sei sta ad indicare lo sforzo umano verso la perfezione di Dio ma senza la Grazia di Dio. Uno sforzo pertanto prometeico che nasce dalla übris, dalla superbia, ed è destinato alla catastrofe.

Babele

Nel momento nel quale il Potere Umanitario Globale sembrerà aver raggiunto il suo obiettivo, l’imprevedibile, l’inatteso, accadrà. Ne siamo convinti.

Ne abbiamo un resoconto scritto in anticipo, quando gli ebrei esuli a Babilonia erano alle prese con la tentazione che il culto pagano monistico-dualista di Tamiat-Marduk, apparentemente vincente, poneva alla credibilità della loro fede nel Dio unico e trascendente, rivelatosi al padre Abramo ma ora in apparenza sconfitto. Le magnifiche torri di Babilonia, le Ziqqurat, divennero ai loro occhi il simbolo della volontà prevaricatrice dell’uomo che pretende di ergersi a «dio» di se stesso, di ascendere al Cielo con le proprie forze, di dare l’assalto al Trono di Dio nella convinzione di spodestarlo e di auto-deificarsi (3).

Ma quell’umanità impegnata a costruire la Torre di Babele, nella certezza di dominare il proprio destino e con esso il mondo, proprio quando l’obiettivo era ad un passo dal realizzarsi, fece esperienza di quanto fallimentare e fragile sia la pretesa di costruire un mondo unito senza il Dio della Rivelazione. La confusione babelica delle lingue, alla quale solo la Pentecoste con l’effusione dello Spirito Santo pose rimedio, ossia il sincretismo degli antichi imperi – immagine ante litteram del mondialismo attuale – travolse la perenne protervia umana di innalzarsi «sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stess(a) come Dio» (2 Tessalonicesi, 2,4).

L
Arca di Noé ed il Titanic di Tremonti

La Rivelazione, tuttavia, invita alla speranza, alla fiducia nel Dio di Abramo Incarnatosi in Gesù Cristo, e rimanda ad un’altra immagine, un’immagine di salvezza. Quella dell’Arca di Noé. Il Diluvio biblico, presente in tutte le tradizioni religiose, rappresenta lo spartiacque storico tra l’umanità «adamitica» della caduta originale – la Bibbia ne descrive il progressivo imbarbarimento – e l’umanità «abramitica», ossia richiamata, prima provvisoriamente in Abramo e poi definitivamente, e senza più distinzioni tribali, in Cristo, alla sua originaria vocazione teologale.

Nell’umanità abramitica la Rivelazione adamitica, oltrepassata la catastrofe del Diluvio, pur non essendo mai venuta meno la Sua Presenza in essa, torna a reinnestarsi nella storia del mondo – è ad Abramo che Melchisedeq, detentore postdiluviano del Sacerdozio Universale che sarà di Cristo, consegna le future specie eucaristiche del Pane e del Vino – sicché la Redenzione inizia ad operare nell’ultima fase storica della vicenda umana, fino al culmine della Passione e Resurrezione in vista della futura conclusione dei secoli. Ora, proprio in questa luce, l’Arca del Patriarca diluviano assurge a tipo della Chiesa, Barca di Pietro ed, alla stregua del suo Modello perfetto ossia Maria Vergine, Arca di Salvezza per il genere umano.

Queste prospettive teologiche non sono affatto avulse dalla storia degli uomini e chi crede di poterne fare a meno, per chiudersi nel mero «storicismo», si condanna a non comprendere nulla del senso del cammino dell’umanità lungo i secoli dal momento nel quale essa fu vocata dall’Amore di Dio sulla scena del mondo.

«L’Arca di Noé – scrive, nell’introduzione del suo ultimo libro, Giulio Tremonti, che pur non ci risulta professare, almeno apertamente, la fede cattolica – fu costruita da dilettanti. Il Titanic è stato costruito da professionisti. La prima, quella dell’Arca, è l’immagine millenaria della salvezza. La seconda, quella del Titanic, è l’immagine contemporanea del disastro. Il primo disegno… ha funzionato e può ancora funzionare perché riporta l’uomo a un ‘creator Spiritus’: ‘Fatti un’arca di legno di cipresso’. Il secondo disegno, il disegno tecnico, può funzionare ma può anche fallire. E spesso fallisce se è fatto solo dall’uomo per l’uomo. E soprattutto fallisce se è fatto dalla parte peggiore dell’uomo: dal ‘gene egoista’, matrice di un processo che prende la forma ideologica del darwinismo sociale, applicato all’economia, moderna versione dell’‘homo homini lupus’. Oggi l’ideale campo d’azione dell’homo hominis lupus è il mercato finanziario. Per effetto di uno straordinario processo di concentrazione e degenerazione delle strutture sociali e mentali, giuridiche ed economiche, il mercato finanziario ci si presenta infatti come il centro del mercato, che a suo volta ci si presenta come il centro della vita umana. Entità metafisica e oracolare, sacerdotale e misterica, autistica e matematica, collocato in uno spazio arcano e quasi sacrale, il mercato finanziario è capace di giudicarci, salvarci, dannarci, insieme popoli e persone. E lo fa, lo può fare, il mercato finanziario, per come in questi anni si è sviluppato e organizzato, ed è stato lasciato libero di farlo, mettendo il profitto al posto della giustizia, riducendo il senso della morale e della politica, rendendo astratti i vecchi protocolli regolativi, azzerando l’ethos e privatizzando il diritto, facendo prevalere la forza impietosa dei pochi nuovi padroni del pianeta sulla debolezza dei tanti, mettendo l’egoismo al posto dell’empatia, cancellando l’idea che si sopravvive perché si è sociali e non l’opposto, passando infine al caos. Alla base del mercato finanziario, c’è un’ideologia potente e dominante che tende ad azzerare la parte migliore della natura umana, riducendo la vita nell’economia e l’economia nella finanza, un mostro che oggi si alimenta divorandoci e infine divorandosi (…). A sorpresa, a partire dalla globalizzazione, in questa nuova e contemporanea storia, il nucleo finanziario iniziale del capitale circolante, trovando prima nella globalizzazione e poi nella Rete il suo luogo naturale di evoluzione ed espansione, ha infatti in progressione accumulato in sé tanta forza da generare un nuovo, mai visto prima tipo di capitale: il ‘capitale dominante’, la base del superpotere transnazionale del mercato finanziario, ciò che esprime e configura, nella sua forma ultima, l’odierna ‘dittatura del denaro’» (4).

Non sappiamo se Tremonti abbia mai letto la «Quadragesimo Anno» (1931) di Pio XI ma è certo che qui egli, sorprendentemente, riecheggia le stesse parole del grande Pontefice che stigmatizzava «l’esecrabile imperialismo internazionale del denaro».

La descrizione tremontiana del nuovo Leviatano, del nuovo Golem, costituito dal Mercato Finanziario non esita perfino ad indicarne le parvenze ineludibilmente luciferine:

«Un tipo di capitalismo, – egli continua – questo, che è tuttavia a sua volta tanto dominante quanto morente, perché ormai incapace di sopravvivere alla sua basica finzione costitutiva. (…). Sviluppato certo su quella scala industriale e globale che oggi è tipica della tecnofinanza, ma in realtà un processo non molto diverso da una magia alchemica folle e mortale, come in Faust e Mefistofele (…). Un fatto è certo: la crisi che ora vediamo e che viviamo non è venuta, non viene dal nulla, non dal caso, ma da un’oscura e imperscrutabile maledizione. Viene dall’azione dell’uomo. (…) Manovrando il mercato finanziario e gli spread, il potere agisce sulla manopola del volume della paura, la paura di perdere tutto, dal lavoro al risparmio; … davanti alla crisi il potere, proprio il potere ‘liberale’ costituito in nome del libero mercato, chiede che per pericolo e necessità sia proclamato lo ‘stato d’eccezione’; … per conservare i suoi interessi la finanza arriva all’ultimo stadio, mettendosi a governare in presa diretta facendo uso di tecnici che, loro sì, sono del tutto diversi dal popolo e perciò sanno cosa è bene per il popolo (…) (sicché non può meravigliare il sopraggiungere del) Fondo Monetario Internazionale a ridurre la sovranità nazionale (…) (perché), pur con tutte le sue colpe, chi è eletto non conta mentre conta chi non è eletto e questi proprio perché non eletto (…) (e si progetta) di togliere ai popoli il diritto di voto per sostituirlo con il sorteggio, così da costituire la Camera perfetta, (…) (in quanto si pensa che) i deficit pubblici possano essere curati proprio con corrispondenti dosi di deficit democratico (…) (Ma in questo quadro drammatico) è chiaro che è poi difficile fermarsi o fermare il conflitto sociale» (5).

Né Tremonti esita a chiamare «golpe» quello realizzato dal potere finanziario globale laddove aggiunge che: «… è la finanza a farlo, il ‘pronunciamento’, imponendo il proprio governo, fatto quasi sempre da gente con la sua stessa uniforme, da tecnocrati apostoli cultori delle loro utopie, convinti ancora del dogma monetarista; ingegneri applicati all’economia come era nel Politburo prima del crollo; replicanti totalitaristi alla Saint-Simon» (6).

L
Unità del mondo e la Scimmia di Dio

Le osservazioni tremontiane toccano il cuore del problema attuale ossia la globalizzazione. Questa, infatti, costituisce, benché in modo inaspettate per i comunisti, la realizzazione capitalista dell’internazionalismo marxista. Le difficoltà che oggi incontrano i lavoratori, alle prese con la difesa spesso disperata dell’impiego e del salario, sono tutte nel fatto che mentre il capitale si è globalizzato il lavoro no. È stato il capitale a realizzare il sogno mondialista di Marx: «proletari di tutti il mondo unitevi!». Si sostituisca «proletari» con «capitalisti» ed avremo la descrizione esatta della nostra realtà epocale. Quando l’economia era tutta interna ai singoli Stati nazionali, capitale e lavoro finirono per trovare un accordo, un «patto sociale», che li poneva in posizione di parità sostanziale e fu allora che fu introdotta l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi nazionali. In Italia si trattò di una conquista sociale del sindacalismo fascista. Poi però il capitale è diventato multinazionale ed ha iniziato a giocare su più tavoli, potendo applicare diversi regimi giuridici a seconda dello Stato nel quale si insediava. Una multinazionale può stipulare contratti collettivi  nazionali diversi pur essendo lo stesso il soggetto giuridico che stipula dalla parte imprenditoriale. Però, fino a quando ha retto lo Stato nazionale, il lavoro trovava una tutela complessiva almeno a livello nazionale anche a fronte di una controparte multinazionale. Ma al capitale questo non bastava ed approfittando della globalizzazione ha iniziato a spingere per la sostituzione dei contratti nazionali con quelli territoriali o aziendali. Con il risultato di ulteriormente frammentare, dal lato del lavoro, la forza contrattuale sindacale.

Il capitale è riuscito, in questo intento, anche subdolamente invitando i lavoratori di una azienda più produttiva a scrollarsi del peso di quelli di una azienda meno produttiva. Persino dove trattasi di aziende del medesimo complesso multinazionale. Sicché oggi un Marchionne può dire che è solo per il suo «buon cuore» se Fiat, che perde in Europa (per «sovrapproduzione» ossia, vista la questione dall’altro lato, per calo della domanda a causa del calo dei redditi imposti dalle politiche di austerità eurocratiche), non chiuderà gli stabilimenti italiani, compensando le perdite europee con i profitti americani. L’efficacia erga omnes impediva la concorrenza tra lavoratori. La parcellizzazione contrattuale invece ha aperto la via al predominio, «neo-ottocentesco», del capitale. Del resto, nell’età del transfrontieralismo anche quel principio di civiltà giuridica del lavoro, l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi di lavoro (ripetiamo: introdotto in Italia dal fascismo), prima o poi, anzi più prima che poi, era destinato a venir meno. È anche questa una manifestazione di quella che, con Bauman, abbiamo chiamato «società liquida». «Liquidità» che caratterizza il postmoderno, con il venir meno di ogni identità culturale, religiosa, sindacale, sociale. Si denominino però le cose con il loro nome e non si faccia passare, come fanno alcuni, anche cattolici, questa tendenza epocale come qualcosa di positivo o addirittura come un ritorno ad assetti «sussidiari» pre-moderni. Non è così.

Un grande giurista cattolico tradizionalista, Alvaro d’Ors, ha scritto:

«… la Chiesa è una società santa universale, ‘cattolica’. Ma si può dire di più: è l’unica società universale realmente santa. Le altre società che pretendono di essere universali… finiscono, di fatto con l’essere contrarie alla volontà di Dio, e, per ciò, compiono peccato, precisamente un peccato d’orgoglio. Questo è molto grave, perché vuol dire che l’unità, per sé stessa, non è sempre buona, ma che può essere riconosciuta come dannosa, (…) A sua volta, la non-unità, che potremmo chiamare pluralismo, non è sempre biasimevole per se stessa, ma può essere voluta da Dio (…). L’idea di uno Stato universale sembra contraria non solo alla naturalezza delle cose imposte da Dio, ma anche in quanto è utopica. Per ciò, l’ambizione ad un potere totale del mondo si prospetta oggi come il predominio di un controllo economico nascosto, mantenendo l’apparenza di un pluralismo politico universale (…). L’unità forzata di uno Stato universale sarebbe contraria alla libertà e, per ciò, alla morale cristiana. Ma nemmeno sembra essere conforme alla volontà di Dio, poiché attenta ugualmente contro il dogma della Potestà regia di Gesù Cristo, l’unità universale che pretende conseguire il governo sinarchico… anzi, questo potere universale segreto, il cui fine è il dominio universale per il controllo economico, è essenzialmente anticristiano; presenta rischi chiaramente satanici, imitare l’unità universale della Chiesa di Cristo e nascondersi come ‘autorità’ clandestina fingendo che i popoli siano liberi di eleggere altre ‘podestà’; effettivamente, la menzogna, che si manifesta nell’imitazione grottesca del divino e nel travestimento davanti agli uomini, è proprio del demonio, ‘padre della menzogna’ e necessariamente nemico, pertanto, della verità, che è lo stesso Gesù Cristo. Come abbiamo detto, l’unica unità universale positivamente voluta da Dio è la Chiesa, e sembra conforme a questa stessa volontà il fatto che esistano diverse podestà nell’ordine politico, adattate alle differenze naturali delle nazioni: all’unità della Chiesa corrisponde la pluralità del mondo secolare, e l’unità politica del mondo secolare, in cambio, attenta sempre contro l’unità santa della Chiesa (…). Tutta l’organizzazione politica del mondo deve partire dalla pluralità politica come qualcosa voluto da Dio, a differenza dell’unità della sua Chiesa. Tutta la pretesa di unificare il governo del mondo, sia chiaramente, in forma di Stato universale o altra forma di organizzazione con podestà unica su tutti i popoli, sia in maniera occulta a modo della Sinarchia economica, è contraria alla volontà di Dio e non merita di essere accettata come potere costituito» (7).

In un saggio degli anni Cinquanta del secolo scorso – «L’unità del mondo» – Carl Schmitt descriveva l’incipiente unificazione tecno-economica verso cui l’umanità era diretta, ricordando che «anche il regno dell’Anticristo sarà universale». Perché, rammentava ancora Car Schmitt, l’Anticristo è «simia Dei», scimmia di Dio. Lo imita per volontà di sostituirLo e così ingannare gli uomini deviandone l’amore naturalmente rivolto verso il Creatore. In quel saggio il grande vecchio della scienza giuridica europea riprendeva, da «epimeteo cristiano» ossia dopo il ripensamento del decisionismo hobbesiano postcattolico che lo aveva improvvidamente avvicinato al nazionalsocialismo, gli argomenti esposti in un altro suo saggio giovanile, «Aurora Boreale», scritto nel 1916 ovvero in un momento della propria vita nel quale si professava ancora integralmente cattolico. In quel giovanile intervento, che era una recensione del libro Das Nordlicht (Aurora Boreale) del suo amico e poeta Theodor Däubler, Carl Schmitt, con grande intuizione «apocalittica» descriveva insieme la prometeica protervia prevaricatrice dell’uomo e l’azione di colui che si oppone a Cristo, che Gli si erge avanti, che vuol esserGli «anti».

Ne riportiamo, a beneficio dei nostri lettori, che così potranno gustarne la profeticità ed anche il lirismo, un’ampia pagina. Una pagina che, nel descrivere il mondo come lo vuole l’epoca dell’umanitarismo prometeico, riecheggia da vicino la descrizione che Robert Hugh Benson fa, nel suo «Il Padrone del mondo», non a caso scritto anch’esso in quegli stessi anni, del mondo unificato dalla scienza e dalla tecnica in nome dell’ateismo.

«L’epoca – scriveva dunque Carl Schnitt in piena prima guerra mondiale – si è autodefinita capitalista, meccanicista, relativista, epoca delle comunicazioni, della tecnica e dell’organizzazione. Di fatto sembra che l’‘industria’ sia la sua firma, l’industria quale mezzo grandiosamente efficiente per raggiungere un qualsiasi miserabile o insensato scopo, l’universale prevalere del mezzo sullo scopo (…). Il successo della enorme ricchezza materiale, risultato della generale ‘mediazione’ e calcolabilità, sorprendeva. Gli uomini sono diventati poveri diavoli; ‘sanno tutto e non credono a niente’. Si interessano di tutto e non si appassionano a nulla. Capiscono tutto, i loro studiosi registrano ogni cosa della storia, della natura, della loro stessa anima. Sono conoscitori degli uomini, psicologi e sociologi e scrivono infine una sociologia della sociologia. Lì dove qualcosa non si svolge in maniera del tutto liscia, un’analisi sottile e spedita o una organizzazione atta allo scopo appiana subito l’inconveniente. Persino i poveri di quest’epoca, la massa di miserabili che non è altro che ‘un’ombra che zoppica verso il lavoro’, i milioni che desiderano la libertà, anch’essi si dimostrano figli di questo spirito che riduce ogni cosa alla formula della sua coscienza e non lascia spazio al mistero e al trasporto dell’anima. Volevano il cielo in terra, il cielo come risultato di commercio ed industria e che pare sia qui sulla terra, a Berlino, a Parigi o a New York, un cielo con doppi servizi, automobili e poltrone in pelle, la cui bibbia sarebbe l’orario ferroviario. Non volevano un Dio dell’amore e della grazia, avevano ‘realizzato’ tante cose sorprendenti, perché non avrebbero dovuto ‘realizzare’ la costruzione della torre di un cielo terreno? Le cose più importanti, quelle decisive, erano infatti già secolarizzate. Il diritto era diventato potere, la fedeltà calcolo, la verità una correttezza generalmente riconosciuta, la bellezza buon gusto, il cristianesimo un’organizzazione pacifista. Un equivoco e una falsificazione generale dei valori dominava le anime. Al posto della distinzione fra bene e male subentrarono utilità e danno differenziati in maniera sublime. La confusione era terribile. Per colui che riconosce il potere devastante di questa confusione, la terra sembra diventata una macchina stridente. Un’immagine nata in altri tempi dall’indescrivibile paura di fronte all’inevitabile potere del male, si ripresenta come in una profezia che si avvera: l’Anticristo. Che cosa c’è di mostruoso in lui? Perché fa più paura di un potente tiranno, di Tamerlano o di Napoleone? Poiché sa imitare Cristo e si fa così simile a Lui da ingannare l’anima di chiunque. Si mostrerà gentile, corretto, incorrompibile e ragionevole, ognuno lo decanterà come fortuna per l’umanità e dirà: un uomo grande e giusto! ‘Erit omnibus subdole placidus, munera non suscipiens, personam non praeponens, amabilis omnibus, quietus universis, xenia non appetens, affabilis apparens in proximos, ita ut beatificent eum nomine dicentes: justus homo hic est’. Così lo descrive lo pseudo-Ephraem nei ‘Dictis sancti Effrem, de fine mundi et consumatio saeculi et conturbatio gentium’. C’è una forza misteriosa nella imitazione di Dio. Dio ha creato il mondo e lui lo riproduce; Cristo è figlio della Vergine, e alcuni autori antichi affermano lo stesso dell’Anticristo. Il misterioso mago trasforma il mondo, cambia l’aspetto della terra e assoggetta la natura. Essa lo serve; non ha importanza a che pro, se per una qualche soddisfazione di desideri artistici, o per il benessere e la comodità. Gli uomini che si lasciano ingannare da lui vedono soltanto il favoloso risultato, la natura sembra essere superata, irrompe l’epoca della sicurezza; si provvede a tutto, una intelligente previsione e pianificazione sostituisce la provvidenza; la provvidenza la ‘fa’ lui, come se fosse una qualsiasi istituzione. All’interno dei misteriosi giri della finanza sa creare inspiegabili valori, ma tiene anche conto di superiori esigenze culturali senza dimenticare il suo fine. Infatti egli sa condurre ‘ad absurdum’ ogni verità per il fatto di lasciarla formulare da un orrendo chiacchierone mantenendo d’altro canto i suoi conferenzieri che insegnano elegantemente dalle cattedre su religione, arte e filosofia e alla cui sottile analisi non sfugge né un santo né un eroe, neanche Cristo sulla croce… Nessuna fede può resistere; essi disfano la lingua in bocca perché non vogliono vedere il logos; si sentono superiori perché sono scettici. Gli uomini li credono quando sostengono che nel mondo ogni cosa è umana e che non bisogna farsi impaurire dalla grandiosità e dalla solennità. La confusione è indicibile: (…) metropoli, vapori di lusso ed igiene; la prigione dell’anima è diventata un’accogliente residenza estiva. Ed infine il coronamento dell’opera nella grandezza della tecnica: l’uomo può volare, volare fisicamente. Chi intuiva il significato morale dell’epoca sapendosi anche figlio del proprio tempo non poteva che diventare dualista. Un intelligente critico del tempo scoprì l’opposizione fra meccanica ed anima. Ma conosceva così bene la realtà della vita umana che la povera anima si era ritrovata sola nella sua disperazione. Così ci sarebbe rimasta solo una via: dichiarare senza mezzi termini – con lo gnostico Marcione – il mondo quale opera del demonio, in cui eternamente la mancanza di spirito trionferà sullo spirito. Qui va ricercata la radice della paura di ‘un universo fallito per sempre’, dove non avrebbe né senso né scopo volere qualcosa di giusto e di buono; Dio sarebbe impotente e abbandonato; tutta la storia del mondo una canzonetta suonata da qualche sciocco perdigiorno su uno strumento stonato; il mondo sarebbe irrimediabilmente rovinato; il miserabile scimmiottamento di una nobile immagine, la creatura di uno sfacciato plagiatore, che ha rubato il progetto di una grande opera ricavandovi una caricatura; una creazione della scimmia di Dio. Per noi non ci sarebbe scampo, dovremmo cercare di scappare dalla prigione per salvare almeno l’anima. Un orrore escatologico aveva afferrato molte persone prima che gli orrori della guerra mondiale diventassero realtà. Ma gli scettici, la cui razionalità era estranea ad ogni apocalisse e il cui spirito non era piccolo abbastanza per operare insieme agli altri, si lamentavano perché all’epoca mancava l’anima (…). Lo spirito dell’epoca meccanicistica compare nel ‘Nordlicht’ in un’immagine nella cui cornice è condensata una pienezza di vita epica (‘Nordlicht’, II parte, pagine 477-481): la ragione si libera da tutte le catene e segue senza inibizioni il suo razionalismo; la sua meta è riconoscere la terra e dominarla. L’oro diventa denaro, il denaro capitale – e a questo punto comincia il devastante corso della ragione che trascina ogni cosa nel suo relativismo, stronca in maniera beffarda la rivolta dei poveri contadini con motti di spirito e cannoni ed infine cavalca sopra la terra come un cavaliere dell’apocalisse che precorra il tempo della resurrezione della carne. Egli fa infierire sull’umanità tormentata dei giganteschi ragni di ferro, ‘forme di ragni volanti meccanicamente rapide’, proboscidi metalliche ‘trapanano dei cuori’ (…). Così fa strage peggio della peste, distrugge le coscienze, annienta il cristianesimo a afferra il mondo come un polipo stringendolo e succhiandolo. È battitore, alito pestilenziale, proscrittore di ricette: ha puntato il destino della terra sul denaro liquido. Qui domina l’orrore di fronte alla terribile potenza e irrefutabilità di questo utilitarismo» (8).

(fine terza parte)

Luigi Copertino


Parte I
Parte II




1) Citato in Giulio Tremonti «Uscita di sicurezza», Rizzoli, Milano, 2012, pagine 81-82.
2) Il libero mercato, che non è mai esistito in natura, storicamente è sempre stato imposto, anche quando si trattava di realizzarlo solo all’interno delle singole nazioni, dalla Legge Impersonale (rule of law), ossia dal dirigismo dei liberali al potere, che ha distrutto le antiche solidarietà corporative e comunitarie come oggi, ripetendo l’operazione su scala globale, va distruggendo, omologandole, le identità nazionali e popolari.
3) Babilonia, che biblicamente assurge a simbolo della volontà prevaricatrice dell’uomo contro Dio, è stata, storicamente, capitale di una grande civiltà. Faro della cultura del tempo, i cui saggi itineranti portavano lo scibile della loro scienza medica ed astronomico-astrologica ovunque – i «magi» del Vangelo ne erano gli eredi –, ciononostante costituì, come tutti i grandi imperi della storia (non escluso quello romano, che pure nel disegno di salvezza è stato strumento di «preparatio» dei popoli all’evento dell’Incarnazione e dunque all’avvento della vera Universalità fondata sull’Eterno), soltanto un tentativo sincretistico di tenere insieme le genti. Un tentativo fondato esclusivamente sul potere politico-religioso immanente. Un tentativo che se da un lato esprimeva l’originaria vocazione dell’uomo all’universalità, dall’altro ne rivelava l’insita tentazione, post-adamitica, di edificare l’universalità con le sole forze umane e nel quadro di una spuria spiritualità monistico-dualista. Nabucodonosor II deportò gli ebrei a Babilonia in due riprese nel 597 e nel 587 avanti Cristo. La cattività babilonese, che fu momento fondamentale per la «purificazione» del monoteismo ebraico dalle scorie, che in esso ancora sussistevano, del politeismo pagano e per la «codificazione» della Tradizione sino ad allora prevalentemente orale, non è stata una realtà «concentrazionaria». Gli ebrei si acclimatarono molto bene nella capitale dell’impero di Nabucodosor, fino ad assurgere a ruoli di rilievo persino nella corte del Gran Re. Fu proprio a Babilonia che la sinagoga diventa il centro dell’identità ebraica, casa di Dio nella quale i suoi figli, all’epoca ancora solo ebrei, potevano trovare rifugio. Nonostante questo, in fin dei conti, buon trattamento babilonese, gli ebrei non potevano dimenticare Gerusalemme, come recita uno struggente canto, poi raccolto nei Salmi, che alla nostalgia per la Città Santa unisce l’invocazione alla Giustizia Divina come poteva concepirla un uomo del tempo, ossia inesorabile e persino crudele («Sui fiumi di Babilonia,/ là sedevamo piangendo/al ricordo di Sion./ Ai salici di quella terra/ appendemmo le nostre cetre./ Là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato,/ canzoni di gioia, i nostri oppressori:/ ‘Cantateci i canti di Sion!’./ Come cantare i canti del Signore/ in terra straniera?/ Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra;/ mi si attacchi la lingua al palato,/ se lascio cadere il tuo ricordo,/ se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia./ Ricordati, Signore, dei figli di Edom,/ che nel giorno di Gerusalemme/ dicevano: ‘Distruggete, distruggete/ anche le sue fondamenta’./ Figlia di Babilonia devastatrice,/ beato chi ti renderà quanto ci hai fatto./ Beato chi afferrerà i tuoi piccoli/ e li sbatterà contro la pietra» (Salmo 137-136). Infatti, quello ebraico non era un popolo come gli altri ma era un, anzi in quel momento «il», popolo teologale, portatore, unico all’epoca, della fede monoteista, e destinatario della missione di custodire la Rivelazione fino al giorno dell’Incarnazione che avrebbe aperto la teologalità della vocazione di Abramo a tutti i popoli nell’Universalità della Chiesa, fondata da Nostro Signore Gesù Cristo come Nuovo Israele nella Nuova Alleanza, superamento ed ad un tempo perfezionamento dell’Antica che resta solo quale Patto preliminare del Patto Definitivo, nell’attesa che anche il vecchio Israele lo comprenda entrando anch’esso nella Chiesa. Ecco perché l’universalità cui chiamava Babilonia non poteva soddisfare il cuore ebraico votato alla Rivelazione nella prospettiva del Cristo Venturo che avrebbe fondato l’unico, perché eterno e non politico, Regno Universale nella Sua Chiesa Cattolica ed apostolica: «Se il Signore – recita il Salmo 127,126 – non costruisce la casa,/ invano vi faticano i costruttori./ Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode». La Torre di Babele, molto probabilmente, deve essere identificata nella colossale ziqqurat Elemenanki («Casa delle fondamenta del Cielo e della Terra»: si noti il dualismo monistico, tipicamente pagano – si pensi a Urano e Gea nel mondo greco – che vede nella polarità Cielo/Terra, anche sessuale nel senso di maschile e femminile, la prima emanazione o frammentazione dell’unica sostanza immanente al mondo, dell’unica «anima mundi»). Questa identificazione è sostenuta da Robert Koldewey, archeologo tedesco, dopo i suoi recenti scavi. Costruita nel VI secolo avanti Cristo proprio da Nabucodonosor II, era un edificio quadrato di circa 91 metri di lato dotato di un triplice avancorpo scalare e sette terrazze decrescenti verso l’alto. Costruita con l’apporto di tutti i popoli sottomessi all’impero – da qui l’episodio biblico della confusione delle lingue come punizione per un tentativo prometeico di scalata al Cielo senza la Grazia – esprimeva senza dubbio le notevoli capacità ingegneristiche raggiunte dalla civiltà babilonese al suo culmine. Nell’ottica biblica, però, questo rappresentava l’arroganza e la prevaricazione dell’uomo verso l’Altissimo che già non aveva esitato a punire la stessa arroganza nell’omicida Caino, «primo costruttore di città». Al tempo stesso, però, Dio ponendo sul transfuga biblico il suo sigillo, o segno, aveva intimato a tutti di non ucciderlo, «nessuno tocchi Caino», nella prospettiva della Redenzione che solo da Lui, dal Creatore, sarebbe venuta a salvare anche quanto di accettabile vi era nel pur deviato prometeismo della scalata al Cielo, ossia l’anelito all’Universalità ed all’Amore di Dio. Amore universale di Dio che è resta sempre e solo un dono mai un diritto. «Sono Io ad aver scelto voi, non voi Me» è scritto nell’Antico Testamento ed anche Cristo Signore rivolge lo stesso ammonimento agli apostoli nel Vangelo. L’idea biblica per la quale il solo vero ed autentico universalismo è quello «costruito» nella Chiesa, vetero e neotestamentaria, direttamente dal Signore è, ad esempio, presente ad Agostino quando nel capitolo XIX, 17, del De Civitate Dei, mentre descrive la Chiesa come «pellegrina sulla terra», afferma nel contempo la relatività ed al tempo stesso la naturalità della Città Politica. Del bene, ossia la «tranquillitas ordinis» della quale, pur non aspettandosi da essa la salvezza, i cristiani devono occuparsi senza però assolutizzarlo: «… la casa degli uomini che non vivono secondo la fede insegue la pace terrena fra le cose e gli agi di questa vita temporale, mentre la casa degli uomini che vivono secondo la fede attende i beni eterni che sono stati promessi nella vita futura, e si serve come pellegrina delle realtà terrene e temporali, senza lasciarsi prendere da esse e fuorviare dal cammino che tende verso Dio; se ne serve per essere aiutata a tollerare più facilmente e a non aumentare i pesi del corpo corruttibile che aggravano l’anima. Per questo l’uso delle realtà che sono necessarie a questa vita mortale è comune ai due gruppi di uomini e alle due famiglie, ma è ben diverso il fine secondo cui ciascuno se ne serve. Anche la città terrena che non vive secondo la fede, desidera fortemente la pace terrena e ripone la concordia dei cittadini nel comandare e nell’obbedire, nel far sì che ci sia una certa armonia delle volontà degli uomini riguardo ai problemi che toccano la vita mortale. La città celeste invece, o piuttosto quella parte di essa che è pellegrina in questa condizione mortale e vive secondo la fede, necessariamente si serve anche di questa pace, finché non passi la condizione mortale alla quale tale pace è necessaria. Perciò mentre conduce la sua vita itinerante come una schiava presso la città terrena, avendo già ricevuto però la promessa di redenzione e il dono spirituale come pegno, non esita ad obbedire alle leggi della città terrena, secondo cui si regge tutto ciò che serve per mantenere questa vita mortale, cosicché, condividendo entrambe la stessa condizione mortale, si conservi tra le due città la concordia per ciò che riguarda quella condizione».
4) Confronta G. Tremonti, opera citata pagine 7-9. Consigliamo a tutti la lettura di questo libro dal quale ci discostiamo soltanto per due aspetti. Il primo è la definizione che l’autore, evidentemente a digiuno di opportune conoscenza storiche in materia, fa della dittatura della finanza come «fascismo finanziario». Se c’è stato un movimento politico, nel bene e nel male, avverso, al di là di qualsiasi momentaneo compromesso pratico, al potere della finanza questo fu il fascismo, che ha origini di sinistra. Il secondo aspetto è la convinzione dell’autore, che pur invoca un nuovo New Deal e nuove politiche di tipo keynesiano, che nel mondo globale le politiche di deficit spending non siano più praticabili e che il rigore dei bilanci pubblici sia comunque necessario benché temperate da, appunto, l’intervento pubblico dello Stato nell’economia. Tremonti è un liberale sociale mosso da forti motivazioni etiche, certamente molto più apprezzabile dei liberisti puri e crudi, e condividiamo certamente la sua concezione, espressa nello slogan «mercato dove possibile, Stato dove necessario», ma non possiamo esimerci dal notare che il suo keynesismo si basa sullo stesso meccanismo di indebitamente che oggi muove i mercati finanziari. Infatti la sua proposta in favore degli eurobond, che certamente va opportunamente presa in considerazione nel medio periodo, resta comunque all’interno del sistema del debito pubblico finanziato dai mercati, laddove invece un autentico keynesismo fa riferimento alla monetizzazione gratuita del debito pubblico da parte delle Banche Centrali di Stato o almeno sottoposte al controllo dello Stato.
5) Confronta G. Tremonti, opera citata pagine 10-14.
6) Confronta G. Tremonti, opera citata pagine 118.
7) Confronta A. d’Ors, «La violenza e l’ordine», Marco Editore, Lungo, Cosenza, 2003, pagine 105-142.
8) Confronta C. Schmitt «Aurora Boreale – tre studi sugli elementi, lo spirito e l’attualità



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