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Il male è più grave di quanto crediamo, Santità
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In una chiesona nuova alla periferia di Roma scopro che le immagini, dietro l'altare, sono figure bizantine, copie dell'iconografia ortodossa.

Mi pare che avvenga sempre più spesso: là dove ci sono buoni preti, se la chiesa non è abbastanza antica da avere le sue pitture e i suoi affreschi barocchi, scelgono imitazioni dell'arte sacra ortodossa.

A Seriate, il benemerito centro «Russia Cristiana» ha aperto persino da anni una scuola di pittura di icone russe, che ha un buon successo.
Il motivo è comprensibile: per quanto copie, le icone russe (o greche) sono le sole pitture che si possano mettere dietro un altare cristiano.

L'iconografia ortodossa è rimasta fissata, senza innovazioni.

Le copie svolgono ancora la loro funzione liturgica.

Come?

Anzitutto, i corpi di Gesù, della Vergine, dei santi, non sono rappresentati come realtà terrena.

Non hanno volume né chiaroscuro.

Sono illuminati da una luce d'oro che non viene da un punto solo, materiale.

E non c'è prospettiva né profondità: non è una mancanza tecnica, ma una volontà di  raffigurare il mondo superiore come «oggettivo».

La visione prospettica è infatti «soggettiva»: mostra la scena dal punto di vista del soggetto che guarda, del fedele in questo caso.

Umano com'è, egli vede lo spazio come sfuggente verso il punto di fuga.

L'iconografia ortodossa non ha punti di fuga, perché Dio non è un «soggetto» né la Sua visione è parziale.

Nelle chiese russe e greche, per di più, anche le icone più antiche e preziose sono offerte in quello strano modo che sappiamo: i loro splendidi colori sono coperti da una lamina d'argento sbalzata, quasi una corazza, che lascia vedere solo i volti di Maria e del Bambino.

Ciò per l'estrema austerità ascetica (il pittore ha dipinto per il Signore, non per occhi umani; e nulla di «grazioso» deve apparire; per lo stesso motivo le chiese romaniche avevano mura nude e lisce, guerriere), ma anche per una aspirazione più profonda: la corazza d'argento tramuta i «quadri» in reliquiari, oggetti di culto.

 

Ben vengano le pitture bizantine nelle chiese cattoliche, visto che da noi l'arte sacra contemporanea, semplicemente, non è presentabile.

Anche le copie più sbiadite e ripetitive, almeno, non offendono la fede.

Ma tuttavia, quella è «un'altra» lingua spirituale.

Quella latina, che non è stata meno spirituale, nasce da una più concreta comprensione dell'Incarnazione.

Fu Giotto, credo, il primo a introdurre la prospettiva, prima ancora di padroneggiarne la tecnica.

Lo scopo: situare le storie sacre su una «scena» reale, con architetture e rocce, come se i sacri attori le vivessero in questo momento davanti a noi.

Maria partorisce in una stanza da letto fiorentina; Gesù guarisce il cieco in una stradina medievale, fra torri merlate; e Giuda lo bacia davanti a una città murata con bandiere.

Tutte le immagini di Giotto sospirano: «...e il Verbo s'è fatto carne, ed abitò tra di noi».

Un corpo reale, con il suo chiaroscuro e la sua ombra, nel «nostro» mondo d'ogni giorno.

Questo «realismo» viene da Roma, e si sviluppò in modo suo proprio, fino a punte inarrivabili.


La chiesa bizantina, ad esempio, non espone statue a tutto tondo (nemmeno il romanico: solo bassorilievi), le nostre chiese rinascimentali sono piene di statue, Michelangelo fu lo statuario del Papa.

La statua come oggetto di devozione parla dell'uomo-Dio, «che si fece carne».

O almeno, dell'uomo rinascimentale, energico, divino.

Com'è che i nostri artisti contemporanei (chiamiamoli così) non sono più capaci, o non vogliono? Ohimè, la parabola dell'arte occidentale è nota.

E ha preceduto, anticipato, la nostra parabola spirituale, storica e politica.

La cattedrale era il luogo dove tutte le arti si univano nel servire: sotto il dominio dell'architettura, affreschi, quadri, musica liturgica, arazzi e statue, calici d'oreficeria, cantavano insieme.

Verso la metà del ‘700, poco prima della Rivoluzione in Francia, le arti vollero conquistare la loro «autonomia».

L'architettura volle essere soggetta alle sue leggi proprie, ossia alla geometria e alla fisica.

Ma la pittura scelse la via più lacrimevole.

Perché piegarsi a «raccontare una storia»?

Questo spetta al Vangelo, al romanzo, alla letteratura; ogni «storia» è estranea all'arte del pennello in sé.

Così, ecco la parabola: la «Madonna col Bambino» diventa «Donna che allatta».

Ma anche secolarizzato, questo è ancora un racconto, ha un significato.

E allora, ecco, dipingiamo «Volumi dinamici nello spazio».

Anzi no: quale spazio?

Quale prospettiva?

Lo spazio è il dominio dell'architettura.

La pittura si occupa di colori, e non altro.

E quindi, ecco colori puri.

Senza forma.

Senza profondità.

Dal «puro» vedere di Cèzanne (lo sforzo di guardare senza intervento del «sapere», dipingere una scena come si presenterebbe agli occhi di un animale che non «sa» cosa significhi) si arriva ai rettangoli di Mondrian, piatti colori fondamentali in coppie complementari.

Conosciamo questa parabola: è la scia che lasciò Lucifero precipitando - e gridava «non serviam», non servirò l'uomo - dapprima luminosa come una stella cadente, infine tizzone spento e buio.

Così l'arte: a forza di non «voler servire», non serve più a nulla.

Viene prodotta direttamente per le case d'aste.

La sua libertà è finita in questo, che è assoggettata al più duro dei padroni, il «mercato» con le sue quotazioni.

Impressionante la deformazione che, in questa caduta, ha subìto la figura dell'uomo.

In Goya è un manichino morto, o un oggetto accecante di lussuria (la Maya Desnuda), o un cadavere a cui Saturno mangia la testa, o un folle o un fucilato.

In Picasso è l'uomo-toro e la donna-vacca, dove in primo piano sono i peli del sesso, mostruosi centauri.

Ensor dipinge uomini-insetti.

Nelle caricature «politiche» di Grosz, un critico acuto ha visto «non solo la condanna inesorabile di un'epoca di decadenza e della sua vita menzognera (la repubblica di Weimar, i «pescecani» capitalisti durante la grande inflazione), ma rivelano anche la gioia perversa per la putredine ed emanano la scintilla di occhi cattivi».

In tutto un universo contemporaneo, l'uomo addirittura scompare: dal paesaggio romantico fino all'astrattismo, non c'è più posto per lui.

Non è più il centro della scena.

I surrealisti tornano al figurativo, ma con segno tragicamente rovesciato.


Si vedano «Le tentazioni di Sant'Antonio» di Dalì, per capire subito di che realismo si tratta.

Di spalle Antonio, nudo (corpo giovane, a che resistere?) alza ridicolmente una crocetta di legno contro le immagini che lo tormentano, fastosi cavalli ed elefanti con zampe sottili da insetto, lunghissime, e carichi fastosi sulle groppe.

Esseri impossibili, prodotti dell'inconscio inconfessabile, ma «rappresentati come se possedessero lo stesso grado di realtà della normale realtà» esteriore.

E' il regno del caos che irrompe nel nostro mondo, più concreto ancora.

E' chiaro che queste pitture non potranno mai diventare pale d'altare - se non nel tempio dell'Anticristo.

E però, bisogna riconoscere che «queste» sono le grandi pitture vitali della nostra epoca, dotate di una forza propria rabbiosa, di vita vera - al contrario della pallida «arte sacra», che al massimo sono copie e al peggio, sgorbi d'arte da casa d'aste, inconsacrabili.

 

Non è arte, è la nostra vita occidentale.

Quella cui diede inizio Robespierre con la Dea Ragione: volontà di «purezza», sottrasse a Dio ciò che è in Dio «personale» e inevitabilmente sottrasse all'uomo il suo lato soprannaturale.

Una divinità razionale, da cui non ci si aspettano miracoli né soccorso, è inutile pregarla.

E si smise di pregare.

«L'arte per sua natura costituisce (costituiva) il centro fra lo spirito e i sensi» (1).

Da quel punto, l'uomo volle «uscire dall'arte, nella quale trova lo stesso scarso appagamento che trova nell'uomo».

Il dubbio su Dio provoca il dubbio sull'uomo, il suo vederlo come ridicolo o bestia.

E poiché non è arte ma storia contemporanea, si noti: la deformazione della figura umana in Goya, Picasso, Ensor, annuncia ben più reali vilipendi della figura umana: le montagne di cadaveri sformati nei Gulag e nei Lager.

In questo senso, i campi della morte di Pol Pot, risaie seminate di teschi, sono la più completa «performance artistica» possibile, nel senso in cui quello «scultore» contemporaneo chiamato Christo impacchetta monumenti (e l'atto stesso sarebbe «arte»), ma molto più avanzato e sincero. Picasso e Christo sono, al confronto, più timidi nell'espressività.

Almeno fossimo coscienti del fondo cui siamo caduti.

Macchè.

In pittura, continuano le aste di produzioni «informali» senza senso, o di fotocopie (Andy Warhol) vendute carissime, ma che ogni tipografia o serigrafia può rifare.

Senza senso e senza scopo.

In architettura, i committenti (i sindaci, gli enti pubblici in genere) danno commesse miliardarie alla scuola «decostruttivista».

La cui ideologia fu così definita da Jacques Derrida, quando con l'architetto Per Eisenman ricevette da Parigi l'incarico di sistemare il parco di La Villette: faremo, disse, una critica «a tutto ciò che ha subordinato l'architettura a qualcos'altro - il valore di utilità, bellezza, vivibilità... per liberare l'architettura da tutte queste finalità esterne, obbiettivi estranei, ad esempio l'egemonia della bellezza, dell'utilità, dell'abitare» (2).

Siamo ancora alla proclamazione del «non serviam», con più arroganza di prima: un'architettura che vuole essere «autonoma» al punto da non essere abitabile, né vivibile né utile.

Essenzialmente antitradizionale, e anticristiana, vogliono esprimere solo violenza: «La architettura si trova all'intersezione fra logica e dolore, tra razionalità e angoscia, tra concetto e piacere», sansisce Bernard Tschumi, l'ideologo del movimento.

Non straparla come si potrebbe credere.

 

«Il mio scopo è l'integrazione del concetto di violenza nel meccanismo architettonico...morte violenta, internamento, tortura assumono forma di macelli, campi di concentramento, campi di tortura... ciò mira ad un nuovo piacere nell'architettura» (3).

Avete capito bene: i lager come tema centrale dei nuovi architetti, il sadismo come movente del costruire.

Infatti «gli edifici decostruttivisti non si sforzano di connettersi e di integrarsi con l'ambiente, perché desiderano restarne separati».

E a questo Tschumi è stata affidata la sistemazione del Partenone in Atene.

I sindaci dementi dovrebbero almeno capire che, se accettano la filosofia della sconnessione,  perdono ogni diritto di abbattere i palazzoni abusivi, gli «ecomostri»: quelle dei palazzinari sono già realizzazioni decostruttiviste, proprio perchè scempiano deliberatamente il contesto storico-artistico (vedi i palazzoni accanto ai templi di Agrigento).

Ma forse lo sanno benissimo, perché sono loro a far finta di non vedere gli ecomostri.

O addirittura  a commissionarne di nuovi, come la copertura-garage dell'Ara Pacis che Veltroni ha affidato a Richard Meier, uno di questi sadici.

Insomma, dopo un secolo di rovine totalitarie e i campi della morte (le loro opere d'arte collettive), ancora si può proclamare lo scempio dell'uomo come fine, attraverso «l'arte».

Abbiamo superato anche la discesa dall'architettura all'edilizia: se la prima riguardava l'uomo nel suo complesso, bisogni materiali e spirituali, mentre la seconda solo una delle funzioni parziali dell'uomo (il ripararsi), i decostruttivisti vogliono ormai un'architettura che «faccia del male», che consapevolmente dia dolore ed angoscia.

E' ancora lo «sguardo cattivo» di Grosz, che si compiace del male mentre lo deride, e senza la minima vergogna.

Vuol dire che la vitalità, la forza rabbiosa e produttrice, sta ancora da quella parte.

Dalla parte del sacro, abbiamo a disposizione solo copie bizantine e russe: che almeno non bestemmiano, ma non sono vitali né nate da un impulso creatore.

La spiritualità che esprimono è, al meglio, «applicata», aggiunta come un'applique incollata sui muri della chiesa.

Questa debolezza, questa sbiaditezza, è la nostra.

La nostra di fedeli (4).

 

Anche di noi che speriamo in Benedetto XVI come restauratore.

Ma restaurare cosa, se le arti non accorrono a servire, ma ancora militano dall'altra parte con furia disumana?

Ciò ha una relazione profonda con una «religiosità» come quella così definita da Sedlmayr: «Oggi, nella migliore delle ipotesi, l'uomo riesce ancora a capire il peccato in maniera grettamente morale, ma non riesce a vederlo come un turbamento del cosmo umano, dell'intera vita e delle fonti di essa».

Forse il male è più grave di quanto credessimo, Santità.

Signore, abbi pietà di noi.

Aumenta la nostra fede.

 


1) Hans Sedlmay, «Perdita del centro», Borla, 1983, pagina 196.

2) Citato da Nikos Salingaros, in «Architettura e demolizione», Libreria Editrice Fiorentina, 2005, pagina 111. Salingaros è un architetto greco-americano che sta conducendo una coraggiosa battaglia contro l'architettura decostruttivista, che lui chiama «virus», un veleno che nuoce alla salute dell'uomo, e non solo spirituale. Battaglia purtroppo solitaria.

3) Citato da Salingaros, pagina 154.

4) Sia reso onore ai fedeli di Padre Pio che, a San Giovanni Rotondo, sono scesi in rivolta contro il progetto di spostare il corpo del santo nella nuova chiesa, costruita dal famoso Renzo Piano: quella non è una chiesa, ma un palazzetto dello sport, per gare di pattinaggio su ghiaccio, non per il corpo dello stigmatizzato, che odora di fiori. Le donnette meridionali capiscono ciò che gli intellettuali, i teologi e i frati non capiscono più, e mostrano ancora vitalità ed energia teologica, che a tutti noialtri passivamente manca.

 
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