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I gestori dello snobismo
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Perchè un urinale a muro di maiolica, un manifesto della scatola di minestre Campbell o un vitello sezionato in formalina acquistino lo status di opere darte anzichè scherzi di cattivo gusto, occorre che siano produzioni di qualcuno che abbia lo status di artista, che figurino in esposizioni e gallerie d’arte di grido, vengano comprate da celebri musei d’arte contemporanea, compaiano su selezionati e selettivi cataloghi d’arte.

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Il processo di creazione dell’artista contemporaneo non è semplice nè facile da intuire, perché è innaturale fino all’assurdo. Mi propongo di mostrare che esso funziona eccitando e mobilitando una delle molle più potenti del conformismo sociale – lo snobismo – e che esistono specifici sapienti gestori dello snobismo, i quali appartengono per lo più ad gruppo umano identificabile; e che attraverso questa vera loro arte, manipolano a loro piacimento l’opinione pubblica anche nel campo politico e ideologico.

Una recente lettura (1) mi ha introdotto a qualche segreto di fabbricazione dell’artista contemporaneo, per la precisione del suo prototipo: Marcel Duchamp (1887-1968), quello che nel 1917 espose un pisciatoio in ceramica sanitaria, dal titolo Fountain.

Marcel Duchamp
   Marcel Duchamp
Duchamp si stabilisce negli Stati Uniti nel 1915; per sfuggire al carnaio delle trincee francesi ha accusato un difetto cardiaco, che non gli impedirà di vivere fino ad 81 anni fra infinite avventure femminili. In America è già noto come iconoclasta: nel 1913, nella prima mostra che intendeva far conoscere le avanguardie europee ai newyorkesi che contano, ha esposto un suo quadro futurista-dinamico, Nu descendant un escalier, nudo che scende le scale. Paragonato da qualche critico a «unesplosione in una fabbrica di tegole», il quadro ha suscitato il dovuto scandalo e l’intera mostra ha conosciuto il successo dell’indignazione del pubblico, debitamente ampliata dai grandi giornali: centomila visitatori a New York, repliche a Boston e a Chicago. Le enormi tirature dei giornali USA assicurarono alle avanguardie europee e ai suoi esponenti una notorietà o pubblicità su scala continentale.

Alfred Stieglitz
   Alfred Stieglitz
Così, quando decide di stabilirsi a New York nel 1915, Duchamp viene subito ospitato in casa e nel salotto degli Arensberg (j), ricchi collezionisti della allora scarsa avanguardia USA, e dal massimo promotore dell’avanguardismo in America, il ricco fotografo d’arte e gallerista Alfred Stieglitz (j).
Costui ha una piccola galleria d’arte al numero 291 della Quinta Strada, cuore dei miliardari di Manhattan, che ha chiamato appunto 291; in più, pubblica una sopraffina rivista, anche’essa 291, in cui si propone «in nome della fotografia, di seppellire la convenzione pittorica».

Walter Arensberg, deciso a battere il ferro della notorietà finchè è caldo, iscrive l’amico Duchamp alla Society of Independent Artists, di cui è cofondatore, creata per la promozione dell’innovazione in arte. Va detto però che ad essa partecipano, insieme ad allora rarissimi avanguardisti come Man Ray, anche i pittori che traggono i loro soggetti dalla realtà quotidiana americana, e che si considerano innovatori in quanto contrari all’accademismo della National Academy: sono i New York Realists, capeggiati da George Bellow, che non hanno rinunciato al modo tradizionale della riproduzione riconoscibile della realtà.

La neonata società organizza subito la sua prima mostra d’arte d’avanguardia, e si aspetta un quadro dal Duchamp, creduto cubista. Ma Duchamp non dipinge più niente dal 1912, «Dipingere, disegnare non ha alcun interesse per me», e non dipingerà mai più, se non un ultimo quadro per soddisfare le insistenze della sua ricchissima adoratrice Katherine Dreier (j), a cui dà il significativo titolo: Tu m’- (per Tu memmerde, tu mi scocci).

Che fare per ovviare a questa sterilità, che poi Duchamp attribuirà a un suo radicale «disprezzo per larte», e alla sua volontà di delegittimarla totalmente? Si sa che, in compagnia dei coniugi Arensberg, egli acquista da un non identificato rigattiere un pisciatoio usato tratto da un cesso pubblico, ne pone la base (quella destinata ad essere fissata al muro) su uno zoccolo, vi ha apposto una firma (non la sua: R. Mutt, 1917), e l’ha mandata alla giuria.

Come è noto agli storici d’arte contemporanea, una parte maggioritaria della giuria negò la natura di opera darte al sanitario, e rifiutò decisamente di esporla. Ma, siccome lo statuto della neonata società degli Independent Artists vietava il rigetto di un’opera, e che Duchamp aveva pagato i 6 dollari d’iscrizione alla mostra, si ricorse ad un compromesso: l’opera del fantomatico R. Mutt non fu ufficialmente rifiutata, anzi fu esposta, ma dietro un paravento. Nessun visitatore ebbe la curiosità di guardare dietro quel paravento. La Fontana di Mutt rimase ignota, lo scandalo non scoppiò.

Louis and Walter Arnesberg with friend Marcel Duchamp
   Louis e Walter Arnesberg con Marcel Duchamp
A farlo scoppiare pensarono gli amici di Duchamp, fra cui Arensberg, che aveva fatto parte della giuria e quindi conosceva la faccenda. I complici fondano una rivista che durerà poco, The Blind Man, e che nel suo secondo (e ultimo) numero, maggio 1917, pubblica un’inchiesta su Il caso Richard Mutt: vi si denuncia la non-esposizione del pisciatoio, di cui appare anche la foto. Il fotografo d’arte è il già noto Stieglitz, amico e complice di Duchamp e degli Arensberg. S’intende che il caso restò a lungo confinato nella piccola e raffinata cerchia dei mercanti d’arte avanguardisti, per lo più (J). Ma era lanciata l’idea che l’artista, una volta ricevuto da questi mercanti l’adeguato status, poteva presentare come opera d’arte un oggetto industriale qualunque, raccolto in una qualunque discarica.

Duchamp si divertì alquanto con l’idea, e produsse varie opere d’arte ready made, o objet trouvés, oggetti trovati, uno scolabottiglie, una ruota di bicicletta. Poi si stancò, e dedicò il resto della sua vita al gioco degli scacchi, alla compagnia di «dame, generalmente ricche, oziose e libere»: non poteva mancare tra esse la miliardaria Peggy Guggenheim (j), di cui fu consulente ed intimo: bastava, ormai, per perpetuare la sua fama d’artista ingiudicabile e come tale essere invitato nei salotti (j), come a Peggy di insuperata intenditrice d’arte. Per il resto, produsse solo e per anni calchi in gommapiuma di sessi e vulve. Una è esposta alla Fondazione Maeght in Provenza col titolo Prière de Toucher, si prega di toccare. Anche i Maeght (j?), ricchi galleristi, sono stati magistrali manipolatori del consenso sull’arte d’avanguardia, al punto che essi sono considerati i veri creatori di Calder, Mirò, Giacometti.

Artuto Schwarz
   Artuto Schwarz
Ma la storia non sarebbe completa, senza citare il gallerista milanese Artuto Schwarz (j). Bisogna sapere che il pisciatoio originale, quello esposto-nascosto nella esposizione newyorkese, andò presto perduto, non meno che lo scolabottiglie; ben consci della natura non-artistica dell’oggetto, gli Arensberg non si preoccuparono di tesaurizzarlo. L’originale tornò alla discarica, come meritava. Ne restavano solo le foto di Stieglitz. Da quelle foto, Arturo Schwarz fece confezionare quattordici copie numerate del sanitario, insieme a 14 copie dello scolabottiglie: inutile dire che queste repliche andarono a ruba a prezzi stellari, e Duchamp, che le firmò, fu estasiato da questa lucrativa operazione.

Qui sono ben visibili gli snodi della fabbricazione. Lo scandalo creato ad arte da riviste prestigiose create apposta per l’operazione, la figura dell’artista descritto come incompreso se non perseguitato dai colleghi realisti, la conventicola che si rende esclusiva e raffinata tanto da fare di un banale derisore, notevole solo per la sua naturale impudenza, qualcosa come Dio, un essere che – datogli lo statuto di artista – nessuno ha il diritto di giudicare.

A tanto può giungere la sapiente manipolazione dello snobismo: pensate che 14 pisciatoi firmati sono esposti in altrettante magioni o musei. E si pensi agli oggetti che hanno continuato il gioco derisorio di Duchamp portandolo ad estremi ripugnanti: il vitello spaccato di Hirst è stato battuto a Sotheby’s per 10,3 milioni di sterline; e chi compra i cadaveri o parti anatomiche di essi, plastificate da Von Hagens, ex perito settore in Germania Est, per metterli in mostra nel salotto? Eppure Von Hagens è oggi ricco. Pensate a chi paga i necessari milioni a Christo perchè impacchetti monumenti e montagne: eppure qualcuno li paga (per lo più enti pubblici, i mostri freddi che sono i mecenati naturali della non-arte).

Pensate che il gioco lucroso dura, benché ormai sia un gioco così ripetitivo e scoperto, che la trasgressione degli artisti contemporanei è diventata l’Arte Ufficiale assoluta. Da ciò misurate la potenza del difetto umano chiamato snobismo, e di chi sa eccitarlo e strumentalizzarlo ai propri fini.

Lo snob è colui che imita con affettazione le opinioni, i gusti, le maniere e le mode della classe che considera distinta, in senso sociale o intellettuale. Non è il difetto di minoranze. Al contrario. Lo snobismo è un fenomeno di massa della modernità, trascina anche le classi basse, marginali o persino delinquenziali. In questo senso, è il cemento anche del branco e delle bande giovanili, dove se non hai certi tatuaggi e certi pantaloni, se non aderisci ai gusti e al gergo del capobanda sei fuori. Uno snobismo simile, ancorchè immondo, regna nella mafia e nella camorra; lo snobismo è il potere psichico, omogeneizza i giovani leoni di Wall Street sia nel linguaggio, nelle giacche Armani, nel cinismo, e nei SUV Porsche. Lo snobismo è quel che conferisce il suo potere lucrativo ai creatori di Moda come la ferrea presa degli uomini delle Ideologie; si manifesta in cucina (il mercato dei cibi naturali) come nei salotti buoni, nella Pubblicità e nei Partiti come nei rapporti intimi fra amanti. Lo snobismo, ovvio, guida i consumi. In questo senso, è stato scritto, la pretesa arte contemporanea domina in modo totalitario (l’artista figurativo non ha mercato) in quanto è l’arte ufficiale del totalitarismo della Mercanzia. E Mercanzia evoca la forza del marketing, che appunto decreta ciò che è distinto e superiore o attuale, come severa guida ai consumatori.

Qualche lettore potrà dubitare che lo snobismo sia una tale forza irresistibile, che fa sua preda non questo o quel gruppuscolo sociale, ma quasi l’intera umanità. A ciò rispondo: considerate che la maggior parte degli uomini non è capace di gusti, idee, opinioni proprie. Di conseguenza, di fronte a qualunque realtà o produzione umana, non si chiede: è vero, o no? È autentico o no?

A queste domande troppo difficili, ne sostituisce altre, assai semplici: è attuale, oppure è superato?

Di fronte alla Merda d’Artista inscatolata di Manzoni, come di fronte alla ideologia darwiniana o al liberismo capitalista, l’uomo qualunque ma snob non si rivolta: occhieggia di sottecchi i distinti, la classe alta (che può essere una classe qualunque purchè si sia data lo status di avanguardia: i galleristi d’avanguardia come l’Avanguardia del Proletariato), per vedere come reagisce. Se quella lo accetta, allora è corretto, distinto, attuale. E lo compra.

Il meccanismo viene via via ridotto ai termini più schematici: chi non sa dire a se stesso se un artista o una idea o una moda sia autentico o no, chi è sordo alla verità, si lascia guidare da chi decreta – per dirla all’americana – ciò che è in e out. È lo snobismo ridotto ai minimi termini dell’assenza intellettuale: in e out non sono categorie logiche nè del pensiero; sono nulla. Sono, nell’essenza, riflessi condizionati. In mano a chi li sa usare, fanno di noi dei cani di Pavlov.

Il fatto che li sappiano usare nel modo più magistrale il gruppo umano che ho indicato con la lettera (J), è abbastanze bene spiegabile. Anzitutto, questo gruppo è in proprio snob al massimo livello, se si pensa che snob è l’abbreviazione delle parole Sine Nobilitate, e come abbreviazione accompagnava i biglietti d’invito che inviava l’aristocrazia inglese per qualche suo ricevimento: baronessa Tale, Lord tal’altro, John Mason esq (esquire), poi il banchiere Rothstein, s.nob. Pensate la sofferenza e l’umiliazione subita per secoli dal banchiere, magari immensamente più ricco dei Lord che lo invitavano, o del medico ebraico dei re, il consigliere e il gestore dei beni dei principi, che frequentava le loro stanze e i loro castelli, ma sempre disperatamente out, e senza alcuna possibilità – per secoli – di diventare pari all’aristocrazia. L’acuto senso di inferiorità vissuto come ingiustizia e offesa, ha reso il popolo (J) acutamente sensibile alle questioni che travagliano lo snob, nonchè acutamente cosciente della superiorità e dell’inferiorità e dei suoi segnali che si manifestano anche impercettibilmente in un raggruppamento umano, sia un ricevimento o sia un partito politico, o una conventicola d’avanguardia o un salotto esclusivo.

La Recherche du Temps Perdu di Marcel Proust può essere letta come un trattato sullo snobismo. C’è lo snobismo ereditario dei baroni, dei Charlus e dei Guermantes, che affettano comportamenti alla mano (è parte dello snobismo dei grandi del tempo che fu), e quello dei risaliti arricchiti. La psicologia dei personaggi proustiani non è psicologia affatto; essa è ridotta ai tic, agli atteggiarsi e alle maniere e manierismi di chi cerca di restare in o di diventarlo, o almeno di non essere ridotto ad out. Gli sforzi di madame Verdurin e consorte per fare del proprio salotto o piccola cerchia la centrale che decreta a Parigi ciò che è in e ciò che è out di artisti ma anche di scienziati, di medici e di politici, e il successo che arriderà a questo sforzo quando tramonterà l’era dei baroni, è una saga satirica, ridicola e dolorante insieme (per quelli bollati come out e dunque non più frequentabili). La potenza del salotto Verdurin consiste in un ferreo sistema di ostracismi, di cui Proust sottolinea l’arbitrario e il capriccioso: chi viene escluso non lo è mai per le vere ragioni, come chi è dichiarato in non lo diventa per i suoi meriti. Non diversamente decretano espulsioni e scomuniche al loro interno piccoli partiti estremisti che, se prendono il potere, diventano concentrazionari.

Chi ha una certa età, ricorderà come fosse chic per certa borghesia di peso in Italia, e i suoi intellettuali, essere di sinistra, simpatizzare per il comunismo realizzato a Mosca, addirittura per Mao, ed estendere quella simpatia fino alla Brigate Rosse. Personalmente ricordo persone cui consigliavo di leggere Solgenitsyn (Arcipelago Gulag) per apprendere la verità nel paradiso dei popoli, l’universo concentrazionario comunista, e che rifiutavano adducendo che Solgenitsyn era reazionario, credente, quindi superato, ossia out. Qualcuno li aveva convinti che Arcipelago Gulag era fuorimoda.

Poi, insensibilmente, tutto ciò è cambiato. Una quindicina d’anni fa, non fece più bon-ton essere comunisti. Nei salotti si smise di evocare le masse lavoratrici, in fatto di estetica si smise di citare Lukacs, di dichiararsi marxiani; i ragazzi della bella società non strimpellarono più Comandante Che Guevara, grandi giornalisti e intellettuali cessarono di esibire la conoscenza diretta dei Grundrisse di Marx di cui si vantavano due anni prima.

Non è che la borghesia avanzata avesse riconosciuto la verità, ossia la natura omicida del sovietismo; nemmeno che era caduta l’Unione Sovietica. Era che qualcuno aveva dato il segnale che la lotta di classe non si portava più. Che il leninismo era superato, vecchio e un po’ ridicolo come il realismo socialista in pittura.

I militanti del Partito Comunista più forte dell’Occidente, la base operaia che non partecipa allo snobismo dei piani alti, probabilmente non si capacitarono del cambiamento improvviso. Persino i capi del PCI cambiavano: era come se Marx, Lenin e Gramsci non li avessero mai letti e conosciuti a memoria nelle scuole di partito, e puntavano sulla globalizzazione del capitalismo. Gli abiti (mentali) che si vendevano bene in via Montenapoleone, erano diventati oggetti di stock, che nessuno voleva indossare più per una sera elegante. Le masse videro d’essere ormai fuorimoda come i modelli pret-à-porter dell’anno prima; fino a ieri adulate avanguardie della storia, ora abbandonate ormai all’individualismo avanzante e alle ragioni del profitto, del meno Stato più mercato.

Forse gli smarriti ultimi comunisti rimasti avrebbero potuto intuire chi guidava il cambiamento, se avessero osservato lo spostamento che negli ultimi anni s’era operato nella comunità J a livello internazionale. Prima, in Italia come in Europa e in USA, non si incontrava un J che non fosse di sinistra, radical chic o addirittura esponente del direttivo comunista. Poi, da un certo punto in poi, lo stesso (J) era diventato liberista in economia e falco in politica, se non addirittura religioso con tanto di cappello nero, filatteri e barba rabbinica.

Come fonte ideologica interna, Lev Davidovic Trotski aveva lasciato il passo allo gnostico nicciano-machiavellico e rabbinico Leo Strauss, teorico della doppiezza; il progetto di palingenesi universale di cambiamento dell’umanità intera nel comunismo, aveva ceduto al progetto ultra-ebraico di possesso della terra d’Israele per il solo esclusivo popolo eletto.

Il cambiamento era cominciato in America dove i Kagan, i Kristol, figli di trotzkisti fuoriusciti dalla Russia, erano diventati neo-conservatori, imperialisti e bellicisti; in consonanza da diapason, in Israele il cinquantennale dominio del Partito Laborista sionista, aveva ceduto al Likud neo-nazista, razzista, promotore della conquista armata e del rifiuto della diplomazia: non si tratta con animali parlanti, li si elimina.

In Italia, nel suo piccolo, abbiamo visto le stesse metamorfosi nella Nirenstein, da movimentista rossa della rivoluzione permanente in likudnik fanatica, e di Giuliano Ferrara, figlio del numero 2 del PCI, allevato sulle ginocchia di Togliatti, oggi neocon italiano ed ateo devoto. E autore di un giornale ultra-snob, inteso ad instillare nei circoli che contano la nuova moda: diventare crociati è l’imperativo dell’attualità intelligente, la reazione si porta fra le persone distinte e gli intellettuali d’avanguardia, il razzismo anti-islamico e il rifiuto del multiculturalismo (che loro stessi ci hanno fatto ingoiare di dritto e di traverso, quando erano di sinistra) oggi è l’ultimo grido intellettuale.

Il Foglio ha poca tiratura, ma ha già la forza di imporre i nuovi ostracismi e decretare ciò che è in ed out almeno in certi circoli, non esclusi ecclesiastici. Limitato o no che sia il suo successo, importa notare che esso adotta i meccanismi della manipolazione dello snobismo. Per il resto, si inserisce nella grande metamorfosi del (J) collettivo.

Il comunismo non è più di moda, o come disse Berlinguer la «sua spinta propulsiva si è esaurita», da quando loro non sono più comunisti, ma neocon, nicciani alla Strauss, religiosi ultra-ortodossi, antiislamici.

In arte, il successo dei gestori dello snob è totale. Privi di una tradizione figurativa per il ben noto divieto biblico di raffigurare esseri viventi, e perchè nei secoli si sono occupati di ben altro che del Bello, i nostri (J), galleristi o specialisti, hanno promosso esclusivamente artisti che, come Duchamp, si son fatti un dovere di irridere e delegittimare l’arte, che per secoli fu figurativa, la rappresentazione degli dei come esseri reali, della storia sacra come recitata da uomini reali, o del paesaggio come realtà trasfigurata (2).

Per un popolo che non ha mai avuto per secoli pittori nè scultori nè architetti, è notevole quanti (J) sono illustri nell’empireo dell’arte contemporanea: Modigliani, Chagall, Ernst, Kandinsky, Klein, Pollock, Gottlieb, Rothko, l’archistar Gehry, che riempie di sgorbi le città tradizionali, ovviamente su ordinazione della burocrazia locale. Probabilmente ciò non è senza relazione con il numero, parimenti affollato, di galleristi e intenditori ebrei, specie in USA, che promossero l’informale e l’astratto: Guggenheim, Kanhweiler, il triestino Leo Castelli che nella sua galleria sulla East 77 a Manhattan, promosse l’arte minimalista, la concettuale e la pop-art.

Non è stato un processo spontaneo, il libero affermarsi del gusto del pubblico. Al contrario, la gente comune continua a soffrire l’arte informale come offensiva e priva di senso: «Ciò che ferisce gli occhi, ferisce lanima».

E’ stato lo snobismo con la sua leva su chi, davanti a un’opera, non si fa domande sulla sua verità, ma se è in. Fu esercitata una dittatura culturale intimidatoria.

A cominciare dal ‘43, in USA, due artisti di nome Rothko e Gottlieb scatenarono una campagna di ridicolizzazione contro il realismo, contro «i quadri da appendere sul caminetto». Nel 1952, una cinquantina di pittori figurativi scrisse una lettera di protesta contro il museo d’arte moderna di New York (MoMA): la scelta del museo di accogliere solo astrattisti e avanguardisti, scrivevano, condannava i realisti a vivere da sepolti vivi, senza mercato e ignorati dalla critica e dalle gallerie. Tra i firmatari c’era il più grande pittore americano del ventesimo secolo, Edward Hopper.




1) Jean-Louis Harouel, La Grande FalsificationLart Contemporain, Parigi, 2009.
2) L’arte occidentale è stata una tradizione integralmente unitaria, dai Greci fino a ieri, in quanto è stata sempre figurativa (al contrario dell’arte orientale che conosce, per esempio, l’astratto mandala): ciò perchè ha sempre mirato a raffigurare le divinità come esseri reali (gli dei del Partenone, i gli infiniti Crocifissi e Madonne col Bambino), i fatti della storia sacra come realmente esistenti qui e ora (Caravaggio), i grandi signori dei ritratti come realmente presenti fra noi. Di fatto, un popolo senza tradizione artistica, per distruggere la nostra tradizione, ha dovuto delegittimare con la derisione alla Duchamp o Picasso, il soggetto in arte, perchè nell’arte occidentale il soggetto era in definitiva, sotto le forme più diverse, il Dio-Uomo, l’Incarnato, l’odiato galileo. Eliminato il soggetto in arte, le Veneri di Botticelli e le Vergini di Pier della Francesca, ne risulta una conseguenza inevitabile, indicata da Alain Besancon: «Il solo soggetto è lartista stesso». Ciò significa che l’artista è stato dotato, dal marketing dell’avanguardia, delle caratteristiche di Dio: nessuno ha diritto di giudicare i suoi atti, tutto ciò che produce è oggetto darte, anche le deiezioni (le scatole Merda dArtista di Manzoni sono esposte in vari musei contemporanei). Come Dio, egli è assolutamente libero, «può utilizzare qualunque forma per esprimersi» (Kandinsky), è libero soprattutto dall’obbligo d imparare a dipingere bene (il lato artigianale, acquisito e tecnico dell’arte). Nemica giurata del mestiere artigianale, l’arte contemporanea vuol essere uno sfregio, «urina nelle acquasantiere», come proclamò un dadaista. Picabia (j) proclamò che, col cubismo, intendeva elevare «una cattedrale di merda», e che «bisogna ripulire laria da tutto quel che è arte». Max Ernst (j) ha dipinto un quadro intitolato La Madonna sculaccia Gesù bambino davanti a tre testimoni. Non sfuggirà l’aspetto anticristico di tutto ciò. L’artista contemporaneo è imposto come il dio del mercato, naturalmente nella forma di una caricatura, una parodia: l’Anticristo sarà simia Dei.


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