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La Torah del karma
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Lasciatemi per una volta dissentire da quanto scrive il Direttore. Faccio riferimento al suo articolo «Terribili problemi», pubblicato il 26 febbraio scorso: articolo bellissimo, stimolante, provocatorio, come sempre quando parla di Fede. Lasciatemi dissentire, dicevo, non prima di sottolineare ciò con cui invece concordo e cioè che «Il mondo ha mutato coscienza di sè», e non esclusi i cattolici, anche a causa del Concilio. Dice il direttore Blondet di trovare questa «evoluzione» in se stesso, che la sua «coscienza» è cambiata.

Non solo la sua. Il mutamento di coscienza ha investito tutti, anche me. Siamo tutti meno strutturati, meno capaci di portare pesi e dogmi. Ma questo ci rende almeno più agili ad esplorare altri popoli ed altre tradizioni che per i cattolici di quarant’anni fa rappresentavano mondi lontani ed esotici. Io penso che questo mutamento della coscienza non sia senza significato e lo colgo come una prova cui il Signore ci sottopone per ringraziarLo del dono della Fede e per obbligare ognuno di noi ad approfondire e rendere ragione della speranza alla quale siamo stati chiamati. E’ finito il tempo della Fede da cortile: tutti siamo chiamati fino agli estremi confini della terra.

Scrive il direttore: «Cento anni fa, al cristiano che poneva la sua domanda, la Chiesa rispondeva: le altre religioni sono false, inganni del demonio, punto e basta. Dopo tanti incontri anche profondi con altri popoli ed altre tradizioni, non mi sento assolutamente di affermare che generazioni di buddhisti hanno seguito una via che porta alla dannazione - dopo che da millenni pretendono, con austerità ed esercizi ascetici, di conquistare la liberazione da ogni condizione dell’aldiquà; nè che
i musulmani credenti e seriamente praticanti non raggiungano la salvezza. Non sono d’accordo con coloro che, anche molto dottrinalmente, si sforzano di dimostrare che Allah ‘non’ è il nostro Dio, o che il Nirvana è altra cosa dal Paradiso o dalla Salvazione cristiana. Non riesco a credere, in coscienza, alle loro dimostrazioni».

Mi perdoni direttore, ma invece io credo proprio che le altre religioni siano false, inganni del demonio e credo davvero che «extra Ecclesia nulla salus». Si sa, io non sono della Fraternità Sacerdotale San Pio X, né tradizionalista doc: mi sforzo, pur coi miei limiti e peccati, di essere cattolico e vado d’accordo coi tradizionalisti perché sono cattolici. Vi parrà strano ma ho qualche amico dossettiano che è cattolico e ci vado d’accordo come coi tradizionalisti: anzi non ho trovato sui temi dell’interreligiosità un cattolico più anti-sincretista del compianto don Umberto Neri, braccio destro di Dossetti.

Una precisazione: affermare che le religioni non cristiane sono false, non significa affatto disprezzare buddhisti, indù o mussulmani, né affermare che costoro non potranno avere parte in Paradiso.

Ben prima del Concilio Vaticano II la Chiesa ha distinto l’errante dall’errore ed un conto è giudicare le retta intenzione di un seguace di altra religione, un conto è condannare i contenuti di quella fede falsa. Il Catechismo di San Pio X già affermava che «Tutti i giusti dell’Antico Testamento si sono salvati in virtù della fede che avevano in Cristo venturo, per mezzo della quale essi già appartenevano spiritualmente a questa Chiesa e che chi, trovandosi senza sua colpa, ossia in buona fede, fuori della Chiesa, avesse ricevuto il Battesimo, o ne avesse il desiderio almeno implicito; cercasse sinceramente la verità e compisse la volontà di Dio come meglio può, benché separato dal corpo della Chiesa, sarebbe unito all’anima di lei e quindi in via di salute».

Per contro «chi, essendo pur membro della Chiesa cattolica, non mettesse in pratica gli insegnamenti di essa, ne sarebbe membro morto e perciò non si salverebbe, perché per la salute di un adulto si richiede non solo il battesimo e la fede, ma le opere altresì conformi alla fede».

Detto questo, se qualcuno mi chiedesse perché considero false le altre religioni, risponderei perché gli dèi che adorano sono falsi. E questo vuol dire che o non esistono e sono il frutto dell’immaginazione umana, o sono «creature dell’aria», cioè demoni, o sono immagini parziali, deformate, abbozzate, incomplete dell’unico Dio vero. Ciò non comporta un giudizio riguardo agli individui che le praticano e nemmeno riguardo alle culture di provenienza. Certo che «l’Etiope e il Persiano saranno più vicini, nell’ultimo giudizio, di tanti cristiani che predicano bene e razzolano male», ma questa non è una novità: i Magi vennero per adorarLo, i Suoi non Lo riconobbero. E tuttavia Dio è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, non quello mazdeo. Piaccia o meno, come insegna il CCC, articolo 528 «in questi ‘magi’, che rappresentano le religioni pagane circostanti, il Vangelo vede le primizie delle nazioni che nell’incarnazione accolgono la Buona Novella della salvezza. La venuta dei magi a Gerusalemme per adorare il re dei giudei mostra che essi, alla luce messianica della stella di Davide, cercano in Israele colui che sarà il re delle nazioni. La loro venuta sta a significare che i pagani non possono riconoscere Gesù e adorarlo come Figlio di Dio e Salvatore del mondo se non volgendosi ai giudei e ricevendo da loro la promessa messianica quale è contenuta nell’Antico Testamento. L’epifania manifesta che ‘la grande massa delle genti’ entra nella famiglia dei patriarchi e ottiene la ‘dignità israelitica’».

«Falso» non è un giudizio di valore, è una constatazione: possono anche esservi tratti di verità e insegnamenti morali corretti nelle altre religioni, ma esse non esprimono la Verità.

Quando parliamo di altre religioni dobbiamo parlare di tutte le religioni di tutti i tempi ed ammettere che la storia dell’uomo è una storia religiosa: pare - sottolineo pare - che perfino l’uomo di Neanderthal, che pure non era un uomo come noi, avesse una sua dimensione «religiosa».

Di certo i nostri progenitori hanno sviluppato forme di religiosità, perché avevano, come noi, una coscienza, una coscienza che certo mutava, ma che era nata con la consapevolezza anzitutto della vita e della morte, della finitezza e della precarietà del proprio essere, della possibilità terribile di pensare l’immortalità e l’infinito, di vedere le profondità dei cieli e degli abissi marini, di scrutare il moto degli astri, il ripetersi delle stagioni, il susseguirsi dei cicli solari e lunari, di domandarsi il senso dell’esistere. Chi parlò all’uomo della sua genesi e del suo destino?

Miti antichi, antichissimi, più antichi della Bibbia ci parlano di quest’era primordiale, confondendola con racconti mitologici, rappresentati in maniera differente, ma al contempo drammaticamente uguale: c’era un tempo in cui «gli dèi» vivevano tra gli uomini. Poi accadde qualcosa, un «incidente», cui seguì progressivamente un oscuramento e da allora il Cielo si è allontanato dagli uomini», l’eternità è svanita, la curva del tempo si è piegata ed esso è come collassato, decaduto, sicchè il suo scorrere si coniuga con una progressiva entropia delle cose, così come è per il giorno che, procedendo ora dopo ora, si spegne nella notte. Da allora qualcuno ha ritenuto che il corso della storia segua quello del giorno, che il tempo ritorni periodicamente e periodicamente gli uomini attendono «il ritorno degli dèi».

Dove sono ora quegli uomini, che adoravano il sole e la luna, il fuoco e la folgore, le acque e la Madre terra? Confusi e atomizzati tra la sabbia e la polvere che nasconde i resti di qualcuna di quelle ossa, nell’eterno ritorno dei cicli cosmici e naturali, o Qualcuno è ancora in grado di riconoscerne il viso, tra i vermi, la linfa degli alberi e l’humus in cui si sono dissolti? Chi è quel Qualcuno?

La Bibbia non dimentica questi racconti, li raccoglie e li tramanda in quei primi capitoli del Genesi, che assomigliano a frammenti di una tradizione primordiale, rivelata a popoli o intuita da individui che sembrano ormai essere definitivamente scomparsi, consumati dal fluire e dall’accelerazione del tempo. Vi sono passi nel libro della Genesi che rimandano costantemente a questa decadenza, a questo progressivo oscurarsi nella creazione e negli uomini del sigillo di Dio, in questo Suo «ritrarsi» di fronte alla libertà che l’uomo aveva esercitato, in modo da fare a meno di Lui, in modo da farsi Dio.La stessa Bibbia, fino all’episodio della Torre di Babele non parla di fedi e tradizioni religiose diverse. Gli uomini sembrano conoscere un Dio solo.

Noè, che aveva 600 anni quando venne il Diluvio, non è ebreo (il popolo ebraico non è ancora «nato») e la catastrofe diluviana viene narrata in molte altre tradizioni antiche: Ut-napishtim è il Noè del poema di Gilgamesh, il più famoso poema mesopotamico, Coxcox, quello del mito azteco, che si salvò su un enorme cipresso; Tepzi, del mito olmeco; Bochica, del mito Chibcha colombiano, che si salvò dal diluvio aprendo un buco in terra; Tamandere, il Noè Guarany dell’America Meridionale, etc. Insomma questo racconto delle acque che sommergono la terra dopo moltissimi giorni pioggia erano presenti fin nel lontano continente americano. Come erano arrivati sin lì? E perché questi racconti parlano in genere di questo cataclisma come di una punizione per l’umanità corrotta, proprio come è scritto in Genesi: «Ora tutta la terra era corrotta davanti a Dio e tutta piena di iniquità… ogni mortale aveva corrotta la sua condotta su di essa».

Come mai?

E’ il peccato antico, impresso ormai come un sigillo di morte sull’uomo, un marchio che lo agisce come un automa e del quale il segno su Caino è simbolo che Dio appone per arginare questo male, affinché l’uomo non moltiplichi con l’uccisione di Caino il peccato di Caino stesso. E’ quel peccato antico e originario per cui l’uomo, che è creatura e non Creatore, ha voluto definire a propria misura il Bene ed il Male ed ha voluto conoscere entrambi (cioè, biblicamente, farne esperienza). Ha voluto cioè sostituirsi a Dio che è l’Essere e il Bene per decidere per se stesso anche il Male e la possibilità di Non-Essere. Perciò Dio non può che constatare che la libertà dell’uomo non è stata, conforme all’immagine originaria, ma si è conformata ad una libertà che includendo anche la possibilità di Non-essere portava con sé inevitabilmente la morte: «Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell`albero della vita, ne mangi e viva sempre!».

Da lì, il guasto del «software della Vita», segnato oramai dal peccato e conseguentemente dal dolore, dalla morte, ma anche dalla nostalgia di un imprinting che era stato diverso. Da lì la ricerca di una Via di ritorno. La storia delle religioni in fondo è solo questo. L’«auto.exe» dell’esistenza umana segnata dal peccato inocula via via sempre più nella storia le conseguenze di questo peccato. Tutta la storia dell’umanità delle origini è un atto continuo di ribellione, un «applicativo» del peccato originale, un «virus» di autonomia dell’uomo, che rimanda alla primordiale ribellione e si replica e moltiplica senza sosta, in un costante tentativo di scalare il Cielo.

L’uomo portatore di bene e di male non può stare al cospetto di Dio ed anzi se ne allontana sempre più, perchè il moltiplicatore del peccato produce progressivamente una deformazione della sua immagine originaria: non è primariamente una punizione morale l’allontanamento da Dio, è una impossibilità ontologica man mano amplificata dalla deformazione della propria immagine originaria. La vita umana e la Vita eterna hanno oramai preso direzioni opposte: il destino dell’uomo è via via segnato da una progressiva, inarrestabile deriva, che lo conduce lontano da Dio. L’uomo che dà la morte al fratello, Caino che uccide Abele, il degradare della durata della vita da qualche centinaio di anni ad «appena» 120, quel passo misterioso in cui i figli di Dio si uniscono alle figlie degli uomini, la corruzione dell’umanità, il diluvio universale, la fine del regime alimentare vegetariano, l’Ubris della costruzione della Torre di Babele, ultimo sforzo dell’umanità globale per penetrare il Cielo, sono la cifra di questa decadenza.

La punizione questa volta è definitiva ed è un’ulteriore frattura nell’esistenza dell’umanità: la parola, il linguaggio, segno eminente dell’imago Dei, strumento del Logos, cioè della capacità logica e di comprensione, si frantuma. Dopo aver perso la comprensione di Dio, l’uomo perde la capacità di comprendere davvero se stesso. Estraneo a Dio, egli diventa estraneo all’altro uomo. Le diverse lingue sono ognuna portatrice di un logos diverso: i moderni studi di linguistica ci spiegano oggi l’importanza del linguaggio nella rappresentazione dei concetti.

E’ così che nascono e si sviluppano le culture e le religioni diverse. E’ lì che ognuno comincia a concepire Dio secondo il proprio logos, è lì che l’uomo, fatto a immagine di Dio, comincia a farsi un Dio a propria immagine: dalla potenza del fulmine, alle rappresentazioni antropomorfe, alle simbologie mitiche, alle grandi teofanie, per finire alle elaborazioni «teologiche» e metafisiche dell’Oriente. E’ la fioritura degli dèi.

Nonostante l’«incidente originario» e quelli successivi, l’uomo non potè dunque (e non potrà) fare a meno di Dio, perché la nostalgia dell’infinito e l’ansia di immortalità sono iscritti nella sua stessa capacità di pensare, sicchè ove non ricorra agli idoli, cercherà in se stesso la salvezza. Da qui dicevamo la ricerca di una Via di ritorno anzi, ora, di molte vie di ritorno, ognuna segnata dalla cultura delle genti, dal rispettivo logos. Saranno gli dèi, nelle molteplici forme elaborate dalle tradizioni religiose dei popoli, ad indicare all’uomo come «salvarsi» la vita, dopo che quasi tutte quelle stesse tradizioni avevano narrato di un tempo in cui gli dèi stessi dimoravano tra gli uomini, prima che l’oscurità scendesse.

Elaborazioni grandiose e misere stregonerie, ogni civiltà, ogni agglomerato urbano, ogni villaggio, ogni popolo ed ogni tribù adorerà i propri dèi, cercando di placarli, propiziarli, adorarli, scrutando col cuore e con la mente le profondità del cosmo e dell’animo umano, la potenza della mente e l’infermità del corpo, innalzando templi, compiendo sacrifici, praticando riti, celebrando liturgie, creando imperi, massacrando e civilizzando, ascendendo e decadendo sullo scenario immenso della storia.

Ma Dio chi l’ha ritrovato?
Ed era possibile ritrovarlo?
E chi era Dio?
E dove era?
Ed era sempre uguale?
Era solo o ve ne erano altri?

Ora, per noi, questo è il punto: Dio, quel Dio in cui diciamo di credere, è davvero quel Dio che ci è stato rivelato, è in un certo qual modo quel «Dio minore» che si rivelò ad un popolo di pecorai e che pretese per Sé una Fede esclusiva ed un Amore possessivo e geloso, o quello era un inganno, una forma transitoria dell’evoluzione della nostra coscienza, destinata ad essere superata non già da una più profonda adesione al suo Mistero, ma da una più aggiornata comprensione della sua essenza?

C’è forse un Dio più segreto del Dio rivelato, che la storia e la natura nascondono nel loro divenire e che ci sarà dato di incontrare, un Dio di cui altri hanno capito aspetti che a noi sono sfuggiti, un Dio inafferrabile e multiforme, un Dio nascosto che solo l’illuminazione progressiva di una coscienza evoluta può aiutare a comprendere? E quella caduta è vera o no, o è forse solo un mito che attende di realizzarsi?

Voglio dire: l’abbiamo rappresentato come una caduta, ma non è per caso che invece abbiamo solo riavvolto arbitrariamente all’indietro il nastro della storia che rappresentava in realtà il futuro?

Insomma è stata una caduta o non piuttosto il retaggio di una condizione animale da superare e che per questo si evolve nella storia e nella natura? Davvero siamo angeli decaduti o solo angeli non ancora realizzati? «La caduta» non è forse la rappresentazione cioè di una mitologica condizione passata da intendersi invece come destino iscritto in una dinamica evolutiva?

Quella caduta è vera, insomma, o è un «genere letterario» che vuole indicare al bruco che è in noi la necessità di lasciarci avvolgere nella crisalide della trasformazione evolutiva per lasciar spiegare le ali alla farfalla che in realtà siamo?

Ontologicamente l’uomo è davvero un essere spezzato e duale, incapace di risalire la corrente del peccato e impotente di fronte ai cherubini che gli sbarrano la strada per il ritorno in Eden, oppure è un essere chiamato a riconquistare l’Albero della Vita da Sè? Il suo trattenersi è umiltà o vigliaccheria? Per l’uomo in quanto tale la strada è interrotta o esiste una via (cioè molte vie, quindi infinite vie), che, pure con sforzi immensi, ci possono ricondurre alla presenza di Colui che è?

E chi è Costui? Un Altro da incontrare o nient’altro che la auto-Rivelazione di ognuno di noi, capace di illuminare finalmente la propria coscienza-consapevolezza dell’immensità del proprio Sé, Signore di ogni cosa?  E’ Dio che dobbiamo incontrare o noi stessi? E’ la Fede o l’Illuminazione? Ed il tempo e lo spazio sono reali o illusione, forme e modalità transeunti da superare nell’eternità-immensità-indeterminatezza di una coscienza espansa all’Infinito? Ce la possiamo fare da soli ad essere «come Dei», anzi ad essere Dei?

Aveva forse ragione il Serpente a dirci che mangiare quel frutto altro non sarebbe stato che il sacrifico necessario per risalire la corrente della coscienza fino ad essere come Dei? Sarebbe Lucifero allora, cioè il portatore di Luce, il Cristo dell’umanità?

Perché, se questa strada c’è, occorre illuminare gli uomini circa la coscienza del loro essere, le potenzialità inespresse in loro: se questa strada c’è, occorre percorrerla sino in fondo, con ascesi eroica e inflessibile, finché ognuno trovi la sua strada. Se questa strada c’è, si affronti l’Angelo con la spada fiammeggiante, si sgombri di nuovo il sentiero che conduce all’Albero della vita, si sacrifichino pure tutti gli esseri necessari per ridare all’Umanità futura l’immortalità che le è stata rubata da un Dio geloso, si sperimenti industriosamente come novelli Faust in ogni provetta o alambicco la correzione di un software guasto, di un genoma malato, se ne trovi la formula per ripararlo; conquisti l’Umanità il destino immortale che un Dio geloso voleva tenere per sé e si innalzino lodi a Lucifero, salvatore e liberatore dell’Umanità, colui che le tornò a dare il dono dell’immortalità. Prometeo sia il Signore e ogni uomo sia Messia di se stesso e se necessario vittima per l’Umanità, perché un giorno egli possa essere iscritto nel libro della Vita riconquistata e stare assiso sul trono della Vita eterna.

Con la medesima incrollabile determinazione, poi, si compiano, ognuno per la sua strada, tutte quelle azioni che nella sapienza progressiva degli uomini di ogni tempo sono considerate sacre, sacre per il tempo in cui sono compiute ed abbandonate domani, quando una coscienza più evoluta le abbia sostituite e una consapevolezza più dilatata del divenire della storia abbia regalato ai popoli forme più adeguate di culto e di comprensione più profonda della natura. Nel frattempo tutte, nel Bene e nel Male, siano accolte, si tratti dell’umile sottomissione di chi cura una figlia per bruciare il Karma del peccato, sia quella di chi jihadista decide di farsi saltare, sia essa quella di chi vuole accelerare la venuta del Tempo messianico operando il Male, sia quella di chi sceglie di astenersi da ogni agire, sia l’incruento sacrificio eucaristico, sia quello del sacerdote atzeco che strappava il cuore alle vittime. Tutte con imperturbabile serenità siano accolte, perché esse sono nient’altro che la naturale dinamica evolutiva nel tempo di una coscienza che progredisce, la voce dello spirito che parla e le eventuali grida di dolore che talvolta esalano altro non sono che le doglie messianiche di un tempo che ci viene incontro per manifestare all’uomo la grandezza divina della sua impareggiabile dignità.

Per «evitare questo inevitabile» destino, ove il ritorno ad Eden sarebbe potuto costare invariabilmente tanto il sangue dell’intera umanità che il soffio leggero di un respiro, ovvero entrambe insieme, per evitare che il tribunale della storia fosse il gelido notaio dell’umanità, chiamato a registrare via via il livello di arretratezza o sviluppo della coscienza dell’uomo, accadde che Dio, dopo Babele abbia ritenuto necessario manifestare all’uomo il suo Logos, per evitare di vedere confusa la Sua identità nei logoi degli uomini.

E’ qui propriamente che inizia la Rivelazione, quando Dio chiamò Abramo e decise di intervenire nella storia. Scelse tra tutti i popoli un popolo piccolo, rozzo, orgoglioso, e volle rivelare a lui per primo che quanto gli uomini avevano fin lì pensato di Dio era sbagliato, che Dio era altro: altro dal Cosmo, altro dal lampo, altro dal Sole, altro dall’uomo. Riprendendo cose che gli uomini già avevano seppur confusamente ascoltate, a quel popolo Dio confusamente rivelò che avrebbe indicato Lui all’uomo la Via del ritorno. E a quel popolo infedele affidò la promessa di salvezza dell’intera umanità. Ma quando quel Logos si fece carne e venne tra i suoi, i suoi non lo riconobbero.

In Cristo Dio mostrò nuovamente all’uomo la via di salvezza, mostrò che il Logos di Dio, i suoi pensieri, il suo agire non erano quelli che l’uomo si era rappresentato. Certo la Rivelazione non veniva cancellata, ma la novità consisteva nel fatto che neppure l’ascesi più alta (e nel suo popolo questo voleva dire il rispetto pieno della Torah), per quanto pura e perfetta, avrebbe potuto colmare la distanza tra la Terra e il Cielo.

In Cristo Dio mostrò che l’essenza di Dio non era il Giudizio (nel suo popolo basato sulla Torah), né se avesse parlato ad altri l’Imperturbabilità (basata sulla sapienza), ma l’Amore, cioè la relazione interpersonale, non per il Sé, ma per l’«altro», perché non è possibile amare Dio che è lontano se non si ama il prossimo che è vicino.

In Cristo Dio mostrò la dimensione Trinitaria, la perfetta eguaglianza, ma altresì la sottomissione del Padre al Figlio, rivelando come il Padre avesse tanto amato il mondo da mandare il Suo Figlio per la salvezza.

In Cristo Dio mostrò che il Figlio pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma, apparso in forma umana, spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce.

Ecco qui sta il problema: questo Cristo è un optional nella redenzione del mondo dal suo peccato? Tutti i riti di tutte le religioni in fondo sono lì a tentare di risolvere un solo problema: come uscirne «vivi» da questo mondo, come vincere il dolore, il male e la morte?

Il tibetano e sua moglie, di cui parla il direttore Blondet, che hanno una bambina che non vede, non sente, è paralizzata e non dà segni d’intelligenza si dicono che quell’evento è dovuto a qualcosa che hanno fatto in una vita precedente; che scontano un cattivo karma dei loro peccati, che non ricordano. Il laico tibetano prega due ore al giorno per accumulare grazie per sua figlia, che nello stato in cui si trova non può provvedere da sé alla sua liberazione. E’ efficace in sé questa preghiera, questa pazienza e questo patire?

Rispondo: dipende da chi li sta a sentire, se cioè il «dio» cui sono offerti esiste e chi è. Se quel dio non esiste, di per sé è come fare un numero telefonico inesistente. Qui nessuno mette in discussione l’animo di quell’uomo, ma se egli anela alla misericordia di Dio con la sua preghiera, o c’è un «dio» che in qualche modo l’ascolta, oppure la sua è solo una pratica autoconsolatoria. E se un «dio» c’è delle tre l’una: o è il «dio» cui lui crede, o è il Dio in cui credo io, o ci sono molti dèi ed ognuno si rivolge al suo.

Ora se Dio è il «dio» in cui crede lui, occorrerà che noi ci si «converta», anzi ci si «illumini». Ma se il «dio» che c’è è il suo, cessiamo di avere compassione per quella bambina, sarebbe solo un’emozione non so quanto positiva per lei: lei sta solo scontando le sue colpe passate. Forse in una vita precedente ha accecato qualcuno, comunque deve avere fatto qualcosa che l’ha ridotta così. Quindi se non c’è un Dio che ascolta, Signore del tempo e della storia, ma un energia indifferente e indifferenziata, nulla si può contro l’incoercibile forza del Dharma e della sua ineluttabile legge di Causa-effetto. Paghi dunque quella bambina il fio della sua colpa e noi rallegriamoci di ciò, perché questa sofferenza restituisce equilibrio al cosmo.

Se invece ci fossero molti dèi, allora quel tibetano e sua moglie preghino il loro, ma sappiano che il loro dio, se così si può chiamare, esige quel tributo di riparazione e non fa sconti, perché non li può fare. Se ci sono molti dèi, poi, delle due l’una: se non siamo sincretisti, ammettiamo che esiste una gerarchia ed una lotta tra di essi e che il nostro è strutturalmente «in crisi»: abbiamo puntato sul «dio» perdente e solo dei fessi potrebbero puntare su un dio che si lascia crocifiggere. Se invece siamo sincretisti, allora abbiamo il coraggio di dire che il Cristo altro non è che un simbolo, una rappresentazione di un Essenza che supera le diverse forme religiose, che conseguentemente la Chiesa è una mistificazione e che, a ben vedere, è molto meglio andare in Loggia che a Messa: nella migliore delle ipotesi quest’ultima sarebbe solo una forma di coscienza meno sviluppata.

Infine, invece, se c’è un solo Dio ed è quello cristiano, allora occorrerà che anche quel tibetano e sua moglie lo sappiano, perché la loro sofferenza si apra alla speranza. Se il Cristo è il Logos di Dio e comprende in sé tutti i «logoi buoni» degli uomini, è giusto che tutti lo conoscano e lo riconoscano, per portare a pienezza i semi di bontà che già sono in loro. Se in Lui sono presenti anche tutti i valori buoni che nelle altre religioni sono rimasti non oscurati e che si sono manifestati nel rispetto della legge naturale, nel rifuggire il male e perseguire il bene e se è Lui e solo Lui l’immagine del Dio invisibile, allora perché non farLo conoscere?

Con che diritto, specie dopo la Pentecoste e il dono dello Spirito, possiamo tenere il Cristo per noi? Sarebbe conforme questo atteggiamento al Logos di Dio che si dona a tutti? Ce ne verrà chiesto conto?

Sì, temo di sì, ed è un peccato, anzi il primo peccato contro la Carità.

Il problema è proprio quello del dramma di quella bambina: i suoi genitori credono che quell’evento sia dovuto a qualcosa che hanno fatto in una vita precedente e che scontano un cattivo karma, dei peccati che non ricordano. Ma perché quella bambina è così? E’ colpa sua, delle sue vite precedenti, delle colpe dei suoi genitori? Il «dio» che esiste e che pregano, in realtà chi è?


Quello legato dal Dharma, dall’inesorabilità della causa-effetto o il Dio che toglie i peccati, che cioè carica su di sé i peccati? Il notaio o il medico, anzi l’Accusatore o il Redentore?

C’è del vero nella credenza di quei genitori: a causa del peccato il male è entrato nel mondo e con esso la morte. La morte ha potuto mietere infatti anche il Figlio di Dio, Gesù Cristo, perchè, pur non avendo egli peccato, si è però caricato i peccati dell’intero genere umano. Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l`opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dá vita.

Domando: basterebbe invece una vita irreprensibile di quei genitori per sciogliere la figlia dal suo male, cioè dalla sua malattia? Basterebbe la loro rettitudine a bruciare il karma? E se uno di loro «peccasse», se commettesse un’azione impura, peccaminosa (diremmo noi), sarebbe vanificato il suo sforzo?

Soprattutto tra gli indù questo dibattito è stato accesissimo, tale e quale all’ossessione per il rispetto della Torah, tanto caro ai giudei ortodossi. Ma quante vite occorrerebbero per sciogliere tutti dal loro male e dal male che si accumula e che tutti intacca e travolge? E chi definirà ciò che è male? E chi brucerà il cumulo di karma ammucchiato dai nostri «peccati»? Quanti saranno i «perfetti» che ce la faranno? E chi brucerà il karma del Mondo?

Torno a quella bambina: quand’anche essa in un indefinito ed ipotetico numero di vite future fosse liberata dalla sua malattia, chi la libererà infine dalla morte? Forse la «distruzione della sete dell’esistenza per raggiungere il Nirvana» oppure una pratica ascetica che dilatasse la sua coscienza fino a farle comprendere di essere essa stessa Dio? Tat tvan asì - come dicono i brahamini? Tu sei Quello, il tuo Atman è Brahaman, la tua scintilla divina è l’energia del cosmo, dissolviti nel grande mare come bambola di sale? E’ questa la salvezza? E attraverso quale Via? La Via della mano destra o quella della mano sinistra? Brahma o Shiva?

Non vi è forse in questa devozione altissima il peccato originario, la pretesa di poter essere come dèi senza alcun Dio? Non avrebbe allora Israele ragione a rivendicare davanti a JHW e al mondo la propria salvezza, per avere espiato da sé le proprie colpe, per avere bruciato il proprio peccato (il proprio karma?), tanto da essere stato offerto in olocausto? Non avrebbe allora ragione e ragione da vendere a voler rifiutare che qualcuno preghi per la sua conversione, perché quel popolo è gia stato «vagliato come oro sopraffino» ed è puro da poter stare al cospetto di Dio?

E non avrebbero ragione gli islamici dal canto loro a voler rendere tutti gli uomini semplicemente muslim, sottomessi, perché basta rispettare la sharia per essere salvati? Se poi la verità è quella a-teista del buddhismo, perché avere com-passione per quella bambina? L’unica vera com-passione è lasciare che essa bruci il karma, per rinascere e realizzare le quattro Sante Verità.

Ciò che noi dobbiamo chiederci è: c’è Qualcuno che si ricorda di quella bambina?

Se la sapienza a-teista del Buddha è vera, nessuno conosce il nome di quella bambina, nessuno dall’Alto la riconosce, nessuno la ama, nessuno ascolta la preghiera di quei genitori, perché in  fondo, in fondo, in fondo non c’è Nessuno. Forse solo un grande meccanismo cosmico regolato da ferree leggi, in cui la nascita è dolore, la malattia è dolore, la vecchiaia è dolore, la morte è dolore, la separazione da ciò che si ama è dolore, l’impossibilità di soddisfare i propri sensi è dolore e che tutto ha origine nella sete del piacere, nella sete dell’esistenza, nell’attaccamento agli esseri e alle cose, sicchè la sete dell’esistenza può essere soppressa distruggendo totalmente il desiderio per raggiungere il Nirvana.

No, non è il Paradiso ove Dio sarà tutto in tutti, ma il vuoto assoluto dove il Nulla non avrà coscienza dell’Essere: non sarà il luogo dove sarà asciugata ogni lacrima, perché le cose di prima sono passate e nuove cose sono fatte, ma un’anestesia generale Eterna dove l’Essere sarà annientato nel Nulla. Lucifero non ha corna e né coda, ma è «un intellettuale raffinatissimo e illuminato, snob e nichilista»: le fiamme che ci tormenteranno in eterno saranno quelle dell’impossibilità di Essere per l’Eternità e saranno alimentate dall’accettazione che venga trasformato l’Essere nel Non-essere: questo è l’Inferno e non occorre essere omicidi per finirvici. Basta essere appena un po’ superbi e sapienti.

Ma a me interessa quella bambina: siccome l’unico Dio che esiste è quello in cui indegnamente credo, non mi dò preoccupazione se ascolterà o se si salverà. Certo che ascolta e certo che quella bambina sarà salva, ma lo sarà per merito di Gesù Cristo, anche se lei e i suoi genitori non lo sanno! Loro non ce la faranno a bruciare il karma, ma quando tutto sarà finito troveranno Qualcuno che ha già pagato per loro e messo a fruttare la loro pia devozione. Qualcuno che non conoscevano e che se avessero conosciuto prima avrebbe insegnato loro che il Suo giogo è dolce e il Suo carico è leggero. Oltre quella bambina, già salva nell’immagine cristica di sofferenza, a me interessano anche quei genitori: mi pesa quel dolore gravato per di più dal senso di colpa per un peccato che viene dal passato e di cui credono di portare personalmente, loro o la loro piccola, la colpa.

«Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: - Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco? -. Rispose Gesù: - Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio» (Giovanni 9,1 seg.).

Bisogna che qualcuno dica a quei genitori di cambiare la loro preghiera, perché è già venuto Uno che toglie i peccati del mondo.

Bisogna che qualcuno li liberi da questa ossessione, perché non si sentano schiacciati dal loro peccato. Bisogna che il peso della «Torah del karma» si sfracelli sulla Pietra d’inciampo di Cristo.

Bisogna che qualcuno che dica a quei genitori che la loro figlia non è immagine di peccato, ma immagine di salvezza, che essi non hanno davanti a sé una colpevole da riscattare, ma un’innocente che riscatta, compartecipe nella sofferenza di un Riscatto più grande.

Bisogna che qualcuno mostri loro il Crocifisso, perché vi riconoscano la loro sofferenza.

Bisogna che sappiano che la storia della loro bambina sta già manifestando, non fosse che per i pensieri che ci induce, le opere di Dio.

Sì, direttore, tocca a Lei. Annunci a quella famiglia che c’è Qualcuno che ha già «bruciato il karma» di tutti e che la sete dell’esistenza non si spegne spegnendone il desiderio, ma che Qualcuno, al contrario, ha promesso che «chi beve l’acqua che Io gli darò, non avrà mai più sete, anzi l’acqua che Io gli darò sgorgherà in lui come una sorgente d’acqua che entra nella vita eterna».

Bisognerà che qualcuno annunzi loro che li attende la Vita Eterna in Lui e non il Nirvana.

Bisogna che qualcuno porti a quella bambina la carezza del Cristo per ringraziarla della sua muta e incosciente testimonianza e l’acqua del Battesimo quale dono e sigillo dell’opera di Redenzione.

Sì, direttore, qui tocca a Lei fare sì che si manifestino in quella bambina le opere di Dio.

Domenico Savino



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