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La verità censurata sul «caso Mortara»
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Intitolata al bambino ebreo rapito dal bieco Pio IX e deformata mediante l’applicazione delle più generose licenze teatrali, la storia di Edgardo Pio Mortara è stata divulgata da un assordante manipolo di storici e giornalisti, formati alla scuola anticlericale e impegnati a dimostrare, a qualunque costo, che la dottrina e la prassi della Chiesa cattolica contemplano la brutale e sistematica violazione della libertà di coscienza.

Sergio Minerbi, volando sulle ali della grancassa storiografica, credeva perciò di dire il vero raccontando, nelle insospettabili colonne di un quotidiano moderato, che «Nel 1958 un bambino ebreo, Mortara, fu rapito alla famiglia a Bologna e battezzato per farlo diventare un prete» (Il Giornale, 6 gennaio 2005).

Naturalmente la verità si trova lontana dagli indirizzi giornalistici della storiografia. Lo dimostra, senza lasciare ombra di dubbio, la «Narrazione del caso Mortara scritta dal protagonista», frammento autobiografico scritto dal «bambino rapito», quando, per libera scelta era diventato l’umile e dottissimo don Pio Mortara (confronta Vittorio Messori, Io, il bambino ebreo rapito da Pio IX, Le Scie, Mondadori, Milano, 2005). Scritta nel 1888 e fino al 2005 inedita (non senza colpa della cultura cattolica) la testimonianza di don Mortara ristabilisce la verità storica e dimostra, con dotti e puntuali riferimenti, che la tradizione cattolica non ha mai giustificato la violazione della libertà di coscienza.

Don Mortara, che scriveva in terza persona, rammentò, infatti, che il piccolo Edgardo, gravemente ammalato e giudicato inguaribile dal medico curante, fu segretamente battezzato da una giovane domestica, Anna Merisi. Precisò, inoltre, che la giovane si trovava al servizio della famiglia di Momolo Mortara, in violazione di una legge degli Stati Pontifici, «che proibiva tassativamente agli israeliti di avere al loro servizio domestiche cattoliche». A futura memoria, don Mortara pose l’accento sul fatto che tale legge tutelava anzitutto gli ebrei, in quanto era intesa a «prevenire violazioni e abusi e gli eccessi di uno zelo inopportuno, che la Chiesa e i Papi hanno disapprovato e condannato sempre, in particolare nei tempi non molto lontani di Benedetto XIV». La legge pontificia esigeva, infatti, che i bambini ebrei battezzati fossero educati alla fede cattolica. E lo esigeva in base ad un principio indeclinabile, secondo cui è dovere dei pastori delle anime disporre ogni cosa, perché tutti i battezzati possano fruire dell’educazione cattolica.

(D)Javid Bey
   Don Pio Mortara con la madre
A distanza di tanti anni, il chiarimento compiuto da don Mortara si rivela prezioso, poiché infuria ancora, contro il beato Pio IX, lo sdegno artificiale degli storiografi a scatto laico inesauribile. Sdegno che si diffonde occultando l’esistenza di una legge dello Stato pontificio, che comminava pene severe a chiunque avesse battezzato un bambino ebreo senza il consenso dei genitori (facevano eccezione, logicamente, i celebranti del battesimo impartito a infanti abbandonati o in punto di morte).

Contro ogni scientifica previsione, sopravvissuto il bambino la Merisi, tormentata dagli scrupoli e «consapevole delle conseguenze che sarebbero risultate» dalla diffusione della notizia, non rivelò di aver battezzato il figlio dei Mortara. Se non che a distanza di sette anni un altro dei numerosi figli dei Mortara, Aristide, si ammalò gravemente e fu a sua volta giudicato inguaribile. La Merisi, che era ancora al servizio dei Mortara, decise, tuttavia, di non battezzare il piccolo, che morì. In preda all’angoscia, la domestica svelò al suo confessore la ragione dello scrupolo che la tormentava, e il confessore le consigliò di rivolgersi all’autorità ecclesiastica, che intervenne in conformità alla legge dello Stato.

La Chiesa, come scrisse don Mortara, «aveva infatti il dovere e lobbligo ineludibile di farsi carico delleducazione religiosa del bambino… per non imporre nessun onere ai genitori, il Papa medesimo avrebbe fornito le risorse necessarie per leducazione del bimbo mantenendolo a sue spese in un collegio cattolico nella stessa Bologna. In questo modo i suoi genitori avrebbero potuto rendergli visita a loro piacimento».

Nel magistrale saggio introduttivo, Vittorio Messori spiega che l’affidamento al collegio cattolico non era definitivo:

«Valeva per una decina di anni, come confermò personalmente al padre, Momolo Mortara, il cardinale Giacomo Antonelli, segretario di Stato di Pio IX, secondo il quale il momento della libera scelta, per il giovane, sarebbe venuto sui diciassette anni».

Esisteva dunque la possibilità di risolvere il conflitto, rimettendo alla maturità del ragazzo la libera scelta dell’appartenenza religiosa.

Louis Veuillot, geniale protagonista dell’intransigenza cattolica nell’Ottocento, osservava, infatti, che, appena giunto alla maggiore età, in un mondo dove nessun codice umano punisce l’apostasia, Edgardo Mortara avrebbe potuto decidersi liberamente tra la Legge di Mosé e la Legge di Cristo.

Le ragionevoli vie di persuasione e di conciliazione furono sbarrate dall’assoluta intransigenza di Momolo Mortara. Nell’adempimento della propria legge, lo Stato pontificio non poteva concedere altro, tanto più che il piccolo Edgardo dichiarava l’intenzione di non fare ritorno alla famiglia, perché questo avrebbe ostacolato la sua crescita nella fede cattolica. E’ noto d’altra parte che Momolo Mortara s’impuntò perché istigato da esponenti della setta massonica e spronato da disonesti e prezzolati emissari di Cavour. I quali ultimi, in vista della programmata invasione dei territori dello Stato pontificio, erano impegnati a calunniare e a screditare la Chiesa cattolica.

Per valutare la qualità paradossale ed oscena di questa pagina del risorgimento basta il ricordo della partecipazione piemontese alla grottesca e infame guerra di Crimea, che fu combattuta contro la Russia cristiana e a sostegno del potere tirannico dei turchi, rapitori e castratori dei bambini cristiani. Con ragione Messori sostiene, dunque, che nella costruzione del caso le basse ragioni dell’espansionismo liberal-sabaudo prevalsero sui sentimenti della famiglia Mortara e delle comunità israelitiche.

A conferma di tale giudizio, Messori cita uno scritto di David Kertzer, dove si ammette (a malincuore) che il capo della comunità ebraica romana del XIX secolo non si rivolgeva contro il Papa (peraltro giudicato «di indole benigna e caritatevole») ma contro la stampa liberale, che aveva abbracciato la causa dei Mortara:

«Coloro che criticavano vivacemente la Chiesa per la cattura di Edgardo venivano denunciati dagli israeliti romani come egoisti e opportunisti, più interessati ad affermare le proprie posizioni politiche che ad ottenere il rilascio del bambino».

Dopo avere ristabilito la verità storica, don Mortara, nelle pagine più dense e interessanti del frammento autobiografico, ricapitolò i principi della dottrina cattolica intorno alla libertà di coscienza, al fine di dimostrare la perfetta contrarietà alla logica della sopraffazione dei principi applicati, per risolvere il caso, dalla Chiesa che oggi è frettolosamente liquidata come preconciliare.

Don Mortara riconobbe, infatti, che la libertà di scelta in materia di fede è, in qualche modo, contemplata dal diritto naturale, in quanto «Dio non vuole che si faccia violenza alla libertà della creatura, quindi lautorità religiosa dellordine soprannaturale stabilita direttamente da Dio non può estendersi a quegli individui che di fatto (anche se non di diritto) non le sono sottomessi».

Di conseguenza Mortara sostenne che fino a quando «non sia giunta alluso pieno delle sue facoltà morali, la prole segue i suoi genitori, essendo parte complementare della loro sostanza. Per forza, disgraziatamente, li seguirà anche nel cammino tenebroso dellerrore e delle passioni ribelli».

Nel definire tenebroso il cammino dell’errore, don Mortara, rivelando una perfetta coscienza ecumenica, non esitò a riconoscere alla «Legge che era stata proclamata tra le nebbie fitte e tenebrose, tra i lampi e i tuoni fragorosi del Sinai» la dignità che le compete quale «punto di transizione e contatto con unaltra Legge sanzionata tra i pacifici e ridenti splendori del Tabor da quel Gesù trasfigurato, che la inaugurò e fissò per sempre». Va da sé che l’autorità naturale dei genitori violerebbe il diritto della prole, ove si opponesse alla libertà del suo bene soprannaturale.

E’ questa la chiave necessaria ad aprire la porta alla soluzione della controversia:

«Se però il figlio, nellintravedere alcune luci della verità rivelata, e al sentire spuntare nel suo petto impulsi e aspirazioni verso un bene soprannaturale, si determina e si decide nel senso di questa verità e di questo bene, del quale avverte da lontano il puro splendore, la patria potestà deve inchinare la fronte rispettosamente davanti alla linea che la separa dai sacri diritti della libertà… lintrusione della patria potestà in questo campo sacro e inviolabile diventerebbe dispotismo, barbarie».

Benedetto XVI, parlando nella sinagoga di Colonia, nell’agosto del 2005, formulava l’augurio che ebrei e cristiani si conoscessero molto di più e molto meglio: «Solo così sarà possibile giungere ad uninterpretazione condivisa di questioni storiche ancora discusse».

Alla conoscenza della verità storica e alla rievocazione di fatti che possono facilitare la soluzione di antiche controverse, è intesa, senza dubbio, la fatica di Vittorio Messori. Una fatica ispirata dai principi del vero ecumenismo e guidata dai criteri del migliore revisionismo.

Piero Vassallo



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