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Smith e List: la mano invisibile e il «laissez faire»
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List non fa sicuramente parte del pensiero dominante. Georg Friedrich List (1789-1846), coautore della battaglia che portò alla creazione dello Zollverein, cioè all’unione doganale degli Stati tedeschi che costituì la fase iniziale dell’unità nazionale tedesca. Si oppose recisamente ai concetti di «mano invisibile» e di «laissez faire» propugnati da Adam Smith, poiché riteneva fossero nefasti se applicati nel contesto tedesco dell’epoca.

Prima di procedere all’analisi di questi due aspetti è però necessario fornire un quadro necessariamente sommario del contesto politico e filosofico in cui muoversi. Nell’Inghilterra del diciottesimo secolo, periodo in cui si manifesta apertamente una crisi di sovranità, era nota la teoria di Hobbes. Se per un istante supponiamo che lo Stato non esista, l’uomo verrebbe a trovarsi in uno «stato di natura», in cui tutti i suoi componenti conoscono le regole della vita comune: quindi niente furti, niente truffe, niente omicidi e via di questo passo.

In pratica però ciò non è realizzabile, vista la mancanza di un’istanza capace di comminare le pene in caso di trasgressione: se non rispetto le regole qual è la cosa peggiore che mi può succedere? Niente! Si approderebbe perciò ad una situazione di «tutti contro tutti», poiché il singolo individuo non aspetterebbe, per dirla senza giri di parole, di farsi fregare dal vicino, ma agirebbe per primo. In altri termini si paleserebbe al sommo grado l’egoismo quale forza trainante della società: si tratta della visione opposta a quella di Aristotele, che considera l’uomo un «animale sociale», come ad esempio lo sono l’ape o la formica.

La soluzione proposta da Hobbes consiste nell’interporre la figura del sovrano, considerato sia come singola persona, sia come insieme di uomini, che concentra su di sé tutti i poteri, ad esclusione del diritto alla vita. Si arriva così allo «Stato Leviatano» - il mostro biblico presente nel libro di Giobbe, oltre che in Isaia e nei Salmi - considerato solo un gradino al di sotto del Dio immortale: qui ogni uomo è costretto a cedere la sua libertà al sovrano che, esercitando la forza ed il terrore governa tutti i sudditi. Benché stipulato su base volontaria, tale patto non può essere revocato.

A questa visione orrendamente pessimistica, si contrappone quella di Locke. Il primo tipo di società è quella formata da moglie e marito, poiché l’uomo, con la sua insopprimibile esigenza di socializzare, tende inevitabilmente a formare il nucleo del vivere  civile. E’ interessante rilevare come questa predisposizione sia presente anche nelle popolazioni più arretrate. Qui si nota una continuità fra stato di natura e forma sociale e politica e non v’è traccia del taglio netto operato da Hobbes. Il patto contratto fra le parti considera, fra i suoi innumerevoli elementi, l’aiuto reciproco, la mutua assistenza, la procreazione come ovvia condizione fondamentale per il perpetuarsi della società.

Un secondo passo consiste nel formulare le basi per la democrazia liberale, che vede nella proprietà privata un diritto non negoziabile: essa dovrebbe essere raggiungibile attraverso il proprio lavoro, anche se in pratica ciò non si verifica. La natura, non permettendo a tutti di disporre in modo adeguato del frutto dei suoi beni, impedisce di fatto la possibilità di sviluppare una proprietà privata generalizzata, anche perché non tutti hanno le capacità e le competenze necessarie per accedervi.
Espresso in altri termini, la disparità sociale rimane una caratteristica ineliminabile del sistema.

Riassumendo, si può dire che se con Hobbes lo Stato toglie la libertà, con Locke esso la garantisce nel migliore dei modi possibili: il disordine è mitigato ed il singolo può esprimere in modo compiuto le sue potenzialità.

Un altro tassello prende il via dalla visione di Hume sul terreno delle scelte morali. Se è vero che l’uso della ragione può portare a definire i concetti di bene e di male, a ben vedere, nella vita quotidiana, la razionalità passa in secondo piano: infatti essa è soppiantata dall’aspetto psicologico («sentimento»), percepito come adeguato in una determinata situazione o in un certo periodo storico. Siccome non si può stabilire una legge razionale in grado di render conto del comportamento umano, ci si basa sulla «benevolenza» (Hume usa anche altri termini dello stesso tenore), ovvero su  un comportamento virtuoso in grado di sceverare il bene dal male, per cui l’azione del singolo finisce per aumentare il bene collettivo.

Smith, nella sua opera «La teoria dei giudizi morali», oggi in gran parte dimenticata, ritiene che il comportamento umano sia determinato dagli elementi seguenti: egoismo, simpatia, desiderio di libertà, senso della proprietà, abitudine al lavoro e tendenza al baratto, ovvero allo scambio di una cosa per un’altra (1). Lasciato a sé stesso l’uomo realizza sia il suoi desideri che l’interesse collettivo, poiché la Provvidenza fa sì che prevalga l’ordine naturale. Detto altrimenti, partendo dalla concezione di Hume, la benevolenza e la simpatia agiscono di concerto, mitigando l’egoismo per produrre la ricchezza.

In un famoso passaggio, frequentemente citato, Smith afferma che «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo, e parliamo dei loro vantaggi e mai delle nostre necessità. Nessuno all’infuori del mendicante sceglie di dipendere dalla benevolenza dei suoi concittadini. E nemmeno il mendicante dipende interamente da essa» (2).

Questo va considerato nel seguente contesto: «…e dirigendo quell’industria in modo tale che il suo prodotto possa avere il massimo valore egli mira soltanto al proprio guadagno e in questo, come in altri casi, egli è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non entrava nelle sue intenzioni» (3).

In questo contesto si perfeziona il concetto «laissez faire», ovvero la libera concorrenza giustapposta all’intervento statale. Smith tuttavia non si limita all’enunciazione teorica di questo principio, ma intraprende una battaglia contro ciò che rimaneva della politica mercantilistica nell’ambito del commercio estero. Regolamentazioni dell’industria, dazi eccessivi alle importazioni, trattati commerciali considerati alla stregua di una palla al piede, dovevano essere spazzati via.

Le sue idee ebbero un effetto positivo e risultati degni di nota, anche se occorre specificare che, in quel tempo, l’Inghilterra si trovava in una posizione di forza rispetto agli altri Stati. Si tratta di una differenza fondamentale da tenere ben presente, altrimenti si perderebbe di vista il contesto generale.

Come nota sagacemente Galbraith (4), si passa repentinamente dalla severa visione medioevale improntata alle Sacre Scritture, ove un individuo preoccupato di arricchirsi era da guardare con diffidenza, all’immagine dello stesso, che grazie al suo egoismo si trasforma in pubblico benefattore! «Nell’intero corso della storia, nulla ha così potentemente servito l’inclinazione personale. E la cosa continua ai nostri giorni» (5). Oggi tutto questo è esacerbato dal capitalismo terminale, che non perde occasione di mostrare il peggio di sè.

Una risposta interessante alla visione smithiana risiede nella scuola tedesca, il cui rappresentante più prestigioso è Friedrich List. Benché entrambi gli autori avessero in definitiva le stesse radici sociali, List intraprese un originale cammino che lo portò su altri lidi. Rinunciò ad una brillante carriera accademica per dedicarsi alla politica: più in particolare egli divenne la guida dell’associazione degli industriali e dei commercianti a partire dal 1819. A quel tempo l’attuale Germania era composta da una moltitudine di Stati nazionali, con importanti barriere doganali nei loro rapporti reciproci, senza tuttavia opporre misure particolari alle importazioni. Una vera manna per la potente industria inglese!

A partire dal 1818 la Prussia decise di imporre dei diritti doganali alle sue frontiere, eliminando al contempo quelle interne, creando così una zona di libero scambio. Si creò pertanto una nuova situazione. Subito dopo essere stato eletto deputato nel Wuerttenberg, List si trovò a lottare contro un governo che opponeva forte resistenza ai cambiamenti. Pagò le sue idee col carcere.

Dopo varie peregrinazioni in Svizzera, in Francia ed in Inghilterra, approdò negli Stati Uniti, ove ebbe modo di approfondire le idee di Alexander Hamilton (6), in merito allo sviluppo economico nazionale, oltre a quelle di Henry Clay riguardanti il sistema americano e di Henry Carey, figlio di un immigrato cattolico irlandese e critico di Ricardo. Questi tre autori, con accenti diversi, ma seguendo tutti la stessa linea, si prodigarono a sviluppare un modello di crescita per un Paese agli albori della sua esistenza, costretto a competere con uno ben più vecchio ed esperto, ovvero l’Inghilterra. Caratteristica comune fu l’imposizione di forti barriere doganali, aiutando al contempo la nascita dell’industria, lo sviluppo della manifattura e dell’agricoltura.

List ottenne anche la cittadinanza americana e, nel 1831, forte delle nuove idee sviluppate ed approfondite, decise di tornare in Germania con spirito battagliero. Pubblicò un’opera («Das nationale System der politischen Oekonomie») in cui si metteva in evidenza non una struttura statica dell’economia, ma un processo dinamico che attraversa gli stadi seguenti (7):
- stadio primitivo o selvaggio,
- stadio pastorale,
- stadio agricolo e familiare,
- stadio in cui si combinano le attività agricole, quelle manifatturiere e quelle commerciali,
- stadio conclusivo: agricoltura, industria e commercio.

La manifattura svolge un ruolo fondamentale e fa da supporto agli altri settori. L’industria favorisce lo sviluppo ed il miglioramento dell’agricoltura, delle arti e delle scienze. L’equilibrio fra industria ed agricoltura era il perno su cui ruotava la divisione del lavoro, visione quindi ben diversa da quella unilaterale di Smith (8). In questa visione lo strumento principale di List è costituito dalla tariffa protettiva: se essa non si applica nei due stadi estremi, si dimostra invece di fondamentale importanza in quelli intermedi.

Se Smith vedeva il libero scambio in buona sostanza come una verità universale, da spingere ed applicare vigorosamente, List considera l’aspetto dinamico, che si applica con intensità diverse nel corso della storia economica di un Paese. Personalmente reputo che List debba essere ristudiato, considerando soprattutto lo sfacelo del capitalismo odierno: l’economia potrebbe trarne un buon profitto. L’applicazione indiscriminata del principio del «laissez faire» sta portando, oltre ad una crisi economica di cui non si vede ancora l’uscita, ad una perdita di competenze tecnico-scientifiche che potrebbe dimostrarsi esiziale.

Il politico volonteroso troverebbe una via interessante da seguire, con una variante non da poco: List vedeva un processo progressivo dal primo all’ultimo stadio, mentre ora, con la deindustrializzazione, si tratterebbe di recuperare il terreno perduto alla voce «industria».
Impresa ardua! C’è qualcuno in vista?

Patrice Ravasi




1) Eric Roll, «Storia del pensiero economico», Universale Bollati Boringhieri, pagina 141.
2) I grandi classici dell’economia, Adam Smith, «La ricchezza delle nazioni», Milano Finanza, pagina 92.
3) Adam Smith, opera citata, pagina 584.
4) John Kenneth Galbraith, «Storia della economia», Rizzoli, pagine 77-78.
5) Ibidem.
6) Hamilton fu l’autore del noto «Report on Manufactures», opera fondamentale nel dibattito sul protezionismo.
7) John Kenneth Galbraith, opera citata, pagine 108-109.
8) Eric Roll, opera citata, pagina 227



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