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Il cardinale, il professore, il rabbino (Parte I)
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«Ma il Figlio dell’uomo quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Luca 18, 8).
Per chiunque lo voglia ancora tenere in considerazione, l’ammonimento di Nostro Signore è lì, lapidario, scritto per l’eternità.
Riflettendo su tale ammonimento abbiamo messo giù questo articolo, non troppo facile e non sintetico (la materia stessa trattata, pur prendendo spunto da fatti recenti, non si presta né alla semplicità né alla sinteticità), con l’intenzione, ne avvertiamo subito i lettori, di far toccare con mano la misura di quanto il tentativo di negazione e di adulterazione della fede cattolica sia ormai giunto a livelli in precedenza inimmaginabili, sia all’interno che all’esterno della Chiesa cattolica. Quanto andremo a dire non deve affatto essere motivo di rabbiose reazioni, ma occasione per una serena riflessione, nella ferma convinzione che non siamo affatto stati abbandonati dal Cielo ma anche che «e’ inevitabile che avvengano scandali» (Luca 17, 1).

Proprio pensando al significato recondito dell’ammonimento di Cristo, con il quale abbiamo introdotto questo articolo, Paolo VI, a suo tempo, confidò, in privato, a Jean Guitton la sua preoccupazione nel vedere crescere all’interno della Chiesa un «pensiero non cattolico» che andava sostituendosi gradualmente alla fede.
Tuttavia, aggiungeva quel Papa, questo pensiero estraneo, anche nel caso in cui dovesse prevalere senza più resistenze, non potrà mai pretendere di rappresentare l’autentica dottrina di fede cattolica. A distanza di trent’anni, possiamo dire che l’essenza profonda di quel pensiero non cattolico, il cui prevalere nella Chiesa era paventato da Papa Montini, si è svelato nella tendenziale, implicita o esplicita, «talmudizzazione» del modo di pensare, agire, pregare e persino della spiritualità e della cultura dei cattolici.
Allo scopo di far presentare dal vivo il problema abbiamo preso in esame le considerazioni ed il pensiero di tre personaggi.
Il primo di essi è cattolico, il secondo lo è stato ma non lo è più, il terzo pur non essendolo è persona che si intromette spesso e volentieri negli affari ecclesiali e che comunque gode, per il ruolo che attualmente riveste, di grande considerazione sia in ambito cattolico che nel più vasto ambito massmediatico.
Si tratta di un cardinale, di un professore e di un rabbino.

Il cardinale

Il cardinale è Walter Kasper, nome di primo piano della Curia, presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, cui, significativamente, è annesso il dicastero per il dialogo
ebraico-cristiano.
Il cardinale è da sempre su posizioni di estremo aperturismo ecumenico fino a rasentare visioni teologiche certamente per nulla tranquillizzanti sotto il profilo della chiarezza dottrinale (1).
Kasper è intervenuto più volte in questi mesi sulla faccenda della preghiera pro judaeis dell’antica liturgia tridentina, dal momento che trattasi di competenza del suo dicastero.
Ma, a nostro giudizio, non lo ha fatto con la cattolica chiarezza che sarebbe stata necessaria.
Da ultimo, in merito alla querelle nata intorno alla nuova preghiera per gli ebrei del Rito Tridentino, egli ha dichiarato: «Le reazioni avutesi da parte ebraica sono in gran parte motivate non in modo razionale, ma emozionale. Non si deve però liquidarle precipitosamente come causate da ipersensibilità».
Così sull’Osservatore Romano (2): «La preghiera per gli ebrei - ha ricordato ancora il presidente della Pontificia Commissione per i rapporti con l’ebraismo - ha una lunga storia. E la nuova formulazione della preghiera per la forma straordinaria del Rito Romano è stata opportuna perchè alcune formulazioni sono state considerate offensive da parte ebraica e urtanti anche da parte di vari cattolici. La nuova formulazione ha portato importanti miglioramenti del testo del 1962».
E, sempre a giudizio del cardinale, il fatto che anche la nuova formula abbia «suscitato nuove reazioni irritate, sollevando questioni di principio presso gli ebrei» deve essere»compreso».
Infatti, «pure presso amici ebrei che da decenni sono coinvolti in un intenso dialogo con cristiani - dice Kasper -, la memoria collettiva di catechesi e conversioni forzate è ancora sempre viva. Il ricordo della Shoah è per l’ebraismo odierno una traumatica caratteristica di identità che crea comunione. Molti ebrei considerano la missione verso gli ebrei una minaccia alla loro esistenza; talvolta si parla addirittura di una Shoah con altri mezzi».

La diplomatica posizione di Kasper sarebbe apprezzabile, sotto un profilo esclusivamente diplomatico, se non nascondesse due affermazioni problematiche per la fede cristiana nonché imprecise dal punto di vista storiografico.
La prima è quel (volutamente?) maldestro riferimento agli episodi, in verità pochi e sporadici, di conversioni forzate, episodi che avulsi dal loro particolare contesto storico sono presentati dal cardinale, in questo culturalmente suddito di una impostazione storiografica giudaico-centrica, con toni esagerati rispetto alla effettiva realtà di quegli avvenimenti.
La seconda problematica affermazione è quella secondo la quale ogni forma di apostolato verso gli ebrei sarebbe una sorta di Shoah con altri mezzi.
Un’affermazione, quest’ultima, che il cardinale cita come proveniente da ambienti ebraici senza però nulla dire da parte sua che possa smontare una tesi, l’apostolato verso i «fratelli maggiori» come presunto nuovo olocausto, del tutto assurda sia sotto un profilo teologico che sotto un profilo storico.
Assurda non potendo il rispetto, pur dovuto nelle forme dell’umana cortesia e della carità cristiana, per la sensibilità ebraica andare contro i diritti oggettivi della verità teologica cattolica e quelli propri della storiografia.
Ragion per cui se, per eccesso di «rispetto» della sensibilità israelitica, ci si dovesse fermare di fronte ai «fratelli maggiori» nell’annuncio di Cristo, non si capirebbe, e sarebbe del tutto contraddittorio, l’atteggiamento della Chiesa cattolica, che, con un recente documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha ribadito, giustamente, la legittimità dell’apostolato verso i non cattolici, anche verso gli ebrei, come attività non solo  tradizionalmente ricompresa nella missione che Nostro Signore Gesù Cristo ha conferito agli apostoli ed a tutti i cristiani di portare il Vangelo a tutte le genti, ma anche nient’affatto in contrasto con l’odierna volontà di dialogo.

Le dichiarazioni imprecise e reticenti del cardinale Kasper confermano quanto l’attuale e confusionario dialogo ebraico-cristiano, che vede sempre e comunque in posizione passiva ed egemonizzata la parte cattolica, deve alla subordinazione culturale di certa gerarchia verso una visione dogmatica del cosiddetto «olocausto», innalzato da tragico evento della storia, analogo però, sotto ogni profilo ad iniziare da quello morale, a molti altri tragici eventi similari (uno per tutti: il genocidio degli armeni cristiani, che lo ha storicamente preceduto, da parte dei «Giovani Turchi» dumneh), al rango di fatto escatologico e salvifico: una sorte di parallelo del Calvario.
Questo è l’equivoco di fondo che turba la teologia cattolica di oggi: aver accettato una lettura della storia fondata sulla convinzione che l’Israele post-biblico sia rimasto, anche dopo il Sacrifico della Croce, un soggetto messianico con un suo ruolo unico nella storia consistente nel portare, in parallelo con la Chiesa, ma senza Cristo, il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe ai popoli della terra.

Questa «teologia delle salvezze parallele» è nient’altro che la trasposizione in ambito cattolico dell’esegesi talmudica del Vecchio Testamento, per la quale Israele è il messia collettivo ed il suo ritorno nella Terra Santa segnerebbe, nella prospettiva di una presunta imminente era di pace globale, l’inizio dell’adempimento delle promesse messianiche fatte da Dio a questo popolo. Prospettiva che, però, a giudicare da quanto avviene in Palestina, dove si sta giocando davvero la partita delle future sorti dell’umanità, e dai segnali sempre più foschi di tensione internazionale, dai quali nulla di buono è possibile presagire per la pace mondiale, sembra proprio del tutto lontana ed assolutamente remota: il che dovrebbe far molto riflettere, innanzitutto i «fratelli maggiori», sull’attendibilità dell’esegesi talmudica delle profezie veterotestamentarie, alla quale oggi abboccano anche tanti «buoni cattolici».
Episodi di conversioni forzate, e in quanto tali per la Chiesa da sempre nulle ipso facto, si sono sicuramente verificati nel corso dei secoli, ma non nella misura enfatizzata dalla propaganda di parte ebraica.
Se poi volessimo fare la conta scopriremmo che, comunque, in passato ad ogni conversione forzata ha fatto riscontro, in parallelo, una conversione spontanea, perché Dio sa scrivere dritto anche sulle righe storte tracciate dagli uomini.
Alla base di quelle conversioni forzate vi erano contesti politici e sociali nei quali, a volte anche da parte di uomini di Chiesa, si abusava illegittimamente della fede cristiana per scopi non spirituali ma assolutamente terreni, di potere.
Spesso si trattava, poi, di sobillazioni ereticali all’interno della cristianità fomentate da una cattiva interpretazione dei passi escatologici della Scrittura.
Sobillazioni regolarmente combattute dalla Chiesa.
L’impulso che in passato ha spinto taluni cristiani in fregola millenarista a convertire con la forza gli ebrei è, del resto, lo stesso che oggi spinge certi fondamentalisti ebrei ed i cristiano-sionisti americani ad accelerare i tempi della ricostruzione del tempio di Gerusalemme allo scopo di «forzare la mano di Dio» per l’adempimento delle promesse escatologiche.
Sia nell’un caso che nell’altro si tratta di una volontà prometeica invisa al Cielo che invece agli uomini chiede umiltà e pazienza.

Anche per quel che riguarda l’atteggiamento missionario e catechistico della Chiesa verso gli ebrei il discorso, dal punto di vista ebraico, supinamente accettato da Kasper, è storicamente viziato. Di solito in merito agli sforzi, a volte maldestri, dei cristiani per la conversione degli ebrei, viene citato il caso, e siamo sicuri che a questo esempio pensava anche Kasper, di Paolo IV Carafa. Questo Papa fece circondare il ghetto di Roma da un muro e impose agli ebrei romani di sottomettersi alle catechesi dei predicatori cattolici, in particolare il giorno del Venerdì Santo.

Così scrive la storica ebrea Anna Foa a proposito della vicenda degli ebrei romani nel XVI secolo: «Il ghetto di Roma fu creato da papa Paolo IV Carafa nel luglio 1555, con la bolla Cum Nimis Absurdum, che sanciva una rigida segregazione del quartiere degli ebrei: da quel momento in poi, gli ebrei avrebbero dovuto vivere concentrati in una sola strada, separata dalle abitazioni dei cristiani. Questa strada doveva avere soltanto una via di comunicazione con l’esterno, chiusa da un portone. In ogni ghetto non poteva esserci più di una sinagoga. Gli ebrei non avrebbero più potuto possedere alcuna proprietà immobiliare. Il ghetto fu creato nel quartiere Sant’Angelo, il quartiere dove la maggior parte degli ebrei viveva all’epoca. Tre mesi dopo, nell’ottobre 1555, venne terminata la costruzione del muro di cinta. (…). Il … senso prevalente oggi (del termine ‘ghetto’, ndr) è quello della separazione. Nel cinquecento, in realtà, non era la separazione la sua ragion d’essere più forte, ma una complessa ideologia che separava gli ebrei per controllarli, educarli, spingerli alla conversione. E’ questo che differenzia il fenomeno della ghettizzazione, tipico dell’Italia tra Cinque e Seicento e solo di questa, da altre forme simili di vita obbligata in quartieri separati presenti nella storia degli ebrei europei. il movente primo del ghetto, come la bolla di Paolo VI lo crea (in realtà il ghetto inteso come quartiere ebraico già esisteva, Paolo IV lo ha solo recintato, ndr) e come si diffonderà ad opera dellla Chiesa nell’Italia nell’Italia del cinque-seicento, è la conversione. Di tutti gli strumenti inventati dalla Chiesa del Cinquecento per spingere gli ebrei a farsi cristiani, il ghetto è il più efficace e il più duttile. La ghettizzazione corrisponde infatti ad una fase storica in cui la Chiesa ha deciso, dopo secolari esitazioni e cautele, di sbarazzarsi una volta per tutte della presenza di una minoranza al suo interno: sbarazzarsene non secondo il modello delle monarchie europee, cioè con l’espulsione, ma attraverso la conversione. Una conversione da ottenersi, ancora una volta, non sulla punta della spada,… ma con la persuasione: un convincimento, quindi, sia pur facilitato dall’indurimento delle condizioni di vita, dalla chiusura anche materiale degli spazi, dall’appesantimento delle imposte.
All’interno, le prediche forzate rendevano difficile la vita collettiva, imponendo agli ebrei di ascoltare, ogni sabato pomeriggio, un predicatore che rileggeva in chiave cristiana la porzione della Torah letta la mattina in Sinagoga. La Casa e il Collegio dei Catecumeni accoglievano neofiti volenterosi e talvolta anche neofiti recalcitranti, pur se le conversioni, tranne che in alcuni casi, non furono mai forzate..., a Roma l’integrazione dei convertiti funzionò, anche se i rapporti con i neofiti furono sempre avvolti da qualche forma di pregiudizio e di sospetto. Nella società del ghetto, la pressione esterna portò come risultato un’attenzione costante ad evitare qualunque crisi potesse minacciare gli equilibri interni e determinò una notevole stabilità. Stabilità che poteva avere i suoi lati positivi, ma che sul lungo periodo divenne soprattutto immobilismo…
(Il ghetto era) una semi-prigione, soltanto notturna ma munita di portoni, di mura e di guardiani… Di tutti i ghetti italiani, quello romano è, data la sua vicinanza alla sede papale, il più segnato dal controllo, dall’esercizio di una pressione, quella verso le braccia aperte della Chiesa, continuamente rinnovata e reinventata. Una pressione tuttavia, che diede risultati anche significativi sul piano delle conversioni, ma che non portò al suo obiettivo, la conversione collettiva degli ebrei…» (3).

Alla conclusione della Foa vogliamo aggiungere da parte nostra che quella pressione non avrebbe comunque mai potuto dare il risultato della conversione di tutti gli ebrei per il semplice fatto che questo evento, come insegna San Paolo, è stato rinviato da Dio stesso alla fine dei tempi, quando Israele, ed è questo che oggi in ambito cattolico si è purtroppo dimenticato, subita la catastrofica delusione delle proprie errate speranze messianiche, quelle che secondo San Girolamo e l’insegnamento moralmente unanime e dunque infallibile dei Padri della Chiesa gli faranno scambiare l’Impostore per il Messia, aprirà finalmente gli occhi, ora bendati, e riconoscerà la Divino-Umanità Messianica di Cristo.
Abbiamo riportato questo brano della Foa per dimostrare che da parte cattolica non si nasconde assolutamente nulla della verità storica purchè onestamente si trattino queste cose con serietà storiografica, nel contesto del loro tempo, comprendendone le ragioni all’interno di quel contesto e non anacrionisticamente con la mentalità di oggi, e, soprattutto, senza alcuna inaccettabile decontestualizzazione storica nel tentativo infondato di individuare in certi episodi della storia della Chiesa la radice della persecuzione razziale del XX secolo.
Una tesi di tal genere, infatti, è semplicemente falsa e viziata da un presupposto «ideologico» o «teologico», ebraico-centrico, giocato in modo anacronistico.

Abbiamo evidenziato in maiuscolo i passi della Foa che richiamano chiaramente le motivazioni ed il contesto nel quale Papa Carafa prese le sue decisioni.
Ne aggiungiamo un’altra sulla quale la Foa tace: il timore nutrito dalla Curia dell’epoca sul possibile influsso che l’ebraismo poteva esercitare sul popolino facilmente suggestionabile dal contatto con rabbini che diffondevano un’esegesi della Scrittura alquanto diversa ed in contrasto con quella predicata dai pulpiti delle chiese.
Non ci si dimentichi che si era all’indomani della rivolta luterana che aveva spezzato l’unità della cristianità e che, nei decenni precedenti, aveva persino fatto tremare la sede apostolica nella quale spadroneggiavano cardinali che simpatizzavano per Lutero.
E’ innegabile che la reazione cattolica di fronte a questa situazione risentì troppo di umane paure e che essa fu caratterizzata da un senso di scarsa fiducia nell’aiuto del Cielo, il quale comunque, nonostante tutti gli umani errori e le umane incertezze, tuttavia giunse puntuale (4).
Ciononostante, giudicando umanamente e non con il troppo facile senno del poi, si trattò di una reazione comprensibile, benché moralmente non giustificabile.
Il ghetto rappresentò comunque anche un luogo di rifugio per l’identità ebraica tanto che l’emancipazione, due secoli dopo, a seguito della Rivoluzione Francese, non fu ben accolta dal rabbinato timoroso del pericolo dell’assimilazione (5).
Ciò contribuisce a spiegare per quali ragioni, dopo l’iniziale diffidenza verso la sua impostazione laica, i rabbini, salvo una minoranza «tradizionalista», finirono per simpatizzare e solidarizzare con il sionismo.

Quando Theodore Herzl, il fondatore del sionismo, fu accusato dagli ebrei assimilati di volerli rigettare nel ghetto, egli rispose che il sionismo era faccenda ebraica mentre loro, ormai assimilati, non erano più veri ebrei (6).
Veniva, in tal modo, restaurato, sebbene sotto forma di ideologia nazionalista, anzi, diciamolo pure, razzista, un nuovo ghetto mentale, in qualche modo connesso con quello atavico talmudico.
Un nuovo ghetto non materiale che ha trovato, ironia della sorte, il proprio muro riedificato, e questa volta per mano ebraica, in Terra Santa, in quell’agognato Eretz Israel ormai diventato una caserma di stile prussiano nella quale nessun ebreo della diaspora sogna di stabilirsi e dalla quale, il fatto è noto, tutti gli ebrei che possono scappano e quelli che non possono sognano di farlo.
E non per la sola paura degli attentati della resistenza palestinese ma proprio perché Israele non è affatto, o non è più affatto, una democrazia ma è diventato una teocrazia nazional-religiosa governata da sionisti fanatici e da rabbini fondamentalisti ultra-ortodossi.
Un fatto, questo della ricostruzione anche fisica di un vero e proprio ghetto, grande quanto l’attuale Stato di Israele, che, nel suo significato teologico ed epocale, dovrebbe far molto riflettere i «fratelli maggiori» e porli di fronte alla domanda: «ma siamo sicuri che stiamo facendo la volontà di Dio e che le nostre speranze messianiche, dal momento che della pace universale non si vede ombra, siano effettivamente risposte nella Sua volontà oppure, al contrario, stiamo commettendo qualche abominio ai Suoi occhi che, quasi ripetizione di quanto è accaduto ai nostri antenati, invano richiamati alla fedeltà a Dio dagli inascoltati Profeti, al tempo della invasione assira e poi babilonese, ci procurerà in futuro tragiche conseguenze?».

In effetti, senza per questo indulgere a paralleli anacronistici sul piano squisitamente storico, non è possibile negare l’impressione che lo Stato di Israele, che da parte nostra non confondiamo affatto con tutto il popolo ebraico, avendo rinchiuso i palestinesi nel ghetto/«lager» di Gaza con l’intenzione di controllarli, educarli, punirli, deportarli non appena possibile, si stia macchiando agli occhi di Dio dello stesso peccato di negata carità, circa il quale noi cristiani siamo stati ammoniti da San Paolo nella Lettera ai Romani, di cui si è macchiato Papa Paolo IV Carafa, e per il quale, stando alle rivelazioni private di una mistica contemporanea, egli starebbe pagando lo scotto in purgatorio. Quanto oggi sta facendo lo Stato di Israele è la universale e palese dimostrazione che nessuno - sottolineiamo, ed affermiamo senza timore, «nessuno» - può tirarsi fuori e ritenersi così innocente da aver il diritto di scagliare la prima pietra.
Tra voi, cari «fratelli maggiori», ci sono persone di squisita dignità e spiritualità, molti di voi non approvano - grazie a Dio! - la politica di Israele e vi si oppongono, ma, nonostante questo, neanche voi, ve lo diciamo con cristiano realismo come lo diremmo a noi stessi nel confessare i nostri peccati, avete il diritto di scagliare la prima pietra, rivendicando che tutto vi sarebbe dovuto perché sareste le eterne vittime universali, in quanto, invece, al contrario, come tutti, neanche voi siete innocenti e senza peccato.
Ed anche voi, già è successo ripetutamente nella storia in passato, non appena potete, per via delle circostanze favorevoli, sapete essere, come tutti, ingiusti, intolleranti, feroci, massacratori, persecutori.
Anche nella vostra storia, come in quella di tutti gli altri popoli, esistono molti scheletri nell’armadio.

Orbene, per tornare agli esagerati complessi di colpa di certi cattolici come il cardinale Kasper, proprio quanto afferma Anna Foa è l’onesto riconoscimento storico che nella ghettizzazione promossa da Papa Carafa non vi era alcunché di antisemita, ossia di razzista, e che si trattò tutt’al più di un’ansia spirituale, verso la salvezza degli ebrei, certamente maldestra e da un punto di vista della morale cristiana peccaminosa per mancanza di carità (anche i Papi, in quanto uomini, come tutti i cristiani, peccano).
Insomma, si trattava, a suo modo, di una forma di amore deformata (anche l’amore può essere deformato) dall’orgoglio prometeico che spingeva a voler forzare i tempi stabiliti da Dio per la conversione degli ebrei, con mezzi oggi impensabili ed assolutamente - sia ben chiaro per tutti! - non più proponibili, ma a quei tempi ritenuti ammissibili (ed è con la mentalità del proprio tempo che bisogna, da un punto di vista storico, giudicare Paolo IV Carafa).
Guardando alla cosa, senza emotività e con obiettività storica, non è assolutamente possibile dire che l’apostolato verso gli ebrei in passato fosse caratterizzato da «antisemitismo», essendo antisemitismo solo ed esclusivamente quello razziale, o che in tale sforzo di conversione, per quanto poco caritatevole, debbano rintracciarsi le radici della persecuzione nazista.
Proprio questa tesi, storiograficamente strumentale ed infondata, che rivela soltanto un approccio teologico propagandistico in favore del giudaismo post-biblico, oggi condiziona molte, troppe, decisioni della Chiesa e si riflette anche nelle dichiarazioni di Kasper di cui sopra.

Diverso invece è il discorso sulla preghiera, che tanto riscalda la suscettibilità ebraica.
Infatti, pregare affinché Dio si ricordi della promessa della finale conversione degli ebrei, fatta in favore della salvezza anche di Israele, non significa «accelerare» i tempi con mezzi violenti ed impropri ma, al contrario, chiedere a Dio, perchè solo Lui può operare nell’uomo il miracolo della conversione, ciò che non è consentito ed è impossibile fare agli uomini.
L’uso di mezzi violenti per «forzare la mano a Dio» è esattamente quel peccato che, se ieri fu di Papa Carafa, oggi è fatto proprio dal giudaismo post-biblico che vede nello Stato di Israele l’agente messianico che con mezzi politici starebbe aprendo la strada alla ricostruzione del Tempio per «costringere» Dio a ricordarsi del Patto con Israele.
La preghiera, invece, è umile invocazione ed umile disposizione al «fiat Voluntas Tua».
Il cristiano non deve mai stancarsi di insistere nel chiedere a Dio la conversione di tutti gli increduli, anche degli ebrei, con un mezzo appropriato come è, appunto, la preghiera, perché gli è stato rivelato di «chiedere per ottenere», di «bussare per farsi aprire», di «cercare per trovare».
Al nostro Dio, lo conferma una innumerevole schiera di santi e mistici (basta leggerne le opere spirituali), piace essere pregato con umiltà, perseveranza, costanza e col cuore.
Solo a queste condizioni Egli concede le grazie che gli si chiedono.
Questo per il semplice fatto che tramite la preghiera, ed i sacramenti, si stabilisce un rapporto di Amore tra Creatore e creatura.
Quindi lungi, come pretende il rabbino Riccardo Di Segni (ne parleremo), dal semplicemente «rinviare» la conversione alle finali decisioni di Dio, è proprio quella promessa divina di finale conversione dei «fratelli maggiori» che sollecita una preghiera umile ed insistente in loro favore affinché Dio si degni di fare quel che ai cristiani, in quanto uomini, non è lecito fare con altri mezzi, giammai se violenti, ossia di sciogliere le bende che attualmente coprono gli occhi dei nostri fratelli ebrei.

Se questo deve essere il giusto approccio del cristiano nella preghiera per la conversione degli ebrei, non possiamo non rilevare che, come al solito, nelle parole del cardinale Kasper non è dato riscontrare la necessaria cristallina chiarezza in merito.
Infatti, il cardinale mischia alla giusta, irrinunciabile e doverosa «pretesa» dei cristiani alla preghiera per gli ebrei un eccesso di tattica diplomatica che cerca di nascondere dietro la, pur assolutamente condivisibile, asserzione che è Dio a stabilire i tempi ed i modi della conversione di chicchessia, compresi gli ebrei.
Secondo il nostro cardinale, infatti, con «la riformulata preghiera del Venerdì Santo, la Chiesa ripete l’invocazione del Padre nostro ‘Venga il tuo regno’ e l’acclamazione liturgica protocristiana ‘Vieni, Signore Gesù, vieni presto’ … (si tratta cioè) di preghiere per la venuta del Regno di Dio e per la realizzazione del mistero della salvezza» sicché «secondo la loro natura, - continua il cardinale - non sono un appello rivolto alla Chiesa a compiere un’azione missionaria verso gli ebrei … (perché esse) rispettano tutta la profondità abissale del ‘Deus absconditus’, della Sua elezione per grazia, dell’indurimento, come della Sua misericordia infinita. Con la sua preghiera la Chiesa, dunque, non assume la regia della realizzazione del mistero imperscrutabile. Non lo può affatto. Piuttosto mette del tutto il quando e il come di tale realizzazione nelle mani di Dio. Solo Dio può far sorgere il Suo Regno, nel quale tutto l’Israele sarà salvato e la pace escatologica toccherà il mondo (…) La Chiesa cattolica, a differenza di alcuni cerchi evangelicali, non conosce una missione verso gli ebrei organizzata e istituzionalizzata … (tuttavia) l’esclusione di una missione mirata e istituzionalizzata verso gli ebrei non significa che i cristiani debbano stare con le mani in mano: i cristiani devono, dove è opportuno, dare ai fratelli e alle sorelle maggiori nella fede di Abramo testimonianza della propria fede e della ricchezza e bellezza della loro fede in Cristo… sarebbe… disonesto se i cristiani nell’incontrare amici ebrei tacessero sulla propria fede o addirittura la negassero. Attendiamo altrettanto dagli ebrei credenti nei nostri confronti. Nei dialoghi che io conosco quest’atteggiamento è del tutto normale. Un dialogo sincero tra ebrei e cristiani, infatti, è possibile solo, da un lato, sulla base della comunanza nella fede nell’unico Dio, Creatore del cielo e della terra, e nelle promesse fatte ad Abramo e ai Padri, e, dall’altro, nella consapevolezza e nel rispetto della differenza fondamentale che consiste nella fede in Gesù quale Cristo e Redentore di tutti gli uomini».

Il cardinale Kasper, pur ribadendo che i cristiani devono testimoniare Cristo agli ebrei, afferma che tale testimonianza è da intendere solo in senso individuale ed esclude ogni forma di organizzazione missionaria verso i «fratelli maggiori».
Ora, questa ci sembra una tremenda ipocrisia.
Perché se è assolutamente vero che la Chiesa non può assumere la regia della realizzazione di un mistero imperscrutabile riservato solo al «Deus absconditus», non è esatto dire che Essa non possa servirsi di una missione istituzionalizzata verso gli ebrei, come del resto verso qualunque gruppo umano.
Ed infatti in passato la Chiesa ha approvato e praticato forme istituzionalizzate di apostolato per gli ebrei.
Non ci riferiamo certamente a quelle di Papa Carafa ma a confraternite che senza alcun ricorso a mezzi violenti o poco caritatevoli, anzi aborrendo tali mezzi, furono costituite per, innanzitutto, la pratica organizzata della preghiera pro judaeis e, poi, per l’apostolato attuato tramite la predicazione, non imposta, e le opere di carità.
Spesso tali confraternite furono fondate da ebrei convertiti e ansiosi per la conversione dei loro fratelli.
Di tal genere furono la confraternita di Alfonso Ratisbonne, che fu protagonista di una apparizione della Madonna a seguito della quale si convertì, o quella dei fratelli Lehmann, anch’essi ebrei convertiti.

La causa dell’ambiguità del linguaggio del cardinale trapela chiaramente dalle sue stesse parole quando afferma che gli ebrei di oggi, post-biblici, sarebbero «fratelli» nella stessa Fede di Abramo. Cosa assolutamente non vera perché, con San Paolo, noi cristiani non possiamo dimenticare che gli israeliti sono, al momento, «rami recisi» dall’Olivo santo, ossia dalla Fede di Abramo, e che dunque la loro attuale fede non è la stessa dei Patriarchi e Profeti veterotestamentari, adempiutasi definitivamente in Cristo (7).
Siccome è impossibile sostenere l’evidenza di una contraddizione oltre un certo limite, il cardinale è però costretto, alla fine, a riconoscere che tuttavia: «si deve certo essere consapevoli che il dialogo tra ebrei e cristiani resterà, per sua natura, sempre difficile e fragile e che esige in grande misura sensibilità da entrambi le parti».
Infatti, il cardinale sembra averlo dimenticato ma nel bel mezzo di quel dialogo vi è una «pietra di inciampo» che è Cristo stesso.

Luigi Copertino



1) Confonta il nostro «La teologia cristiano-sionista del cardinal Kasper» in www.effedieffe.com.
2) Confronta Gianluca Barile «Preghiera del Venerdì Santo, il cardinale Kasper ribadisce: ‘Nessuna intenzione di convertire forzatamente gli ebrei’«, in www.papanews.it. Barile riporta ampie citazioni di un articolo di Kasper apparso su l’Osservatore Romano. Noi le riprendiamo quasi integralmente a supporto del nostro commento.
3) Confronta «Il ghetto di Roma, quella ‘mezza prigione’ inventata dalla Chiesa per convincere gli ebrei a convertirsi. Ma sempre senza forzature. La storica Anna Foa: ‘Ripudiati i metodi violenti delle monarchie europee, lo Stato pontificio dal 1555 sperimentò una nuova strada per assorbire la minoranza interna’ », in Avvenire del 27/09/2007.
4) L’aiuto del Cielo arrivò con il Concilio Tridentino e si trattò davvero di un insperato intervento dall’Alto. Infatti, come riconoscono ormai tutti gli storici (confronta Vittorio Messori «Miracolo a Trento» in Jesus, ora in www.et-et.it), quel Concilio, da cui uscì una Chiesa davvero riformata in senso cattolico (tanto che oggi gli storici parlano di Riforma Cattolica e non più di Controriforma), dopo essere stato rinviato per molte volte, iniziò in sordina e sotto i più nefasti presagi di fallimento. Ed invece, contrariamente a tutte le umane e tristi aspettative, il Concilio Tridentino produsse «miracolosamente» documenti fondamentali e riaffermò la Fede cattolica nella sua purezza e nella sua radice spirituale indefettibile. Ma nessuno all’epoca, quando esso iniziò con una stanca processione di pochi vescovi diretta nel duomo di Trento, avrebbe scommesso un soldo su quella assemblea ecclesiale, che invece riuscì nell’impossibile impresa, a viste umane, di salvare letteralmente una Chiesa ridotta ai minimi termini, in pietose condizioni spirituali e morali, la quale, come nel sogno di qualche secolo prima di Innocenzo III a proposito di San Francesco reggente le oscillanti colonne della Chiesa, anche nel XVI secolo traballava da tutte le parti.
5) Va detto, en passant, che il «ghetto», come ormai riconoscono gli storici, non fu una invenzione dei «cattivi» cristiani per angariare i «poveri» ebrei. Sin dall’antichità pre-cristiana gli ebrei della diaspora, sparsi per tutto il bacino mediterraneo, usavano riunirsi in propri quartieri come del resto è tendenza tipica, anche oggi, di qualsiasi gruppo umano: si pensi alle varie Chinatown o alle Little Italy negli Stati Uniti o altrove. Ad Alessandria d’Egitto, ad esempio, greci, egizii ed ebrei si erano suddivisa la città per quartieri accordandosi per l’uso comune del porto. Più tardi vi si aggiunse il quartiere cristiano. Nel medioevo nelle città vicino-orientali esistevano quartieri diversi e separati per ebrei, cristiani e mussulmani. Anzi, l’acquartieramento cristiano si differenziava poi a seconda della confessione: cattolica, ortodossa, armena, caldea, etc.. Questa, e non altra, è l’origine dei ghetti ebraici e, se le altre popolazioni finirono con il tempo per mescolarsi confondendo l’urbanistica delle città, il fatto che i ghetti ebraici persistettero fino alla Rivoluzione Francese fu dovuto principalmente al tipico esclusivismo nutrito da questo popolo nei confronti dei gentili e solo secondariamente alla reazione stizzita che tale separatismo ebraico, per niente celato, suscitava negli altri popoli. Quando, con il 1789, giunse l’emancipazione, proprio il rabbinato non ne fu affatto entusiasta vedendo in essa profilarsi il pericolo dell’assimilazione e della perdita di controllo sulla popolazione. Ed in effetti nel corso del XIX secolo la maggior parte degli ebrei si assimilò alle società nazionali, che li ospitavano, al punto da non sentirsi più ebrei ma francesi, tedeschi, italiani e di farsi punto di onore della fedeltà alla patria. Questo spiega, ad esempio, perché le fila del fascismo furono fin dall’inizio, e persino dopo il 1938, piene di ebrei italiani fieri della loro italianità ed assolutamente ostili alla propaganda sionista, verso la quale, tuttavia, Mussolini non era insensibile perché nel sionismo, come anche nel nascente arabismo, egli vedeva un’arma della politica italiana anti-inglese nel Mediterraneo. Il duce, sulla base di questa sua visione strategica, permise al sionista filofascita Jabotinski di installare ed allenare le proprie milizie, che poi costituirono nel dopoguerra il nucleo originario della marina israeliana, presso la scuola navale di Civitavecchia.
6) Sul fondamentalismo religioso-razziale come segreto nucleo originario del sionismo, occultato dietro le parvenze di un’ideologia nazionalista di stampo illuministico-romantica, si veda il saggio di Domenico Losurdo «Che cos’è il fondamentalismo?» in Avallon - l’uomo e il sacro, anno 2005, numero 54, Rimini.
7) Per una chiara esposizione della continuazione/adempimento tra ebraismo veterotestamentario e fede cristiana, e della rottura tra il primo ed il giudaismo post-biblico, che è adulterazione della fede ebraica, rimandiamo al nostro «La Fede di Abramo e la Nostra Aetate» in www.effedieffe.com.


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