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Consumare petrolio per il petrolio
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Quanto carburante consuma l’esercito americano per occupare l’Iraq, il Paese che vanta le terze riserve mondiali di greggio? «Ogni soldato americano consuma circa 20,5 galloni di carburante ogni giorno», ha scoperto Robert Bryce (1), un esperto del tema (è il direttore di Energy Tribune). Si tratta di 90 (novanta) litri al giorno per ogni soldato. Nel complesso, le forze armate occupanti bruciano tre milioni di galloni al giorno (11 milioni di litri): il doppio del consumo del 2004.

Magari crederete che gli USA stiano saccheggiando l’oro nero dell’Iraq. Macchè, nemmeno questo. Ben poco petrolio iracheno viene raffinato e reso disponibile per gli occupanti. Gran parte dei carburanti che gli americani consumano in così enormi quantità provengono dalla raffineria di Mina Abdulla, che appartiene al Kuweit: nel solo 2006, i comandi logistici hanno pagato 903,3 milioni di dollari alla compagnia di Stato del Kuweit. Ma non basta.

Altro carburante arriva con autobotti dalla Turchia, da centinaia di chilometri di distanza, e spesso è raffinato in industrie anche più lontane, in Grecia. Ben 5.500 autobotti sono impegnate in questo immenso trasporto da sedi così lontane, con un costo aggiuntivo calcolato a 42 dollari per gallone - oltre naturalmente al prezzo del carburante (una mistura di kerosene nota come JP-8, che le forze USA adoperano sia per gli aerei sia per i veicoli), che nel frattempo, come sappiamo, è rincarato esosamente a causa della stessa invasione dell’Iraq.

L’America spende per il trasporto 923 milioni di dollari la settimana: un terzo del costo complessivo dell’occupazione, che si calcola in 2,5 miliardi di dollari a settimana. Dunque ogni soldato USA (sono 157 mila) costa 840 dollari al giorno solo per le spese di trasporto del carburante che consuma.

Il raddoppio dei consumi tra il 2004 ed oggi si spiega con le aumentate corazzature dei veicoli, che gli americani hanno dovuto adottare per ripararsi dagli attentati con gli «ordigni esplosivi improvvisati» (IED), lasciati a lato-strada e fatti esplodere dalla guerriglia quando passano i convogli. I gipponi Humvee, che già bevevano parecchio prima, ora con le corazzature aggiuntive pesano sei tonnellate l’uno, e fanno 8 miglia con un gallone (3,78 litri). Ma restano alquanto vulnerabili.

Sicchè il Pentagono ha concepito nuovi «mine resistant ambush protection vehicles» (MRAP), ossia veicoli resistenti alle imboscate esplosive, ed ha dato ordine di costruirne 23 mila in quattro anni. Costano 3,5 milioni di dollari l’uno e - pesando sulle venti tonnellate - fanno a malapena tre miglia con un gallone. Per ora gli americani ne hanno 1.520, e la necessità di parti di ricambio per questi veicoli molto esposti (dopo ogni attacco, hanno bisogno di riparazioni) ha aumentato il volume della logistica; proteggere gli autocarri con i rifornimenti e le 5 mila autobotti lungo i lunghissimi percorsi stradali richiede un maggior numero di soldati di scorta automontati: altro carburante che si consuma per portare a destinazione il carburante, e una quantità di bersagli aggiuntivi per le azioni dei guerriglieri.

Conclude Bryce: «Mentre le forze USA inseguono la propria coda in Iraq, un Paese nel cui sottosuolo giacciono 115 miliardi di barili, il 9,5% del totale mondiale, il settore energetico globale è andato avanti, con nuove alleanze e accordi, che sarebbero stati impensabili prima dell’invasione. Queste alleanze hanno conseguenze importanti per la politica estera ed energetica dell’America. I mercati mondiali del greggio non sono più soggetti alla potenza militare USA. I dollari stanno rimpiazzando i proiettili nel quadro geopolitica».
In che senso?

«L’efficacia del militarismo nel controllo delle tendenze energetiche globali declina. Gli USA spendono miliardi di dollari a settimana in uno sforzo bellico in Mesopotamia che li dissanguerà negli anni a venire, e nel frattempo i rivali strategici dell’America, Cina e Russia in primo luogo, usano la loro influenza per stringere alleanze economiche che stanno cambiando il balance of power. Stanno creando un mondo multipolare in cui l’influenza americana sarà sostanzialmente minore».

Bruce ha scritto un bell’epitaffio alla guerra in Iraq, che entra nel suo sesto anno: la tomba dell’egemonia mondiale americana. Ma Bush ha celebrato il quinquennio d’occupazione difendendo la sua scelta.

McCain ha detto che gli USA possono restare in Iraq «cento anni» se necessario. Kennet Pollack, ebreo e neocon, ha appena scritto sul Washington Post che «fra trent’anni, quando gli americani avranno lasciato l’Iraq molto meglio di come lo trovarono sotto Saddam, si capirà che ne è valsa la pena» (2).

Potrebbe sollevare almeno qualche obiezione Al Gore, se non in nome della ragione e della contabilità, per lo meno in nome del risparmio energetico e dell’ecologia.
Ma il Nobel tace.
An inconvenient truth.




1) Robert Bryce, «Oil for War», The American Conservative, 10 marzo 2008. Il titolo è un ironico gioco di parole: molti hanno detto che l’attacco all’Iraq era una guerra per il petrolio (war for oil), Bryce dice che è «petrolio per la guerra». The American Conservative è la rivista fondata da Patrick Buchanan.
2) Kennet Pollack, ex agente della CIA per il Medio Oriente (probabilmente anche del Mossad), oggi è membro dirigente della Brookings Institution (al Saban Centre for Middle East Policy, un think-tank ebraico) dove caldeggia l’attacco all’Iran. Come nel 2002, quando caldeggiò l’attacco all’Iraq in un libro («The threatening storm: the case for invading Iraq») dove incitava Bush a «lanciare una invasione totale, sradicare Saddam, fare dell’Iraq una società prospera e stabile per il bene degli Stati Uniti». Il bene degli Stati Uniti, a questo punto, sembra sfuggito. Ma il bene di Israele è certo.


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