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Apologhi da letture occasionali
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Si racconta nel «Samutta nikaya» che il Buddha, subito dopo aver raggiunto l’illuminazione, si disse: «Emale vivere senza aver niente da venerare, senza aver da obbedire».

Cercò allora nel vasto universo qualche essere a cui sottomettersi. Non ne trovò alcuno, perchè colui che ha ottenuto l’illuminazione, il Risvegliato, è per definizione il «Liberato», il supremo padrone di sè, nè esiste nel buddhismo un dio che lo superi.

Allora il Buddha concluse: «Devo dunque onorare e venerare questa Legge (Dharma) in cui ho ottenuto l’illuminazione completa; vivrò sotto di essa».

Mi commuove questa nobile malinconia di Buddha. Anzichè tripudiare per la conquistata liberazione, sente la nostalgia di obbedire. Poteva essere l’Anomos, il senza-legge, invece si sottomette ancora, volontariamente, al Dharma che ha superato.

Mi chiedo se non ci sia un «analogon» nel Cristo, che, Dio, si mantiene infinitamente Figlio, sottomesso al Padre. O quando dice: «Chi vuol essere il primo, serva». O quando afferma che della Legge, non decadrà nemmeno uno jota. Nel cristianesimo, «Anomos» è un altro nome dell’Anticristo. Lucifero ha come motto «non serviam».

In termini più terreni, viene a mente la frase di Goethe: «Vivere a proprio gusto è da plebei; il nobile aspira a un ordine e a una legge» (1).

Spesso si ripete, imprecisamente, che il Buddha in punto di morte raccomandò ai suoi discepoli: non divinizzatemi. Nel Mahaparinibbana-sutta (un altro testo del Canone buddhista), è la versione più completa. Sakyamuni è malato, prossimo alla morte, e i discepoli sono sgomenti, per l’affetto che gli portano. Il discepolo che più amava, Ananda, vorrebbe trattenerlo, e gli dice: «Questo solo mi conforta: non si estinguerà il Beato, se prima non avrà parlato innanzi all’ordine dei monaci». Ancora una volta, parli.

Sakyamuni rispose: «Che cosa, Ananda, l’ordine dei monaci può aspettarsi ancora da me? Esposto da me, Ananda, fu il Dharma senza nulla omettere, e non accadde al Predestinato, Ananda, di esssere nei riguardi del Dharma un maestro dal pugno chiuso. Io ora sono un vecchio debole, sono arrivato alla fine del mio cammino... Perciò, Ananda, siate a voi stessi il vostro  proprio soccorso. Non abbiate altra fiaccola che il Dharma, altro soccorso se non la Legge».
***
Da tutt’altro contesto, ecco un diverso apologo:

«Mentre Policrate re di Samo ospitava il re dEgitto, si ebbero in continuazione prove evidenti della sua straordinaria fortuna. Il re dEgitto, allarmato, pregò Policrate di sacrificare qualche bene prezioso spontaneamente, onde stornare linvidia degli dèi. Policrate gettò in mare il suo anello, il più caro, quello col suo sigillo scolpito nella gemma. Il giorno seguente, il cuoco lo ritrovò nel ventre di un pesce che stava preparando per il festino del re». «Atterrito, il re dEgitto si affrettò a ripartire per il suo paese» (2).
***
Questo invece è un celebre hadit, detto memorabile di Maometto:

«Ogni notte Nostro Signore discende al cielo di questo mondo allorchè rimane soltanto lultimo terzo della notte e dice: Vi è qualcuno che Mi invoca, affinchè Io gli risponda? Vi è qualcuno che Mi rivolge una preghiera, affinchè Io lo esaudisca? Vi è qualcuno che Mi chiede perdono, affinchè Io lo perdoni?».

Impossibile non essere colpiti da questa immagine del Signore che scende, e fra i dormienti, cerca qualcuno che prega sveglio, per rispondergli, per perdonarlo, per esaudirlo. Come sa chi invecchia, l’ultimo terzo della notte è quello in cui capita di essere visitati da ispirazioni, o di pensare a Dio.

V’è qui detta anche la potenza della preghiera notturna. Ibn Arabi dice: «La teofania che dà le grazie, le scienze e le conoscenze perfette è proprio quella dell’ultimo terzo della notte, perchè essa è la più vicina, poichè essa appare nel cielo di questo mondo». E aggiunge del nostro tempo storico: «Ora siamo all’ultimo terzo di questa notte di sonno dell’universo».

Molti ordini religiosi praticano (o praticavano) la preghiera notturna. La praticava anche Abd-El Kader (1808-1883), emiro di Orano, padre di otto figli, capo della guerriglia contro la penetrazione francese in Algeria. Sconfitto nel 1847, prigioniero in Francia fino al 1852, passò il resto della vita a Damasco studiando e insegnando come maestro di ascesi. Nel 1860, a Damasco, si oppose al massacro dei cristiani. Come per Ibn Arabi a cui s’ispirava, per lui «nessuna delle Sue creature lo adora sotto tutti i suoi aspetti, nessuna è a Lui infedele sotto tutti gli aspetti. Nessuno Lo conosce sotto tutti gli aspetti, nessuno Lo ignora sotto tutti gli aspetti» (3).

L’agente segreto Léon Roches, una specie di Lawrence d’Arabia francese, che finse di convertirsi all’Islam per diventare intimo dell’emiro e poi lo tradì, vide pregare Abd el-Kader la notte dopo una battaglia sanguinosa:

EmirAbdelKader.jpg«Giunsi alla tenda di Abd El-Kader in uno stato pietoso (...) ero in balia di un’eccitazione che non riuscivo a dominare. “Guariscimi”, gli dissi: “Guariscimi, altrimenti preferisco morire, giacchè in questo stato sono incapace di servirti”». «Egli mi calmò, mi fece bere un infuso di siehh (4), e appoggiò la mia testa, che non riuscivo più a reggere, su uno dei suoi ginocchi. Posò le mani sul mio capo e a quel dolce contatto non tardai ad addormentarmi. Mi risvegliai a notte inoltrata... un fumoso stoppino arabo rischiarava appena la vasta tenda dell’emiro. Egli era in piedi, a tre passi da me, e mi credeva addormentato. Le braccia, alzate all’altezza della testa, sollevavano su entrambi i fianchi il burnus (...). Gli occhi azzurri listati di ciglia nere guardavano in alto, le labbra leggermente socchiuse parevano recitare ancora una preghiera benchè fossero immote; era giunto all’estasi. La sua aspirazione al cielo era tale, che sembrava non toccare terra (...) Quella notte mi si presentò come la più avvincente immagine della fede. Così pregavano i maggiori santi del cristianesimo».

Roches, avendo l’emiro appurato il suo tradimento, fuggirà, non senza un ultimo colloquio in cui Abd El-Kader esprimerà meno collera, che tristezza e disprezzo. Il francese farà carriera, fino ad essere nominato ambasciatore in Giappone; ma qualcosa come un rimorso lo spingerà, molti anni dopo, iniziare una corrispondenza con l’emiro, nel vano tentativo di rivederlo.

Chissà che anche il traditore, nelle sue notti, abbia sperato nella promessa del famoso hadit:
«Vi è qualcuno che Mi invoca, affinchè Io gli risponda? Vi è qualcuno che Mi rivolge una preghiera, affinchè Io lo esaudisca? Vi è qualcuno che Mi chiede perdono, affinchè Io lo perdoni?»




1) Per il nobile, scrive Ortega y Gasset, «la vita non ha senso se non la fa consistere al servizio di qualcosa che lo superi. Quando la necessità di servire per caso gli manca, egli sente come un’insoddisfazione e inventa norme più difficili, più esigenti». Un esempio paradossale è la più strana invenzione dell’aristocrazia britannica, lo sport: puro e lussuoso (anti-economico) sfogo di energie fisiche sovrabbondanti, gratuita prova di coraggio e arroganza giovanile, in cui però i nobili partecipanti si assoggettano volontariamente a regole severe. Naturalmente si può vincere la partita di calcio violando le regole, ma il nobile si vergogna di farlo, perchè il senso stesso della gara ne viene annullato. Non così da quando il calcio è diventato il gioco della plebe, dell’uomo-massa, per il quale «vivere è non incontrare nessuna limitazione, e per principio nessuno è superiore a nessuno». Allora il patron che «compra» le partite è un eroe furbesco per la tifoseria. Si veda in Ortega y Gasset il saggio «L’origine sportiva dello stato», Lo Spettatore, Guanda, 1984.
2) Citato da Heinrich Zimmer, «Il re e il cadavere - Storie della vittoria dell’anima sul male», New York, 1957.
3) Abd El-Kader, «Il libro delle soste», Rusconi, 1982. Il generale Bugeaud, suo avversario bellico nonchè politico corrotto, descrisse l’emiro così: «E’ pallido e alquanto somigliante al ritratto di Gesù Cristo che ci viene solitamente dato».
4) Un tipo di assenzio, comune nel deserto.


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