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Attacco al Motu proprio: da Martini a Jesus (Parte III)
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Parte da Jesus, il mensile dei Paolini, fratello minore di Famiglia cristiana (qualcuno - non ricordo chi, ma so perchè - lo ha soprannominato «Fanghiglia cristiana»…) l’attacco più recente e più duro al «Motu Proprio Summorum Pontificum», con un dossier che da solo in tempi civili sarebbe valso almeno una scomunica.
Titolo del dossier, contenuto nel numero di maggio: «Il Vetus che avanza», una provocazione che fa il verso a «il nuovo che avanza», slogan coniato per celebrare la «Milano da bere» prima e il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica poi.
La presentazione del Documento Pontificio è fin dall’inizio settaria: lo si presenta come «voluto da papa Benedetto XVI per riportare in comunione con Roma i lefebvriani».
Non è essenzialmente così, perché in realtà nella lettera ai vescovi il Papa dice quello che già da cardinale aveva più volte affermato, a partire da quanto scrisse nell’autobiografia «La mia vita» del 1997: «Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipenda in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita come se in essa non importasse più se Dio c’è e se ci parla e ci ascolta».

Nel libro-intervista con il giornalista tedesco Peter Seewald («Dio e il mondo», 2001), Ratzinger tornava ancora a criticare gli abusi della riforma postconciliare, chiedendo ai confratelli vescovi di essere più tolleranti con i fedeli che chiedono la Messa col vecchio rito come previsto dall’indulto di Papa Wojtyla (ricordo che le condizioni per l’uso del «Vetus Ordo» erano prima del «Motu proprio», stabilite dai documenti «Quattuor abhinc annos» e «Ecclesia Dei», oggi di fatto abrogati).
Così col «Motu Proprio» egli, prima ancora che lanciare un ponte verso il mondo tradizionalista, chiarisce che anche «molte persone, che accettavano chiaramente il carattere vincolante del Concilio Vaticano II e che erano fedeli al Papa e ai vescovi, desideravano tuttavia anche ritrovare la forma, a loro cara, della sacra Liturgia; questo avvenne -  prosegue il Papa - anzitutto perché in molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo Messale, ma esso addirittura veniva inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile. Parlo per esperienza, perché - chiarisce Ratzinger - ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della Liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa».

Il fine primario del «Motu Proprio» non è dunque essenzialmente quello di «recuperare» i lefebvriani (che - sia detto- non sono, né si sono persi!), quanto quello di salvare la Messa cattolica. L’ibridazione che il «Novus Ordo», specie col tempo, ha realizzato con la «cena protestante», la perdita progressiva della dimensione sacrificale della Messa, lo svilimento della sua dimensione anagogica, il proliferare di abusi hanno indotto il Papa a porre le premesse per una trasfusione di sacralità dal vecchio al nuovo rito in vista di loro riavvicinamento e di quella che taluni chiamano già la «Riforma della Riforma»: «Le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda: nel Messale antico potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi. La Commissione ‘Ecclesia Dei’ in contatto con i diversi enti dedicati all’‘usus antiquior’ studierà le possibilità pratiche. Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso».
Contro la «Messa fai da te», Joseph Ratzingre da cardinale ci aveva provato più volte a riportare ordine, scrivendo per Papa Giovanni Paolo II nel 2003 la Lettera enciclica sull’Eucarestia dal titolo «Ecclesia de Eucharistia» e lavorando con il cardinale Arinze alla stesura dell’Istruzione «Redemptionis sacramentum - Su alcune cose che si devono osservare ed evitare circa la Santissima Eucaristia».
Fatica sprecata.
Da Papa ci aveva riprovato con la Esortazione Apostolica Postsinodale «Sacramentum caritatis».
Risultato vicino allo zero.
I documenti del Magistero preti e vescovi non se li sono neppure letti.
Hanno tirato dritto per la loro strada.
Quanto ai fedeli, oramai, a Messa è già molto se ci vanno.
Questa volta con il «Motu Proprio» il Papa ha alzato il tiro.
Qualcuno ha scritto: la ricreazione è finita.

I vari vescovi e porporati, fin qui sordi agli inviti del Pontefice, questa volta hanno dovuto almeno uscire allo scoperto: l’ala progressista, Martini in testa, ha detto di no e si è messa di traverso.
Dietro di lui uno stuolo rumoroso di ecclesiastici, teologi, preti e pretonzoli si è ammassato a fare diga contro il «Vetus che avanza».
Questa chiamata alle armi non deve stupire.
Chi crede al valore salvifico della Santa Messa, all’efficacia di grazia che nel Suo Sacrificio eternamente offerto viene sempre riattualizzata, sa che questa è l’unica arma vera contro l’irrompere delle forze del male nella Chiesa e nel Mondo.
Naturale che coloro i quali cercano invece il «dialogo con il Mondo» non siano disponibili ad usare «l’arma decisiva» e abbiano fatto di tutto per riporla negli arsenali della archeologia liturgica!

La drammaticità con la quale il Pontefice guarda all’ora presente fa capire perché, contro il degrado della Santa Messa, unico efficace rimedio (unitamente alla preghiera contro la «dissoluzione della realtà»), il Papa non si sia limitato alle reprimende e alle esortazioni, cioè ai pannicelli caldi: questa volta ha richiamato in servizio la Tradizione cattolica, ovvero il Sacrificio della Messa.
I suoi avversari più pericolosi, quelli intra moenia, questa volta hanno capito che il Papa faceva sul serio, perché nella logica del «lex orandi, lex credendi», ciò non potrà che significare dopo il ritorno della Messa di sempre (un’espressione urticante per i  neomodernisti) il ritorno della Fede di sempre. Non è una previsione, è una certezza per chi crede nell’efficacia e nella potenza del Sacrificio. Quella Messa è l’unico rimedio efficace, «fonte e culmine» di rinascita della vita cristiana e della Chiesa cattolica.
A Jesus non sono stupidi.
Per attaccare il «Motu Proprio» anzitutto hanno dato la parola ad una donna e già questa è una scelta specifica: Vittoria Prisciandaro, l’autrice del pezzo introduttivo e di quello durissimo di attacco ai tradizionalisti, è la direttrice responsabile di «Servir», mensile dell’Associazione Centro Astalli per l’Assistenza agli Immigrati, che è il servizio dei Padri Gesuiti per i Rifugiati, presente in circa 50 Paesi nel mondo.
Il «taglio» è facilmente intuibile: ecumenismo, interculturalità, intergrazione.
La scelta del titolo del dossier di Jesus (Il vetus che avanza) potrebbe essere specificamente suo, perché ci sta con il personaggio della Prisciandaro.
Frequentemente le piace nei titoli servirsi di slogan o titoli famosi di film.

A metà tra «Ballando con uno sconosciuto» e «Ballando coi lupi» si situa, ad esempio, il suo «Ballando con Allah», un articolo in cui descrive così le pratiche dei dervisci danzanti, tanto cari a Franco Battiato: «La preghiera coranica inizia, dolce e litanica. Poi cede il passo al canto malinconico del flauto di canna, il ney. Una quindicina di giovani prendono posto al centro della sala circolare. Sono raccolti, concentrati come si conviene agli officianti di una sacra liturgia. Un anziano dai capelli bianchi li accoglie, si inchina e guida i loro passi. E’ il sey, il maestro, che accompagna il viaggio spirituale verso Dio. La musica diventa corale. Si moltiplicano i flauti, si aggiungono i tamburi e una viola fa da contrappunto alle voci maschili. Saranno una cinquantina i protagonisti di questa cerimonia antica dal fascino indiscusso. E’ il Sema, la preghiera dei dervisci danzanti, nata dalla mistica dell’Islam, il sufismo, e filtrata attraverso l’ecumenismo ante litteram di Celaddin Rumi, il poeta filosofo chiamato Mevlâna (‘la nostra guida’). Contemporaneo di Francesco di Assisi, in qualche modo il saggio vissuto nelle steppe dell’Anatolia ne richiama il messaggio di shalom universale, la regola della carità, l’invito all’accoglienza senza giudizio. Non sarebbe dispiaciuto al ‘poverello’ ritrovarsi fianco a fianco con i ‘mendicanti’, termine persiano da cui proviene la parola dervisci. ‘Vieni, ritorna, chiunque tu sia, vieni / Non importa se sei un infedele, un idolatra o un adoratore del fuoco / Vieni, anche se hai infranto il tuo giuramento cento volte, vieni lo stesso / La nostra non è la porta della disperazione e del tormento / Vieni’».
Capite da soli che quando si assimilano il dissolvimento estatico della coscienza, propria di questa pratica (ma anche delle orge rituali, o no?), con la mistica del povero San Francesco, il resto viene di conseguenza.
Ma tant’è, questo - è proprio il caso di dirlo - passa oggi il convento.

Dunque a Vittoria Prisciandaro hanno dato l’incarico di demolire il «Motu Proprio» e lei ha deciso di farlo con una tattica astuta, invertendo i ruoli e proclamando: «la Tradizione siamo noi».
E’ l’idea più volte espressa da Alberto Melloni, erede di Alberigo e della «Scuola bolognese», che citando  il padre Congar, afferma ad esempio che «c’è una ‘Tradizione’ maiuscola, che preserva ed affina l’intelligenza della verità, e c’è invece una ‘tradizione’ con la minuscola, che è fatta di approssimazioni nostalgiche con le quali qualche anima vecchia rimpiange modi d’essere della propria gioventù e piange calde lacrime per quella che - al massimo - può essere solo una ‘tradizione’. Al contrario la ‘Tradizione’ in senso forte è fatta di scelte, di intuizioni del tempo e della storia, di discontinuità storiche imboccate coraggiosamente proprio per evitare che, in nome di qualche illusoria perpetuazione, si perda il contenuto più profondo della verità cristiana» (1).
Per dire in maniera più ammiccante le stesse cose, la Prisciandaro ha deciso di liquefare il «Vetus Ordo» nella post-modernità.
Con un’immagine da «Vanity Fair»  ha unito il ritratto del giovane prete attratto dalla liturgia preconciliare («talare, racchetta da tennis sotto il braccio, Messa in latino in parrocchia e, a seguire, happy hour con gli amici»), rubandola all’analisi di François Cassingena, per sposarla con una cultura e un modo postmoderno di sentire la fede e scrivendo: «Secondo il teologo francese, quello di Pio V è un Messale rigorosamente individualista, in sintonia con il sentire di oggi, mentre quello di Paolo VI  ha un approccio comunitario, e per questo più antico».

Badate alla sottigliezza: la vera Tradizione è il Concilio Vaticano II, l’antitradizione sono ad un tempo la post-modernità e il pre-concilio.
Vi prego di notare come è sottile il modo di pervertire la realtà: siccome la post-modernità è individualista, mentre il mondo tradizionale era comunitario, essendo il «Novus Ordo» comunitario esso è tradizionale.
Sarebbe come dire: siccome Dio è immortale, mentre la scimmia è mortale, essendo la Prisciandaro mortale (almeno lo spero!), la Prisciandaro è una scimmia.
Ora non so cosa ne pensi la giornalista  di Jesus, ma il primate è offesissimo e - devo dire - non senza ragione.
Anche perché, rimanendo nella zoo-teologia, la nostra chiama in causa Andrea Grillo, docente di Liturgia al Pontificio ateneo Sant’Anselmo, che, riprendendo alcune considerazioni in base a cui il favore verso l’antico rito esprimerebbe una nuova forma di appartenenza e di identificazione sociale, sentenzia: «Si dà forma a percorsi individualistici o privatistici: il gruppo si autoisola dalla comunità perché celebra secondo un regime rituale diverso, rinunciando a tutta la ricchezza biblica del nuovo lezionario, alla preghiera universale quotidiana, all’unità delle due mense, alla concelebrazione, alla comunione sotto le due specie».

Insomma, dice Grillo, «C’è un problema per una pastorale dell’unità. Si potrà anche dire che i fedeli fanno parte della stessa Chiesa, ma di fatto vengono alfabetizzati da liturgie che tra di loro sono in un rapporto di tensione, perché la seconda è nata per correggere la prima».
Ignora forse il Grillo parlante che il «Vetus Ordo» ha qualche annetto in più di consolidato liturgico rispetto alle sperimentazioni post-conciliari e soprattutto che il «Novus Ordo» è una riforma che ha tradito, prima che la Tradizione, lo stesso Concilio Vaticano II, il quale per esempio prescriveva nella Sacrosantum Concilium che:
- regolare la sacra liturgia compete unicamente all’autorità della Chiesa;
- di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica;
- non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti;
- l'uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini.
Dato però che, sia nella Messa che nell’amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l’uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti.
Non si parlava di altare girato verso il popolo, né di altre sperimentazioni, innovazioni, aggiornamenti, contestualizzazioni, amenità, bonghi e maracas, che siamo stati costretti a subire domenicalmente e di cui i liturgisti si riempiono la bocca ed il portafoglio coi sussidi liturgici imposti nei seminari e nei corsi di formazione.

Nell’articolo della Prisciandaro le presunte «difficoltà nell’interpretazione e nell’applicazione del ‘Motu proprio’ » vengono enfatizzate e… indovinate qual è la più evidente?
Naturalmente «il fatto che il ripristino dell’antica liturgia avrebbe mandato a rotoli 40 anni di dialogo ebraico-cristiano, riproponendo la preghiera universale del Venerdì Santo in cui si pregava per la conversione degli ebrei».
Siamo alle solite.
Dovremmo forse rinunciare alla Santa Messa di sempre, perché rammenta il Sacrificio di redenzione e il fatto che autorità ebraiche coi loro seguaci misero a morte Nostro Signore? Dovremmo forse dimenticare che proprio quella Messa ci esorta a rinnovare la oramai abbandonata «Missio ad Haebraeos»?
Aperti e tolleranti con tutti, dai danzatori di Allah ai «Fratelli maggiori», dal Dalai Lama, ai riti Vudù, sul «Vetus ordo» le vestali di Jesus riscoprono l’omogeneità.

Citando Basilius Groen, olandese, direttore dell’Istituto per la liturgia, l’arte cristiana e l’innologia dell’Università di Graz, in Austria, veniamo messi in guardia circa il rischio «che ci si trovi di fronte a due modelli ecclesiologici diversi: il primo è centrato sul prete, per l’altro è fondamentale la partecipazione della comunità».
E per marcare la differenza Groen richiama il documento preparatorio del Messale di Trento che inizia con la frase «Sacerdos paratus» («quando il prete è pronto»), mentre il testo della liturgia di Paolo VI apre con «Populo congregato», («quando l’assemblea è riunita»).
Bisognerebbe ricordare che il «Populo congregato» senza il «Sacerdos paratus» può, a seconda delle locali tradizioni gastronomiche, imbandire ottime tavole ed organizzare le più svariate pastorali dello «gnocco fritto» o della «piadina alla rucola», ma non celebrare il Santo sacrificio della Messa.
A meno che il liturgista olandese non intenda fare proprie ed estendere a tutto il corpo ecclesiale la cancrena che nella terra dei tulipani i domenicani, con il consenso dei provinciali dell’ordine, hanno generato e cioè la distribuzione in tutte le 1.300 parrocchie cattoliche di un opuscolo di 38 pagine intitolato «Kerk en Ambt» («Chiesa e ministero»), nel quale propongono di trasformare in regola generale ciò che in vari luoghi già si pratica spontaneamente, vale a dire: «in mancanza di un prete, sia una persona scelta dalla comunità a presiedere la celebrazione della messa… Non fa differenza che sia uomo o donna, omo o eterosessuale, sposato o celibe».
La persona prescelta e la comunità sono esortati a pronunciare insieme le parole dell’istituzione dell’eucaristia: «Pronunciare queste parole non è una prerogativa riservata al prete. Tali parole costituiscono la consapevole espressione di fede dell’intera comunità».

Il professor Groen - citato dalla Prisciandaro - rivendica la missione dei teologi di fare sul serio il proprio lavoro: «Non siamo infallibili, ma abbiamo il dovere di esercitare una funzione profetica di controllo critico al servizio della Chiesa».
La precisazione che non fossero infallibili non era necessaria: ce ne eravamo accorti.
Per il resto, specie dopo il Vaticano II e la riscoperta del ruolo dei laici, anche noi sentiamo forte il dovere di esercitare una funzione profetica di controllo critico al servizio della Chiesa: noi la chiamiamo tradizionalmente, semplicemente ed evangelicamente «correzione fraterna».
Direi che per cominciare il legno di pioppo può andare benissimo…

(3 continua)


Domenico Savino




1) Il Corriere della Sera, 22 novembre 2005, pagina 41, «Elzeviro: Il Concilio di Trento», di Alberto Melloni.


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