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Il Papa e l’America
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Una premessa fondamentale è d’obbligo.
Una premessa necessaria per ricordare a tutti i cattolici il contenuto della dottrina sull’infallibilità del Pontefice romano.

I pronunciamenti di un Pontefice possono essere considerati atti del magistero (graduato poi nei diversi livelli di autorità: solo autentico, ordinario, straordinario) soltanto se manifestano in modo univoco e chiarissimo una esplicita volontà di insegnare alla Chiesa universale in modo moralmente obbligante (sotto pena di anatema per chi osasse negare l’insegnamento, quando questo è solenne,  formale, e infallibile).
La Chiesa, e quindi anche il Papa, è infallibile solo in materia di dogma e di morale.
Questa è la dottrina dogmatica dell’infallibilità papale, come promulgata dal Concilio Vaticano I.

Sicché il nostro direttore, Maurizio Blondet, può stare tranquillo perché sono, casomai, i suoi accusatori a sbagliare quando lo rimproverano di eresia o di scisma o di superbia.
Quando il Papa parla di calcio o di chimica non è affatto garantita né l’assistenza dello Spirito Santo né, pertanto, l’infallibilità.

Ora, è evidente che la discussione circa le forme politiche e le costituzioni non attiene in prima istanza al campo della morale.
Perché, per la morale cattolica, fatti salvi alcuni principi non negoziabili (il culto al vero Dio, la libertas Ecclesiae, la soprannaturalità della Chiesa e la naturalità della comunità politica, i principi del diritto naturale, la garanzia che l’uomo non sia ostacolato nel perseguimento del suo fine ultimo di salvezza, etc.), non sussiste preferenza per questo o quel sistema politico trattandosi di questione di filosofia politica del tutto aperta alla libera discussione dei cattolici stessi.
Ciò è talmente vero che per la Chiesa anche la monarchia è, da sempre, solo una forma di governo «preferibile», ma non in assoluto l’unica forma lecita.

Qualsiasi forma è lecita se  rispetta e favorisce la legge naturale e gli altri principi non negoziabili di cui sopra.
Se non li rispetta (come nel caso delle leggi sull’aborto) l’Autorità politica va comunque obbedita perchè mantiene l’ordine, salvo, però, disobbedire alle leggi avverse al decalogo e alla legge naturale.
Dunque, qualsiasi cosa un Papa dica sulla politica, in quanto tale, è, nei confini della virtù della prudenza e del rispetto dovuto alla sua persona, non vincolante per il fedele.

In questa materia, la filosofia della politica, il Papa può errare, soprattutto se parla come doctor privatus, ovvero come Simone, e non come Pietro.
Vi sono stati persino Papi che hanno insegnato come teologi privati, non come Papa, addirittura dottrine eretiche in teologia: è stato, ad esempio, il caso di Giovanni XXII, nel XIV secolo, che affermava la dottrina (poi ritrattata in punto di morte) secondo la quale la visione beatifica
non sarebbe concessa ai giusti se non al momento della resurrezione dai morti.

Pur nella legittimità dei Papi successivi a Pio XII, è innegabile che oggi esista una crisi di fede dentro la Chiesa.
Personalmente la riteniamo una sorta di prova alla quale Dio sta sottoponendo la sua Chiesa per purificarla in attesa del futuro ritorno ad una fede ancora più salda.
Un po’ come la notte oscura di cui parlano i mistici.
Ed è altrettanto evidente che tale crisi si rifletta anche in certe prese di posizione «politiche» dei Papi post-conciliari.
L’ubbidienza dovuta al Papa nella fede e nella morale non vincola oggi né vincolava ieri ad alcuna obbedienza, salvo l’imperatività della legge di natura, in ambito politico (sebbene anche le questioni «politiche» siano per certe materie strettamente connesse alla fede ed alla morale: si tratta, in questi casi, di quelle materie «permixte» nelle quali il «trono tocca l’altare», sicché in tali materie miste l’obbedienza al Papa è dovuta quantomeno con riguardo ai punti di evidente interferenza tra spirituale e temporale).

Se il dogma dell’infallibilità papale fosse da estendere a tutto lo scibile umano, l’esito sarebbe la teocrazia ossia il governo temporale dei preti, che è qualcosa di assolutamente ripugnante all’essenza stessa del cattolicesimo.
Alla teocrazia inneggiava il «Dictatus Papae» di Gregorio VII ma questo non fu affatto un atto di magistero ma soltanto un atto, all’epoca, di fronte al potere laico che aveva asservito la Chiesa, storicamente necessario.
Un atto perciò stesso politico, certo provvidenziale stante le condizioni storiche nelle quali fu emanato, ma del tutto politico: tanto è vero che la pretesa teocratica dei Papi medioevali, a partire da Gregorio VII, passato il pericolo «ghibellino», non ha avuto né continuazione né esito in quanto evidentemente non benedetta da Dio al di là del ristretto orizzonte temporale nel quale fu storicamente opportuna.

La pretesa, infatti, del «Dictatus Papae» era quella per la quale la sfera politica fosse un qualcosa di «profano» senza la benedizione ecclesiastica.
Il che è come dire che tale sfera, quella politica, non ha una propria consistenza per diritto di natura: affermazione contraria all’insegnamento di Nostro Signore che riconoscendo che nell’ordine morale vi sono cose «dovute» a Cesare, come altre dovute a Dio, non ha certamente inteso proclamare la «laicità» della politica, come la intende il liberalismo, ma la sua naturalità a fronte della soprannaturalità della Chiesa.
Naturalità della politica che significa innanzitutto che essa è fondata imprescindibilmente sul diritto di natura e che non deriva la sua legittimità dalla benedizione clericale (1).

Dante, che ebbe a che fare con un Papa fortemente teocratico, pur prendendosela con Bonifacio VIII per le sue posizioni in politica, lo ha poi difeso, con versi rimasti sublimi, a fronte dell’oltraggio a quel Pontefice arrecato dagli emissari del re di Francia, i quali lo schiaffeggiarono ad Anagni.
Ciò perché nel primo caso Dante si opponeva all’uomo privato, Benedetto Caetani, e nel secondo caso difendeva Bonifacio VIII, legittimo successore di Pietro e Vicario di Cristo.
Dante era uomo medioevale e la sua Teologia della Politica (il «De Monarchia»), che pure è pienamente medioevale perché difende la sacralità del dominio universale in temporalibus dell’Imperatore, nasceva proprio dall’amore per la Chiesa di Cristo e per il Pontefice.
Dante, in assoluta obbedienza - ripetiamo: in assoluta obbedienza! - al Papa del suo tempo in materia di Fede, tanto da difenderlo, come si è detto, di fronte alle prevaricazioni di Filippo re di Francia, tuttavia, da cattolico intelligente, non temeva, anzi sentiva il cristiano dovere, di avanzare le sue critiche ed osservazioni a quello stesso Papa in materia politica.

Il Papa cattolico, la nazione «messianica» e la costituzione deista

Fatta questa, lunga ma necessaria premessa dottrinaria e storica, veniamo al viaggio americano
di Benedetto XVI per cercare di comprenderne il senso tra ragioni della diplomazia e personali visioni di Joseph Ratzinger in materia politica.
Si badi che quanto andremo a dire lo diremo con tutto il rispetto, anzi, la stima e l’amore di figli verso questo Papa che, per altre questioni (vedi motu proprio o i suoi richiami alla tradizione patristica), ha dimostrato grande coraggio.
Ma sul suo approccio al modello americano, che non è questione di Fede o di morale, non possiamo seguirlo benché, lo diremo, siamo convinti che le cose non stiano del tutto come sono apparse sulla base dei suoi discorsi nel soggiorno statunitense.
Benedetto XVI nella premessa al suo libro su Gesù ha detto ai suoi lettori che quell’opera non era un atto del magistero e che pertanto era possibile discuterla apertamente.
A maggior ragione, si può tranquillamente ritenere che Papa Ratzinger non ha certamente vincolato al suo magistero infallibile un mero discorso di diplomazia o di filosofia politica.

Anche se riteniamo che vi è un’altra spiegazione (che esamineremo di seguito), per il momento ci sia consentito di supporre che il Papa sembra essere caduto nella «trappola» di Leo Strass.

Forse nessuno gli ha spiegato che Bush è la marionetta di una setta (i neocon) gnostica ed atea, il cui credo straussiano è, appunto, quello secondo il quale l’unica verità, che però bisogna nascondere alle masse bisognose di «miti religiosi», è che non esiste verità, sicché la religione è buona solo per mobilitare le masse attorno ad un progetto politico di ordine interno ed egemonia «imperiale» sul mondo.

L’operazione mediatica è stata magistralmente preparata e condotta dall’entourage di Bush, anche con l’intento di recuperare l’immagine del presidente offuscata, agli occhi dei cattolici, dal rifiuto che Giovanni Paolo II oppose all’aggressione all’Iraq.
Senza la conduzione operativa dei suoi consulenti, con lo spirito costantemente annebbiato dai fumi dell’alcool l’attuale inquilino della Casa Bianca non avrebbe mai saputo mettere giù, da solo, il proprio discorso rivolto al Papa, anche perché in tale discorso sono state toccate questioni di filosofia politica troppo grandi per un debilitato psichico come l’attuale Presidente americano.
Parafrasando il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, l’entourage di Bush ha fatto dire al presidente americano che l’America non usa il nome di Dio per giustificare il terrorismo.

Pur rendendoci conto che le ragioni della diplomazia e del protocollo non lo avrebbero mai concesso, tuttavia avremmo certamente esultato laddove il Papa avesse chiesto, per tutta risposta, cosa sia, se non millenarismo apocalittico e pseudo-messianico, l’ideologia americana, di radici puritane, del «destino manifesto» e della «nazione benedetta da Dio» o della «City upon hill» oppure se avesse chiesto se corrisponda alla definizione giuridica internazionale di «terrorismo»
il bombardamento a tappeto di una nazione, l’Iraq, con migliaia di vittime innocenti, sul presupposto di una menzogna internazionale come quella delle mai esistite armi di distruzione di massa (le uniche che Saddam Hussein ebbe, a suo tempo, per gasare i curdi, gli furono fornite dalla CIA).

Oppure se, invocando i principii della dottrina cristiana del bellum iustum, il Santo Padre avesse dato un giudizio sulla sproporzionalità della potenza militare tecnologica impegnata dagli Stati Uniti contro l’Afghanistan dei talebani, ovvero contro l’inerme popolazione di quella sventurata terra, a fronte, ammesso e non concesso che la versione ufficiale sia vera, dell’attentato delle Twin Towers.

Si tratta di domande che coinvolgono direttamente la condanna pronunciata da Benedetto XVI, a Ratisbona, ed utilizzata da Bush, verso chi usa il nome di Dio per giustificare la propria potenza mondana.
Bush, o meglio, il suo entourage, ha infingardamente approfittato della presenza del Papa per riprendere nel suo discorso il passaggio della lectio magistralis di Ratisbona che già a suo tempo fu gettato dai media in pasto agli islamici.
Con il rischio di creare un altro «incidente» e con il fine, tutto politico, di far passare una immagine di Papa Ratzinger come cappellano di corte del suo «impero».

Ma quel che né Bush né il suo entourage hanno compreso, pochi infatti lo hanno capito perché pochi ne hanno letto il testo, è che quello di Ratisbona è stato, al di là della isolata citazione di Manuele Paleologo su Maometto, un vero e proprio atto di accusa verso l’Occidente post-cristiano che - così disse Benedetto XVI - a partire da Lutero ha de-ellenizzato la fede, separando Gerusalemme ed Atene e producendo lo scontro tra fideismo e razionalismo.
Chi conosce anche soltanto un po’ la storia delle origini, puritane, degli Stati Uniti sa benissimo che quella «condanna» del Papa calza perfettamente proprio al caso degli Stati Uniti.

L’America è nata puritana proclamandosi «nazione messianica» ed affermando la pretesa di essere depositaria di un destino manifesto o di una missione affidatagli per volontà divina, consistente nell’esportare la democrazia, in verità il proprio concetto liberal-massonico di democrazia, con le buone o le cattive.
Ecco perché non si può non rimanere perplessi sulle parole troppo diplomatiche e troppo accondiscendenti del Papa verso il modello americano.
L’unica realtà che ha un mandato divino, disarmato, è la Chiesa cattolica che non a caso è stata voluta dal suo Fondatore come sovrannazionale ed Universale proprio perché non si identificasse con nessun popolo particolare e non si realizzasse nessun etnocentrismo con pretese universalistiche (come è invece avvenuto nel caso dell’Israele post-biblico).

Alvaro d’Ors, un grande filosofo giurista tradizionalista spagnolo (combatté con i carlisti durante la guerra civile), ha scritto, in «La Violenza e l’Ordine» (Marco editore, 2003), che di fronte all’universalità divina della Chiesa è ammissibile, sul piano naturale della politica, soltanto il pluralismo di popoli e Stati e che perciò qualsiasi pretesa di realizzare lo Stato mondiale, in forma di «governo sinarchico» o in forma di imperialismo di una nazione particolare, è progetto contrario alla volontà di Dio, foriero di gravi conseguenze per l’umanità che cedesse a tale tentazione.

E’ poi palese che tra il relativismo da Papa Ratzinger giustamente denunciato ed il soggettivismo teologico protestante, il settarismo puritano americano, il nomadismo confessionale e spirituale della cosiddetta religiosità americana (si vedano in proposito gli studi della Gatto Trocchi), sussiste più di una mera connessione: vi è in realtà una stretta identificazione «esoterica». Gli Stati Uniti d’America sono la nazione che storicamente adora, in forma di religione civile patriottica, il Grande Architetto dell’Universo, deità esoterica che sarebbe nascosta dietro tutte le religioni considerate alla stregua di paritarie vie di salvezza.

Il Papa, ne siamo sicuri perché egli è un fine studioso, non può non sapere che cosa è la Massoneria e che i padri fondatori degli Stati Uniti, Washington, Franklin, Jefferson, erano tutti «fratelli di loggia».
Benedetto XVI, e prima di lui il teologo Joseph Ratzinger, conosce benissimo la radice deista della Costituzione degli Stati Uniti d’America.

Questo documento politico, infatti, presuppone, con tutta evidenza, una concezione «razionale» della divinità priva di elementi soprannaturali e dogmatici e nega, nella sua essenza per l’appunto deista, la necessità della religione rivelata.
Il deismo, che fu il credo filosofico delle logge moderate anglosassoni e poi americane, pretende di ricondurre Dio all’interno della sola razionalità naturale (si tratta della posizione kantiana sulla religione nei limiti della sola ragione).
Mentre noi cattolici crediamo nel Dio vivente, creatore e governatore del mondo, che si rivela all’uomo, i deisti accettano solo l’idea a-dogmatica di un dio a-confessionale, sovente impersonale, causa accidentale del mondo nonché l’idea di una legge morale universale ma, appunto, priva di ogni riferimento alla Rivelazione e perciò ritenuta sostenibile solo razionalmente senza necessità di apporti soprannaturali.
In tal modo, la fede è ridotta a mero, spesso ipocrita, moralismo, ad etica sociale tanto asfissiante, con i suoi divieti ed i suoi doveri, quanto priva della Luce metafisica e liberatrice di Cristo.
La morale deista è una riproposizione dell’osservanza farisaica, senza cuore ossia senza grazia, della Legge.

Non è un caso se il deismo nasce in ambiente protestante, anglicano per la precisione.
Fu Locke, nel saggio «Ragionevolezza del cristianesimo» (1695), a contribuire in maniera decisiva a diffondere i principii del deismo: egli considerava come la più ragionevole ed utile delle religioni un cristianesimo liberato dal dogma e ridotto alla precettistica morale.
Qui sta la base dell’idea della tolleranza religiosa cui si ispirò il (pre)illuminismo inglese.
Locke vedeva nel cattolicesimo, intollerante per definizione, il nemico principale della «tolleranza religiosa».
Il deismo fu, poi, accolto in Francia da Voltaire e fu trapiantato in America da quei calvinisti radicali che furono i pilgrim fathers puritani.
Tendenzialmente deisti sono poi il cattolicesimo liberale e l’umanesimo religioso sia esso cattolico che laico.

Le necessitate «ragioni» americane del Papa

Ma allora perché mai il Santo Padre ha, in apparenza, fatto un incondizionato elogio del modello politico americano?
Diplomazia?
Inganno straussiano?
Interventi dell’intelligence americana in Vaticano, come dice Blondet nel suo articolo, su questo sito, «Il Papa in America»?

Non possiamo per niente escludere quest’ultima ipotesi, e persino quella di più o meno velati ricatti messi in atto contro la Chiesa approfittando, anzi ingigantendolo, dello scandalo dei preti pedofili (non a caso Benedetto XVI ha fatto della richiesta di perdono alle vittime dei preti pedofili un ritornello quotidiano della sua visita), per costringere il Papa a discorsi non troppo polemici contro l’America.
Se una pressione di tal genere fosse un giorno provata ci sarebbe certamente da essere preoccupati sulla libertà del Pontefice Romano in un mondo globale unipolare: anche se, lo sappiamo, i tentativi, inutili alla fin dei conti, del princeps huius mundi di condizionare la Chiesa, anche dall’interno, non sono cosa di oggi e sono stati una costante nella sua storia.
Del resto non sempre gli stessi Papi, magari anche santi, sono stati all’altezza di comprendere o di opporsi a tali tentativi.

Leone X, che santo non era, non capì nulla di quel che stava succedendo con Lutero in Germania e pensò ad una mera bega tra monaci.
Clemente XIV non seppe opporsi alle pressioni esercitate dai ministri massoni delle monarchie illuminate della seconda metà del XVIII secolo, che minacciavano una serie di scismi nazionali, e fu costretto a sciogliere l’ordine dei Gesuiti.

Sotto un certo profilo è condivisibile anche l’osservazione di Blondet sulla debolezza dell’analisi di Papa Ratzinger che non avrebbe capito che l’America odierna non è più quella visitata da Tocqueville nel XIX secolo (ed anche quella aveva già in sé, secondo noi, le radici del suo attuale volto) ma è quella della filosofia «ateo-religiosa» di Leo Strauss.

Del resto, Ratzinger, come tutti noi, è un uomo del XX secolo, formatosi sui problemi tipici del secolo scorso e supporre che, forse, egli non ha ben compreso fino in fondo il cruciale passaggio in atto tra la morente modernità ed il post-moderno nel quale, pur intravedendosi alcune possibilità di recupero aperte alla speranza cristiana, finora ha prevalso la direttrice di marcia verso il catastrofico esito finale di tutto ciò che di antimetafisico aveva già partorito la modernità, rivelandosi, infine, senza più maschere umanitarie il luciferinismo intrinseco al processo di de-cristianizzazione, non è da ritenere in sé riduttivo della sua statura intellettuale ma semplicemente indicativo della spiritualità di un Papa che si affida totalmente come strumento inadeguato - lo ha detto lui il giorno dell’elezione e lo ha più volte ripetuto (2) - alla provvidenziale Volontà di Dio, nonché indicativo della prospettiva di un uomo anziano ormai proiettato verso l’Eterno più che verso il temporale. Potrebbe essere spia di questa attardata analisi ratzingheriana la sua insistenza sul relativismo quando il male è ormai diventato molto più profondo e grave e dovrebbe essere apertamente indicato nel nichilismo, succedaneo postmoderno del relativismo del quale porta alle estreme conseguenze le già tragiche premesse.

Tuttavia, da parte nostra vorremmo provare a dare un’altra spiegazione ed al tempo stesso a vagliare se effettivamente Papa Ratzinger sia poi così schierato su posizioni filo-americane o filo-occidentali.

Crediamo che Benedetto XVI, sin da quando era solo Joseph Ratzinger, ossia un teologo privato, veda nel sistema americano di separazione tra Stato e chiese, e dunque nel liberalismo che è come dire nel relativismo in politica, una sorta di male minore rispetto allo stato giurisdizionalista conosciuto nel XIX e XX secolo in Europa. La riflessione politico-ecclesiale di Ratzinger è, più o meno, la seguente: a differenza delle tragiche esperienze totalitarie conosciute dall’Europa ed a differenza del laicismo europeo che vorrebbe la fede chiusa nell’ambito della coscienza individuale senza identità pubblica, il sistema di tolleranza americano, non giacobino, lascia, perlomeno, libera la Chiesa di operare.

Il punto debole di tale analisi, che - ripetiamo - non è pronunciamento dottrinario di infallibilità e pertanto è liberamente discutibile dai cattolici, sta, però, nel fatto che essa finge, o è costretta dalle circostanze storiche a far finta, di non vedere che le radici del relativismo, che poi, come abbiamo detto, sfocia nel nichilismo, sono proprio nel liberalismo: in ciò che il Sillabo chiamava «indifferentismo».
Lo Stato liberale americano è indifferente a tutte le confessioni, le crede in quanto a verità tutte equivalenti ma, a differenza dello Stato giacobino, non le reprime nel privato lasciandole, al contrario, libere nella loro autonomia sociale.

Considerare questo sistema un male minore può, a nostro giudizio, essere legittimo ma solo in quanto viviamo in questa realtà storica e non in senso assoluto.
«Il date a Cesare ciò che è di Cesare ed a Dio ciò che è di Dio» non può, infatti, assumere per il cattolicesimo il significato, liberale, di separazione e reciproca indifferenza tra Chiesa e comunità politica.
Quell’insegnamento di Nostro Signore Gesù Cristo è, invece, affermazione di una distinzione reciproca sulla base del diritto di natura, essendo la comunità politica ente di natura, che sempre, però, tenga presente che «Gratia naturam supponit non tollit sed perficit» sicché la comunità politica, pur laica, deve essere perfezionata dalla Verità di Cristo di cui la Chiesa cattolica (e non
le «chiese», secondo l’espressione relativista tipicamente massonica e protestante oggi in uso ma rigettata proprio da un documento ratzingheriano come la «Dominus Iesus») è depositaria.

Questa è la dottrina politica tradizionale del cattolicesimo, quella che la Chiesa in altre circostanze storiche non aveva paura di proclamare nel confronto, anche duro, con il liberalismo, sia nella sua forma hegeliana sia in quella pragmatica anglo-sassone.
Dunque da parte nostra siamo propensi a ritenere che Benedetto XVI faccia buon viso a cattivo gioco e che guardi al modello americano come al sistema che nelle date attuali circostanze storiche meglio di altri possa garantire la libertas Ecclesiae.

Ci permettiamo di non seguirlo in questa convinzione alla luce di quanto abbiamo già accennato circa l’ambiguità del panorama post-moderno di questo inizio di millennio e circa l’odierno esito inevitabilmente straussiano dell’America tocquevilliana di un tempo.
Questa convinzione, sul Papa che è costretto a giocare diplomaticamente nelle date circostanze storiche, ci proviene proprio dal fatto che altrove egli ha chiaramente dimostrato di conoscere più che bene cosa, o chi, muove il «Nuovo Ordine Mondiale».

Ne sono riprova queste sue lapalissiane parole: «Sin dagli inizi dell’Illuminismo, la fede nel progresso ha sempre messo da parte l’escatologia cristiana, finendo di fatto per sostituirla completamente. La promessa di felicità non è più legata all’aldilà, bensì a questo mondo. Emblematico della tendenza dell’uomo moderno è l’atteggiamento di Albert Camus, il quale alle parole di Cristo ‘Il mio regno non è di questo mondo’ oppone con risolutezza l’affermazione ‘il mio regno è di questo mondo’. Nel XIX secolo, la fede nel progresso era ancora un generico ottimismo che si aspettava dalla marcia trionfale delle scienze un progressivo miglioramento della condizione del mondo e l’approssimarsi, sempre più incalzante, di una specie di paradiso; nel XX secolo, questa stessa fede ha assunto una connotazione politica. Da una parte, ci sono stati i sistemi di orientamento marxista che promettevano all’uomo di raggiungere il regno desiderato tramite la politica proposta dalla loro ideologia: un tentativo che è fallito in maniera clamorosa. Dall’altra, ci sono i tentativi di costruire il futuro attingendo, in maniera più o meno profonda, alle fonti delle tradizioni liberali. Questi tentativi stanno assumendo una configurazione sempre più definita, che va sotto il nome di Nuovo Ordine Mondiale» (3).

Un Papa catto-cons? No, soltanto un Papa realista


Tuttavia il realistico ragionamento di Papa Ratzinger sul modello americano, da noi sopra esposto, non gli evita, lo diciamo con estremo dolore, l’essere usato da ambienti facenti capo ad una certa destra passata dal tradizionalismo lefreviano, degli anni settanta, al conservatorismo «catto-anglicano» o «catto-protestante» di oggi e che da anni rappresenta in Italia il corifeo succubo della rivoluzione neoconservatrice inaugurata da Reagan e proseguita dai Bush, padre e figlio.

Con l’elezione di Benedetto XVI al soglio pontificio, infatti, è immediatamente iniziata la strategia di questa destra catto-conservatrice per l’arruolamento del nuovo Papa nelle fila paleocon e neocon.
Una strategia che ha fatto leva soprattutto sulla sua cordiale amicizia, che però a nostro giudizio non è per niente condivisione di vedute intellettuali, con i filosofi liberal-conservatori Marcello Pera e Jurgen Habermas.

In Italia si è particolarmente distinto in questa operazione di reclutamento Marco Respinti, con una serie di articoli tendenti ad evidenziare l’entente cordial tra il teologo Ratzinger ed il mondo protestante americano ed in particolare con teologi come George Weigel e Richard John Neuhaus passati dal protestantesimo al cattolicesimo (4).
Secondo questa abile strategia mediatica catto-conservatrice, Papa Ratzinger sarebbe l’alfiere, benedicente, della neo-cristianità a stelle e strisce impegnata nello scontro di civiltà contro
il maligno Islam.
Benedetto XVI viene così fatto passare per una sorta di cappellano dell’ordine americano, fuoriuscito dalla Rivoluzione del 1775-76, che, a differenza del giacobinismo francese, assicura il rispetto della libertà religiosa e, pur nella separazione tra chiese e Stato, l’incidenza dei valori religiosi nella vita pubblica.

E’ soprattutto questa laicità non giurisdizionalista, che però come abbiamo detto altro non è che relativismo confessionale, di retaggio ecumenico-massonico, a piacere a questa destra cattolica simpatizzante per l’America cristiana (neo)conservatrice (5).
Per il Santo Padre - sostengono i catto-con - c’è ancora qualcosa in questo nostro Occidente che merita di essere preservato, proposto e difeso, anche da se stesso.
Essi sono soliti citare, a sostegno della loro tesi, un significativo scritto dell’allora cardinal Ratzinger: «C’è un odio di sé dell’Occidente - scriveva Benedetto XVI - che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico: l’Occidente tenta sì in maniera lodevole ad aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua propria storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro» (6).

Queste parole dell’attuale Papa campeggiano in pompa magna sul documento «occidentalista» elaborato da un gruppo di intellettuali del centro-destra, pubblicato il 23 febbraio 2006 e firmato in primis dall’allora presidente del Senato, il filosofo Marcello Pera, il quale, ancora una volta, ha in tal modo usato strumentalmente, per scopi di bassa propaganda politica ed ideologica, l’amicizia di cui lo ha onorato il Pontefice.
Quel documento riprendeva l’espressione del cardinal Ratzinger sull’«Occidente che non ama più se stesso», per additare come eccessive e ideologicamente interessate le critiche all’Occidente post-cristiano per le quali la nostra civiltà ha fondato nell’arco di mezzo millennio, dalle grandi scoperte e conquiste oceaniche del cinquecento ad oggi, un mondo fondato sulla volontà di potenza e sulla spoliazione colonialista.

Tuttavia queste interessate analisi catto-conservatrici sono perlomeno parziali e trascurano ben altre prese di posizione del regnante Pontefice, prima e dopo l’ascesa al soglio pontificio, dalle quali trapela tutt’altro che una acritica accondiscendenza per l’Occidente americano-centrico.

«In realtà, però, - è stato giustamente osservato a proposito delle parole del cardinal Ratzinger riportate dal citato documento del 2006 a firma di Pera - il Pontefice sembra aver piuttosto richiamato al disamore spirituale dell’Occidente per se stesso: un male ben più profondo, che si è avviato con l’inizio del processo di ‘laicizzazione’ inaugurato con la riforma protestante e culminato nell’agnosticismo illuministico e nella distruzione delle tradizioni nel nome dell’incalzante individualismo. Il documento parlamentare invece, mostrando di ritenere che le conquiste fondamentali della civiltà occidentale siano appunto l’individualismo, la democrazia rappresentativa di tipo liberale, i ‘diritti dell’uomo’ e le libere leggi del mercato, sembra forzare strumentalmente il pensiero del Pontefice e attribuire a quest’ultimo una critica rivolta contro chiunque ritenga tali valori discutibili o insufficienti: il che è contraddittorio, dal momento che essi sono appunto, in maggiore o minor misura, frutto di quell’individualismo e di quel relativismo morale che è sempre stato duramente condannato da Benedetto XVI, sulla scia di
Giovanni Paolo II
» (7).
Del resto, nel 2004, lo stesso cardinale Ratzinger ebbe modo di dichiarare che la Chiesa non si identifica con l’attuale Occidente (8).

In uno dei suoi discorsi tenuti durante la visita in Germania nel settembre 2006, inoltre, Benedetto XVI ha chiaramente affermato, ponendo con ciò una decisa distinzione tra cristianesimo ed Occidente post-cristiano, che non è del cristianesimo che i popoli non occidentali hanno timore ma della prepotenza politica e tecnologica dell’Occidente che ha scelto un simulacro di «ragione» senza Dio e senza, perciò, rispetto per tutto ciò che è sacro (9).

Non è, però, soltanto questo il punto fondamentale per evidenziare come Benedetto XVI non sia affatto un apologeta sic et simpliciter della visione americana del mondo: che molto di quanto è occidentale sia da difendere non è dubitabile, ma che questo «molto» sia davvero identificabile con quel concetto unitario di Occidente (America + Europa) al quale si riferiscono i catto-conservatori ed i neoconservatori che inneggiano a Papa Ratzinger è cosa sicuramente discutibile e, soprattutto, storicamente e culturalmente falsa.

La storia non ci parla di un Occidente unitario e lineare nel suo sviluppo, altrimenti non si spiegherebbe neanche quell’odio, ben sottolineato dal cardinal Ratzinger, che esso ha verso se stesso e che è essenzialmente odio contro il cristianesimo o, meglio, contro il cattolicesimo.
Odio autodenigratore che con tutta evidenza ha origine nel discontinuo e nient’affatto lineare sviluppo della storia occidentale.
La storia dell’Occidente, infatti, ci parla, per la verità, degli Stati Uniti che nascono in puritana polemica con l’Europa «terra dell’oppressione e dell’oscurantismo papista»: un atteggiamento anti-europeo che gli Stati Uniti hanno mantenuto sul piano politico fino alla seconda metà del XX secolo e che sul piano delle mentalità conservano tuttora (non senza ritorni anche politici come dimostrato dalle polemiche, in occasione dell’aggressione all’Iraq, tra i neocon al potere negli Stati Uniti e
le cancellerie di mezz’Europa, con la non casuale, ed ampiamente rivelatrice, distinzione che gli americani hanno fatto tra «Nuova Europa», quella dei Paesi europei schierati con la loro politica, e «Vecchia Europa», quella dei Paesi europei ad essa contraria).

Queste origini puritane degli Stati Uniti, Eric Voegelin parla del puritanesimo come della prima «rivoluzione gnostica moderna», sono una di quelle deviazioni intervenute nello sviluppo dell’Occidente: altro che «quinto viaggio di Cristoforo Colombo», come pretende, sulla scorta di Russel Kirk, Marco Respinti, ossia del ritorno in Europa dall’America, sua figlia, delle radici cristiane tradite dal vecchio continente!
Se nella storia di questo presunto unitario Occidente non vi fossero state fratture e cesure dovute al processo di decattolicizzazione post-medioevale, ossia di «de-ellenizzazione del cristianesimo», iniziata con Lutero, alla quale ha fatto riferimento Benedetto XVI nella sua lezione di Ratisbona il 12 settembre 2006, in tutte le forme assunte da questo processo, sia rivoluzionarie sia conservatrici (per queste ultime il riferimento è soprattutto al mondo anglosassone, Locke e Burke), sarebbe inspiegabile la crisi di questo stesso Occidente (crisi rivelata non solo dal nichilismo europeo ma anche dal fondamentalismo evangelicale protestante americano, in particolare dal cristiano-sionismo, che è una forma di «demonia del sacro»).

Qui la questione si intreccia inevitabilmente con quella del liberalismo, del quale in realtà non sembra vedersi un cambiamento sostanziale se non nei termini di un suo esito nichilista, del resto inevitabile poste le sue immanentistiche premesse.
Di questo parere non sono, però, quei catto-cons che vorrebbero usare Benedetto XVI a sostegno delle loro posizioni politiche.
Essi, infatti, sono dell’avviso che il Papa ritenga esservi stato uno sviluppo del liberalismo tale da renderlo in qualche modo diverso rispetto alla vecchia dottrina ottocentesca.

E citano, in proposito, il discorso del 22 dicembre 2005, alla Curia romana, durante il quale Benedetto XVI così si è espresso: «Lo scontro della fede della Chiesa con un liberalismo radicale ed anche con scienze naturali che pretendevano di abbracciare con le loro conoscenze tutta la realtà fino ai suoi confini, proponendosi caparbiamente di rendere superflua l’‘ipotesi Dio’, aveva provocato nell’Ottocento, sotto Pio IX, da parte della Chiesa aspre e radicali condanne di tale spirito dell’età moderna. Quindi, apparentemente non c’era più nessun ambito aperto per un’intesa positiva e fruttuosa, e drastici erano pure i rifiuti da parte di coloro che si sentivano
i rappresentanti dell’età moderna. Nel frattempo, tuttavia, anche l’età moderna aveva conosciuto degli sviluppi. Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un modello di Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese
» (10).

In realtà, pur nell’apprezzamento del modello statunitense, dal contesto nel quale tale considerazione è contenuta, questo discorso del Papa ha ben altra apertura che non quella di una mera «benedizione» al sistema americano.
Si potrebbe ricordare, onde togliere ai catto-con ogni illusione sulle motivazioni del Papa, che non sono dogmatiche ma soltanto storiche, il pensiero del cardinal Ratzinger sugli stretti rapporti tra liberalismo e relativismo etico.

L’attuale Pontefice ebbe a suo tempo modo di affermare che: «Il liberalismo economico si traduce sul piano morale nel suo esatto corrispondente: il permissivismo» (11).
La relazione posta dall’allora cardinale Ratzinger tra liberalismo e permissivismo corre, però, a rigor di logica, anche in senso contrario sicché, parafrasando, si può affermare che «il permissivismo si traduce sul piano sociale nel suo esatto corrispondente: il liberalismo economico».
Ma il punto della questione è un altro.

Il nocciolo duro di ogni liberalismo, antico e nuovo, (neo)conservatore o progressista, moderato o radicale, è nel «contrattualismo sociale» che deriva, direttamente, dal soggettivismo teologico di Lutero e da quello filosofico di Cartesio.
I rapporti politici e sociali sono intesi dal liberalismo, in tutte le sue varianti, sempre e soltanto come un contratto tra chiuse, solipsiste, monadi individuali, stipulato per la reciproca utilità a difesa della «vita», della «proprietà» e della «libertà».
Un patto utilitarista tra disperate esistenze solitarie.
E’ negato nel liberalismo il «bene comune», principio fondamentale della dottrina sociale cattolica (e con esso l’Amore di Dio, del quale è espressione), perché si afferma che l’uomo sarebbe mosso esclusivamente dall’egoismo (antropologia negativa: errore speculare all’ottimismo antropologico) sicché le forme di convivenza politica e sociale sorgerebbero dalla mera somma sinallagmatica degli egoismi.
Quelle forme di convivenza politico-sociale, poi, in quanto limitazioni dell’assoluta libertà individuale, sono per il liberalismo di per sé un male, sebbene un male necessario, da tollerare per la tutela dei beni primari: ecco perché esse, nella prospettiva liberale, devono interferire il meno possibile nella sfera privata, riservata all’esclusivo scambio contrattualista tra i solitari egoismi individuali.

Per il liberalismo lo Stato, o meglio, per usare una terminologia tomista, la «comunità politica», è il frutto di mere procedure costituzionali e pertanto, per il pensiero liberale, la Verità ed il Bene sono soltanto il prodotto di mere deliberazioni a maggioranza, purché adottate con le previste procedure stabilite dal «contratto sociale» ossia dalla costituzione.
Pertanto nulla potrebbe opporsi, in un’ottica liberale, ad Hitler e Stalin che agivano nel pieno della legalità all’epoca vigente in Germania ed Unione Sovietica.
I liberal-conservatori, cattolici o laici, credono di poter individuare un diverso fondamento del liberalismo, e ritengono che ad esso l’attuale Pontefice si riferisca, consistente in un personalismo compatibile con il cristianesimo.
Questi conservatori liberali sostengono che ciò che nel liberalismo è presentato come una mera procedura di tipo formale poggia invece su una ben precisa concezione del bene e che in realtà il liberalismo, anche nella sua versione procedurale, si fonda sull’idea della persona umana, della sua autonomia e della sua dignità, idea che in ultima analisi rinvierebbe al cristianesimo.

Se davvero fosse così e se davvero il liberalismo fosse altro che umanitarismo posto a mascherare nichilistici rapporti di forza, per l’appunto «liberi» di imporsi perché non più condizionati da «sovrastrutture» di diritto naturale, e quindi se il liberalismo si fondasse effettivamente su un serio apprezzamento della dignità della persona umana, ci si deve, però, spiegare quali siano le radici di quella volontà di potenza dell’attuale Occidente giunta fino ad ingannare l’intera opinione pubblica mondiale (le mai trovate armi di distruzione di massa) per scatenare una guerra in nome dei diritti umani o come sia possibile che il liberale Occidente umanitario (perché appunto di parodia umanitaria del cristianesimo si tratta e non di «radici cristiane» né tanto meno di cristianesimo) abbia scoperto di contenere zone franche (le carceri della CIA in Europa ed a Cuba) nelle quali i diritti umani sono sospesi.

Se tale sospensione nonché leggi liberticide come il «Patriot Act», emanato dall’Amministrazione Bush sull’onda della paura del terrorismo dilagata dopo il non chiaro attento alle Twin Towers, sono state tranquillamente accettate dall’opinione pubblica, è evidente che ciò è stato reso possibile, appunto, dal fatto che i diritti umani, nell’accezione liberale, sono mere proclamazioni formali, procedurali, contenute in astratte carte costituzionali, facilmente abrogabili o violabili, e non poggiano effettivamente, come molti cattolici liberali erroneamente ritengono, sulla concezione cristiana, che è concreta e «carnale», della dignità della persona umana.

Del resto, la nazione vessillo della liberal-democrazia, gli Stati Uniti d’America, da sempre ha fatto guerre di aggressione, dirette o indirette, in nome di essa e dei diritti umani «cartacei»: dall’invasione delle Filippine alla guerra di Cuba ed alle fomentate rivoluzioni antispaniche ed anticattoliche in Sudamerica nel XIX secolo, dall’aiuto al governo massonico messicano per la repressione dell’insorgenza dei Cristeros al sostegno alle dittature militari anticomuniste nella seconda metà del XX secolo.

Il «contrattualismo sociale», alla luce della Tradizione, che insieme alla Scrittura è una delle fonti della Rivelazione, è sempre stato condannato dal magistero sociale cattolico sin dai tempi dei Padri e dei Dottori medioevali della Chiesa (Agostino, Tommaso d’Aquino, la seconda scolastica di Salamanca, Bellarmino, giusto per citarne qualcuno).

Una citazione per tutte tratta dal Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa: «La naturale socialità dell’uomo fa emergere anche che l’origine della società non si trova in un ‘contratto’ o ‘patto’ convenzionale, ma nella stessa natura umana; e da essa deriva la possibilità di realizzare liberamente diversi patti di associazione. Non va dimenticato che le ideologie del contratto sociale si sorreggono su un’antropologia falsa; di conseguenza, i loro risultati non possono essere - di fatto non lo sono stati - proficui per la società e per le persone. Il Magistero ha bollato tali opinioni come apertamente assurde e sommamente funeste: confronta Leone XIII, Lettera enciclica ‘Libertas praestantissimum: Acta Leonis XIII, 8 (1889) 226-227» (12).

Alla luce di cotanto precedente Magistero non è, pertanto, possibile leggere il discorso di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005 alla stregua di una beatificazione o benedizione del modello americano. Se si legge bene il passo, sopra citato, del Pontefice, posto però nel suo esatto contesto, il Papa si è limitato a descrivere la trasformazione intervenuta all’interno del pensiero liberale, con il trapasso storico dalla modernità totalitaria alla post-modernità relativista: si tratta del passaggio, in seno al liberalismo, dall’egemonia di una concezione «hegeliana», quella che in passato ha generato lo Stato giurisdizionalista con il quale la Chiesa ha dovuto duramente confrontarsi, all’egemonia di una concezione pragmatica tipica del liberalismo anglosassone (la linea conservatrice della modernità risalente a Locke e Burke), la quale, afferma il Papa, non si oppone frontalmente alla Chiesa e lascia ad essa gli spazi di libertà necessari alla sua azione.
Cosa che, a giudizio del Papa, è certamente un bene per la Chiesa.

Ma attenzione: il Papa, pur apprezzando per certi versi la nuova situazione storica, non ha inteso ottimisticamente sminuire la pericolosità dell’indifferentismo, già condannato da Pio IX nel Sillabus, che essa comporta.
L’indifferentismo, che Benedetto XVI ha chiamato «relativismo», è l’état d’esprit essenziale della nuova situazione storica e coincide con la post-modernità.
La «dittatura del relativismo», denunciata da Papa Ratzinger, finisce inevitabilmente in «dittatura del nichilismo».
Il Papa è uomo di così alta sapienza teologica, filosofica e storica, da saper benissimo che il relativismo ha le sue radici proprio nel soggettivismo teologico di Lutero.
Orbene non c’è Paese al mondo più relativista degli Stati Uniti d’America, nel quale, infatti, la «transumanza interconfessionale» è all’ordine del giorno (il «nomadismo spirituale» segnalato da diversi studiosi).
Non è un caso se la versione postmoderna di tale spiritualità intimista e relativista, ossia il new age, proviene proprio dagli Stati Uniti.
E tale relativismo non è altro che l’ideale massonico della presunta eguaglianza tra le confessioni cristiane, o addirittura tra le religioni mondiali (e massoni o in odore di Massoneria erano tutti i padri della patria americana ad iniziare da Franklin, Washington e Jefferson).

E’ nostra convinzione che dal relativismo teologico derivi per stretta e segreta connessione anche il fondamentalismo americano di matrice protestante, nonché la religione ridotta a strumento di governo politico, a «religione civile».

Che Benedetto XVI non sia un apologeta del modello americano, ma soltanto un realistico osservatore nel panorama storico e mondiale nel quale la Chiesa in questo inizio di XXI secolo si trova ad operare, è dimostrato anche dalla sua polemica, a dire il vero iniziata già da cardinale, contro il pericolo della burocratizzazione della compagine ecclesiale ossia quella concezione «clericocratica» della Chiesa che vuole il clero occupato, o auto-occupato, in faccende di strategia pastorale, di dominio mondano, di egemonia culturale o politica.
E’ quel che già Dante Alighieri rimproverava, cattolicamente, al clero del suo tempo.
Crediamo che quando Vittorio Messori afferma di essere «anticlericale» proprio perché cattolico egli intenda indicare il medesimo pericolo di burocratizzazione ecclesiastica intravisto da Benedetto XVI.

Ratzinger è un grande fustigatore dell’auto-occupazione clericale e spesso ha ricordato che gli uffici di curia, e quelli diocesani, sfornano documenti su documenti assolutamente inutili e che nessuno legge, anche perché del tutto melensi nel loro linguaggio tipicamente «ecclesialichese».
Ratzinger ha sempre richiamato il clero ad una più profonda vita liturgica e spirituale ricordando che solo in tal modo si resta nella Grazia di Cristo e consequenzialmente Lo si comunica efficacemente agli altri.

Per Ratzinger la prima ed autentica missione del clero è quella di pregare, amministrare i sacramenti e denunciare il male ovunque si manifesti, lasciando fare il resto a Lui, a Nostro Signore.
Perché la Chiesa è il Suo Corpo Mistico ed è Lui che opera.
Noi siamo solo strumenti, «matite» diceva Madre Teresa di Calcutta.
Anche al suo Pontificato, Ratzinger ha impresso questo stile liturgico ed orante.
E le folle, che si ammassano ogni domenica all’Angelus, sembrano averlo percepito e gradito.
In questo richiamo ad una più intensa vita spirituale del clero e di tutti i cristiani, Benedetto XVI è in perfetta linea di continuità con il suo predecessore Leone XIII che ebbe a definire, nella lettera apostolica «Longinqua Oceani» (1899), la burocratizzazione della Chiesa e l’affaccendarsi del clero in cose mondane come «americanismo», raccomandando proprio alla Chiesa americana del tempo di evitare un tale pernicioso pericolo.
Benedetto XVI sa molto bene che tra la malattia «americanista», nel senso leonino di cui sopra, e lo scandalo dei preti pedofili, per il quale ha fatto doveroso mea culpa, vi è una fortissima Connessione.

Sosteneva Carl Schmitt, in «Cattolicesimo romano e forma politica» (1925), che la ragione strumentale, tecnica, aziendale, della modernità, dunque figuriamoci quella della post-modernità attuale, sarebbe riuscita a comprendere la Chiesa solo nella misura in cui tutte le lampade d’altare sarebbero state alimentate dalla stessa centrale elettrica.
In altri termini, per il mondo moderno la Chiesa non è innanzitutto Mistero di Cristo ma solo istituzione, amministrazione.
Ma se il clero accetta la burocratizzazione è inevitabile che l’umanità cerchi altrove il Mistero, che la Chiesa non gli offre più, cadendo preda del settarismo neospiritualista.

Diceva don Divo Barsotti, grande mistico contemporaneo: «S’io fossi foco abbrucerei una Chiesa che non mi desse più Cristo!».
Questa è, appunto, l’essenza dell’«americanismo» che è la forma ecclesiale del modello politico americano intriso di pragmatismo.
E Benedetto XVI, riteniamo, pur nel tentativo di preservare spazi di libertà per la Chiesa, lo sa perfettamente.

Egli è consapevole che il rischio di tale strategia è la deriva americanista ma, al momento, rebus sic stantibus, è costretto a patteggiare con il mondo liberale occidentale anche perché questo mondo sa trasformarsi in perfetto totalitarismo mediatico anticattolico ogni qualvolta che osteggiare la Chiesa cattolica è confacente ai propri interessi geopolitici.

Luigi Copertino



1) La questione fu chiarita, in senso anti-teocratico, prima da Agostino e poi da Tommaso d’Aquino per i quali la comunità politica è di diritto naturale (l’uomo è per natura una creatura sociale e lo Stato non nasce dal peccato originale, come riterranno poi i protestanti, ma dalla stessa natura sociale dell’uomo) sicché esso è previsto, nel suo giusto posto, nell’Ordine che Dio ha dato alla creazione e non c’è bisogno di legittimazione clericale perché esso sia sovrano nel suo ordine. In base a tale impostazione i grandi teologi spagnoli della seconda scolastica (scuola di Salamanca, XVI secolo) riconobbero del tutto legittimi i regni indios sudamericani (a differenza dei protestanti in nordamerica per i quali i pellerossa erano pidocchi e i figli dei pellerossa uova di pidocchio) e stabilirono che nessun titolo di privilegio spettasse ai conquistadores ispanici sicché la conquista poteva trovare giustificazione, nell’assoluto rispetto degli inviolabili diritti degli indiani, solo per il fine della propaganda fidei. Furono quei teologi giuristi ad elaborare tutto il complesso giuridico e normativo di protezione degli indios, contro gli abusi dei coloni, che Chiesa e corona riuscirono, in buona parte, ad imporre nell'America Latina (i pellerossa del nord, in mano protestante, invece non ebbero nessuna protezione). Solo le rivoluzioni massoniche del XVIII e XIX secolo abrogarono quel corpo legislativo di diritto indiano. Se, dunque, per teocrazia si intende il governo dei preti siamo fuori dalla tradizionale dottrina politica cattolica.
2) Citiamo dal blog di Andrea Tornielli, questa recente pubblica confessione del Papa: «Posso solo rendervi grazie per il vostro amore per la Chiesa, per l’amore a Nostro Signore, e per l’amore che date anche al povero successore di Pietro. Io farò tutto il possibile per essere un vero successore del grande San Pietro che era anche un uomo con i suoi difetti e alcuni peccati, ma alla fine rimase la roccia della Chiesa e così anch’io, con tutta la mia povertà spirituale, possa essere, con la grazia di Dio, in questi tempi il successore di Pietro».
3) Confronta il cardinale Joseph Ratzinger Prefazione a Michel Schooyans «Nuovo Disordine Mondiale. La grande trappola per ridurre il numero dei commensali alla tavola dell’umanità», San Paolo, 2000, pagina 5.
4) Si veda per tutti Marco Respinti «Benedetto d’America» in Tempi del 19/05/2005. Anche in occasione del recente viaggio di Benedetto XVI in America, Respinti si è dato, sulle pagine del dell’utriano Il Domenicale, ad inneggiare la «benedizione» papale agli USA ritenendo di scorgere in essa la conferma della sua kirkeriana tesi circa l’America provincia dell’Europa.
5) Uno dei pensatori di riferimento di questa destra «catto-anglicana» è, non a caso, un liberale conservatore ottocentesco come Tocqueville che già nel XIX secolo lodava la «democrazia in America» per la capacità di non osteggiare la religione ed anzi di farne la base stessa dei suoi ordinamenti liberali. Ma Tocqueville, fedele alla kantiana religione nei limiti della sola ragione, guardava alla fede come ad una sorta di moralismo umanitario che potesse fare da collante sociale dopo che, con la Rivoluzione Francese, gli antichi legami comunitari erano venuti meno con grave danno per la stessa convivenza umana. Insomma la religione per Tocqueville era soltanto un utile strumento di governo borghese. Da qui la sua avversione per l’«autoritarismo» romano-cattolico e la sua simpatia liberale per il protestantesimo e per il deismo umanitario-massonico.
6) Confronta J. Ratzinger, «Europa, i suoi fondamenti oggi e domani», San Paolo, 2004, pagina 289.
7) Confronta F. Cardini «La superiorità dell’Occidente ed il principio di reciprocità» sul sito www.identitaeuropea.org
8) Notizia apparsa sulla rivista «Trenta Giorni nella Chiesa e nel mondo», anno 2005.
9) Ci riferiamo all’omelia della Santa Messa sulla spianata del Neue Messe di Monaco di Baviera, durante la quale Benedetto XVI ha osservato:«Le popolazioni dell’Africa e dell’Asia ammirano le nostre prestazioni tecniche e la nostra scienza, ma al contempo si spaventano di fronte ad un tipo di ragione che esclude totalmente Dio dalla visione dell’uomo, ritenendo questa la forma più sublime della ragione, da imporre anche alle loro culture. La vera minaccia per la loro identità non la vedono nella fede cristiana, ma invece nel disprezzo di Dio e nel cinismo che considera il dileggio del sacro un diritto della libertà ed eleva l’utilità a supremo criterio morale per i futuri successi della ricerca. Cari amici, questo cinismo non è il tipo di tolleranza e di apertura culturale che i popoli aspettano e che tutti noi desideriamo! La tolleranza di cui abbiamo urgente bisogno comprende il timor di Dio - il rispetto di ciò che per altri è cosa sacra. Questo rispetto per ciò che gli altri ritengono sacro presuppone che noi stessi impariamo nuovamente il timor di Dio. Questo senso di rispetto può essere rigenerato nel mondo occidentale soltanto se cresce di nuovo la fede in Dio, se Dio sarà di nuovo presente per noi ed in noi». In Avvenire del 12/09/2006.
10) Riportato su Avvenire del 23/12/2005.
11) Confronta Vittorio Messori «Rapporto sulla Fede - a colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger», Mondadori, 1993, pagina 83. Qualunque cattolico non deve mai dimenticare che il sacrosanto rifiuto del comunismo non gli consente di giustificare né di legittimare il liberismo (e tanto meno il liberalismo). Il fatto che lo sviluppo socio-economico sia avvenuto in ambito cristiano, a partire dal medioevo cattolico, cosa che già sapeva Giuseppe Toniolo, ben prima di Michael Novak (che, dunque, ha scoperto l’acqua calda), non consente al cattolico di legittimare il liberismo perché, ed è qui il nocciolo di verità che aveva colto Max Weber sebbene la sua tesi non sia più, oggi, sostenibile in toto, sarebbe come dire che dal momento che l’umanitarismo illuminista è la secolarizzazione del concetto cristiano della dignità della persona allora si dovrebbe, da posizioni cattoliche, accettare la concezione laicista dei diritti dell'’uomo. Ora, qualunque storico dell'’economia sa bene che le radici cristiano-medioevali dello sviluppo economico non sono liberiste ma sono «comunitarie», «corporativiste», «solidariste» o comunque le si voglia definire con riferimento alle realtà socio-economiche tipiche della cristianità (corporazioni, arti, confraternite, terre comuni, usi civici, comunità di villaggio, monti di pietà, etc.). Il liberismo invece è individualismo economico che ha il suo presupposto nel soggettivismo teologico (libero esame) di Lutero e nella convinzione calvinista del successo economico individuale come segno della predilezione divina in ordine alla salvezza, che l’aberrante teologia luterana (svalutazione delle opere: Dio salva indipendentemente dalla trasformazione per grazia dell’uomo, di cui nel cattolicesimo le opere sono il segno, nonché del tutto arbitrariamente restando l’uomo sempre una cloaca di peccato: simul iustus simul peccator) rendeva estremamente incerta.
12) Confronta Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace «Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa», Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2004, pagina 79 nota numero 297.


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