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Il grande panico dell’anno 33
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Il grande panico finanziario si diffuse a Roma durante il diciannovesimo anno del principato di Tiberio, «Galba et Sulla consulibus». Ma – come accade in questi casi – la prima crepa s’era manifestata qualche mese prima, in distanti empori orientali dell’impero. Ad Alessandria, la ditta di armatori Seuthes & Figli aveva perso tre navi cariche di spezie in una tempesta del Mar Rosso: un capitale enorme, in gran parte raccolto a credito, sicchè fu chiaro che la ditta era sul punto di fallire.

Poche settimane dopo, i grandi produttori di tessuti in porpora Malchus & Co. (sede centrale a Tiro, fabbriche ad Antiochia e ad Efeso) improvvisamente fecero bancarotta – causa, si disse, uno sciopero dei suoi lavoranti fenici, e un ammanco di un dirigente infedele – e cessarono di pagare i creditori. Fra questi, la grande casa bancaria romana Quinto Massimo & Lucio Vibone; si sparse la voce che tale banca era pesantemente esposta anche coi Seuthes, a cui aveva concesso vasti prestiti.  Immediamente i depositanti bussarono alla Massimo & Vibo per recuperare il loro denaro. Incapace di far fronte alle richieste, la banca chiuse. La sfiducia si diffuse come un lampo anche alla finanziaria Fratelli Pettius, noti per i loro stretti rapporti di prestiti reciproci alla Massimo & Vibo, e anche i Pettius furono subissati da richieste di ritiro dei depositi, a cui non poterono far fronte; nel pomeriggio, anche i Pettius chiusero gli sportelli.

Il lettore potrà credere, non a torto, che questo linguaggio finanziario moderno sia inadatto a descrivere la realtà del credito nel mondo antico. Molti storici hanno negato che a Roma esistessero banche moderne (e tanto meno sportelli e semplici depositanti risparmiatori); i grandi prestatori non facevano crediti di finanziamento, ma piuttosto anticipi monetari, con lo scopo di partecipare a colpi speculativi lucrosissimi anche se rischiosi, come appunto le società di persone che si univano per finanziare un carico navale di spezie o sete asiatiche, specialità dei Seuthes di Alessandria. Vero.

È notorio che i senatori romani, miliardari, praticavano l’usura (lo faceva anche Bruto, il congiurato che uccise Cesare) e si occupavano di ogni genere di affari, in cui impiegavano le loro vaste liquidità. Nella letteratura come nelle iscrizioni funerarie sono frequenti le compiaciute dichiarazioni di un riccone che si dichiara «ricco di terreni, ricco di denaro prestato a interesse» («dives in agris, dives positis in fenore nummis»), come del senatore che scrive: «Ho praticamente investito tutto in beni immobili, ma presto qualcosa ad interesse» («sum prope totus in praediis, alquid tamen fenero»). Un mercante di Brindisi ha voluto lasciare scritto sulla sua tomba una lode alla Fides, grazie al quale, rovinatosi tre volte, tre volte ha potuto riprendersi («Alma Fides, tibi ago grates; fortuna infracta, ter me fessum recreasti»). La Fides qui sta chiaramente per Credito, sia il credito personale di cui godeva il brindisino presso i prestatori, sia il credito bancario in sè, la cui stessa esistenza ha consentito al brindisino di risollevarsi tre volte.

Tutto ciò suggerisce, se non un sistema bancario, un sistema complesso e interconnesso di banche daffari pronte a cogliere occasioni; qualcosa che duemila anni dopo, sulle rive del Tamigi, sarebbe stato chiamato merchant banking e joint venture. Nè bisogna credere che vi si interessassero solo i miliardari.

«A Roma, in realtà, tutti, aristocratici o comuni mortali, erano creditori; chiunque disponesse di liquidità cercava di piazzarla ad interesse», scrive lo storico Paul Veyne. Per i poveri del resto, l’indebitarsi doveva essere parte della vita di espedienti con cui s’ingegnavano a sbarcare il lunario: così il bottegaio di cibi cotti, se arrivavano avventori, mandava di corsa il servo a procurarsi la trippa o le frattaglie occorrenti dal grossista macellaio (quello che era in grado di comprarsi un quarto di bue), naturalmente a credito. Avrebbe restituito con gli interessi quando i clienti avrebbero pagato il conto, il giorno stesso.

A tutti i livelli operavano intermediari, proxenetae o pararii, che mettevano in rapporto prestatori ed aspiranti debitori. Se non era un sistema bancario maturo, ne possedeva però almeno un carattere fatale: l’interdipendenza e l’interconnessione, che raggiungeva distanze sorprendenti.

Così, si sa che i Pettii sopra nominati, grande istituto bancario, avrebbero potuto far fronte facilmente alle loro obbligazioni, se solo avessero potuto realizzare, ossia rendere liquidi, altri loro ragguardevoli attivi e investimenti. I Pettii, per esempio, avevano prestato milioni alla nobiltà dei Belgi nel Nord delle Gallie; un investimento tranquillo in tempi tranquilli, che rendeva ottimi interessi; molto simile ad investimenti in Paesi sconosciuti, come Indonesia o Thailandia, che vengono oggi consigliati dai promotori ai risparmiatori. Solo che una minaccia di rivolta in quella lontana colonia aveva consigliato il potere romano di sospendere là i processi per debiti, il solo modo per realizzare. Sicchè i Pettii chiusero, ossia fallirono. E il panico si estese a tutte le altre  banche d’affari dell’impero.

Del resto, in realtà, la liquidità aveva cominciato a scarseggiare da anni. Augusto aveva coniato e speso in abbondanza, consapevole che l’abbondanza del circolante con le sue conseguenze – bassi tassi d’interesse e inflazione – stimolavano l’economia. Ma allora lo Stato non stampava monete di carte, doveva coniare moneta reale in bronzo, argento ed oro; sicchè, alla morte d’Augusto, il nuovo imperatore Tiberio trovò vuote le casse del Tesoro. Per cui non solo dovette limitare l’emissione di nuove monete, ma ridurre le spese di Stato: con questa misura, minò uno dei principali motori (e mezzi di arricchimento favoloso) dell’economia romana, quella degli appalti pubblici per la fornitura delle legioni e dell’annona, aggiudicati per lo più dietro bustarelle, che producevano profitti immensi a chi era già ricco: come il panettiere industriale Eurisace la cui tomba lussuosa sorge ancora sull’Appia, o il venditore di pelli di capra (immagino per gli scudi dei soldati), che col ricavato si aggiudicò l’appalto di qualche imposta indiretta («solvi semper fiscalia manceps»).  Posizioni e mani assai forti nell’economia si trovarono dunque da un giorno all’altro prossimi, se non all’insolvenza, alla illiquidità.

Era nozione comune che la scarsezza del circolante era aggravata dalla fuga di capitali – o piuttosto dall’emorragia di moneta pregiata verso l’Asia per l’acquisto di generi di lusso. In India e in Cina non c’era mercato per i manufatti prodotti nell’area economica romana; queste gigantesche economie autosufficienti (o le cui masse erano prive di potere d’acquisto) non avevano interesse per il vasellame semi-industriale, tegole prodotte in serie, tessuti correnti, ferrami o gli altri oggetti di massa, forniture da ceto medio che potevano offrire i mercanti romani. In altre parole: non c’era interscambio. Cina e India cedevano i loro incensi, il sandalo, le mussole di seta, la curcuma, il pepe e la cannella solo in cambio di moneta d’oro. Quanti più aurei coniavano le zecche imperiali, tanto più velocemente essi si volatilizzavano fuori dal pur vasto mercato comune romano (monete d’oro romane sono state trovate fin nel delta del Mekong), uno sterile impoverimento del sistema.

Con l’intenzione di frenare tale esportazione di capitali, e forse anche di rialzare le sorti dell’agricoltura italiana da gran tempo rovinata dalla concorrenza egiziana e schiavista, il Senato (certo con l’assenso dell’imperatore), decretò per legge che ogni senatore – sotto minaccia di gravi pene – doveva investire un terzo della sua fortuna in terreni in Italia. Un provvedimento analogo a quello odierno in cui la Banca Centrale ordina un aumento delle riserve obbligatorie delle banche commerciali, o al Basilea 3 imposto alle banche europee, e su quei banchieri-senatori ebbe lo stesso effetto: restrizione generale del credito. Per comprare i terreni, i senatori furono obbligati a procurarsi liquidità chiedendo il rientro immediato dei loro prestiti privati ai vari loro debitori, e i depositi che avevano nelle banche. Quando il senatore Publio Spintere chiese alla banca Balbo & Ollio di ritirare 30 milioni di sesterzi (1) che vi aveva investito, la casa dichiarò bancarotta.

In pochi giorni sospese i pagamenti una solida finanziaria a Cartagine; due banche di Lione  annunciarono la temporanea chiusura per «unaccurata revisione della contabilità», fallì una banca di Corinzio, e poi una di Bisanzio: il noto effetto domino era in corso, fra la sorpresa e lo sgomento della classe danarosa (ed usuraria), inconsapevole fino a quel momento del grado di interdipendenza del sistema che essi stessi avevano creato. Questa classe reagì, raccconta Tacito (Annali, libro 6), «trascinando i debitori in giudizio per recuperare in pieno i prestiti», ossia pretendendo la restituzione del capitale principale – a cominciare dai debitori delle città provinciali italiane, ai quali prima, e in tempi normali, i debiti venivano rifinanziati senza problemi, preferendo gli usurai il flusso permanente dei lauti interessi (l’interesse legale era del 12% quello reale molto superiore). In tempi normali, la querela per debiti bastava ad ottenere recupero, «essendo poco rispettabile per una persona denunciata – dice Tacito – rompere la parola data» (o fides): di norma, i debitori ricorrevano ad amici del loro ambiente (la amicitia romana era un preciso insieme di obblighi reciproci, una rete protettiva di ogni individuo, tanto più vasta quanto questo era solvibile e influente), oppure, se clientes di qualche personaggio importante, a questi patroni per farsi prestare il denaro – indebitandosi ulteriormente – onde far fronte alla pretesa del querelante. Questa volta, il meccanismo si inceppò: amici e patroni erano parimenti a corto di liquidi, e subissati a loro volta da richieste di rientro.

L’ufficio del pretore, nel foro, fu assediato da una inverosimile folla rumoreggiante, dove i debitori – spesso venuti dalla provincia – proclamavano la loro impossibilità di pagare, e i creditori esigevano, a forza di legge, il pignoramento e l’immediata messa all’asta dei beni mobili e immobili dei primi. Gli uni e gli altri accompagnati da avvocati e dai loro testimoni, vocianti e minacciosi. Il pretore e i suoi delegati moltiplicavano gli ordini d’asta, che a memoria d’uomo rappresentavano il rimedio estremo, ma efficace, ai problemi di insolvenza. Ma stavolta, si constatò che le aste andavano deserte, nonostante ville, case d’affitto a Roma (insulae), terreni, cavalli e bestiame fossero offerti a prezzi irrisori; nessuno aveva abbastanza denaro da approfittare dell’affare.

Scrive Tacito, che apparteneva alla classe senatoria: «Il meccanismo stesso, concepito come rimedio, la compravendita (allasta) di immobili, si mostrò controproducente, in quanto gli usurai avevano accaparrato tutto il loro denaro per acquistare la terra. Si produsse una caduta dei prezzi, sicchè più gravemente uno era in debito, più era riluttante a separarsi dalla sua proprietà (ad un prezzo tanto basso). Molti perciò furono completamente rovinati. E la distruzione di ricchezza privata preecipitò la caduta di rango e di reputazione».

Ecco il punto: per restare nella classe senatoria (e dunque nella carriera politica) occorreva avere una rendita di almeno 2 milioni di sesterzi l’anno; e chi non raggiungeva i 400 mila, decadeva dalla classe equestre, l’alta borghesia degli affari e degli appalti, ma anche delle cariche amministrative al servizio della corte.

Il grande panico finanziario e l’imprevisto prosciugamento del credito minacciava dunque l’esistenza stessa della classe al potere. Il Senato dunque si risolse ad una decisione incresciosa per i senatori, che si piccavano di governare autonomamente gli affari correnti, in competizione col potere imperiale (da essi mai accettato fino in fondo); chiedere soccorso all’imperatore. Furono mandati delegati a Capri, dove risiedeva Tiberio.

La risposta, e la soluzione, fu pronta ed efficace, e rivela l’eccezionale competenza e intuizione degli uffici imperiali. Tiberio stanziò 100 milioni di sesterzi dal tesoro (una cifra tutto sommato modesta rispetto ai 2,7 miliardi accumulati dal Tesoro imperiale) e li distribuì alle banche più solide, con la disposizione di prestarli per tre anni senza interesse (2) ai debitori in più urgente bisogno; per ottenere quel denaro, le banche dovevano dare in garanzia terreni di valore doppio; valore fittizio su immobili invendibili nel momento di panico, ma in cambio ottenevano liquidità a interesse zero.

Da questa iniezione di liquidità, anche i prestatori privati (usurai, senatori, appaltatori...) furono forzati ad abbassare i loro tassi d’interesse, che erano schizzati alle stelle; gradualmente la fiducia tornò, e si tornò a prestare e ad indebitarsi come prima. Ovviamente, il principe sospese anche la legge che obbligava i senatori all’investimento obbligatorio in terreni, che aveva innescato la crisi.

Una misura che Tacito commenta in questo modo significativo: «... Lacquisto (obbligatorio) di terreni non fu applicato secondo la lettera del decreto senatorio, il rigore iniziale divenendo col tempo negligenza, come accade in queste cose». Insomma il senatore Tacito mette a carico del malgoverno quella che in realtà fu una benefica disapplicazione di un provvedimento errato. Nè questo intervento accrebbe la popolarità di Tiberio, che era bassa fra i senatori ma anche – più sorprendentemente – fra il popolo dell’Urbe, alienato dalla politica di austerità del principe, e dalla sua ostentata distanza dai piaceri popolari, che manifestava per esempio col non presenziare ai giochi del circo. Nel 37, quando il vecchio imperatore morì (pare, strangolato), il popolo romano scese in piazza gridando: «Tiberius ad Tiberim!», «Tiberio nel Tevere!».

Il grande panico finanziario accadde, e fu sedato, nel 33 dopo Cristo: anno indimenticabile nella storia ma, sappiamo, per un altro evento avvenuto nella lontana e oscura Palestina (3).




1) Il sesterzio era adottato come unità di conto, benchè fosse a quel tempo una moneta di bronzo di valore modesto (un quarto di denaro d’argento). Il suo potere d’acquisto è difficile da stabilire: da una parte, lo stipendio annuo di un soldato semplice era di 900 sesterzi, ciò che veniva considerato un salario decente. Dall’altro, una scritta a Pompei dà il prezzo di vendita di uno schiavo a 6.252 sesterzi; mentre a Londinium, la lontana Londra, nel primo secolo una schiava fu venduta per 600 denari, pari a 2.400 sesterzi.
2) Questo prestito senza interesse da parte delle casse imperiali fu la misura risolutiva. Coloro che oggi si chiedono, ipocriti, come mai la Grecia non esce dalla crisi nonostante le generose iniezioni di liquidità degli altri Paesi e di banche europee, fanno finta di dimenticare che i generosi soccorritori, per prestare denaro ad Atene, pretendono dal 14% al 25% di interesse (per i titoli greci a due anni). È chiaro che con questi interessi schiaccianti, la Grecia non riuscirà mai a sollevare la sua economia in modo da diventare solvibile. Si noti, per contrasto, che le Banche Centrali forniscono alle loro banche insolventi – insolventi come la Grecia – denaro liquido all’1% di interesse. Sono spesso queste banche che usano questo denaro che costa loro l’1% a comprare titoli di debito greci al 14% o al 25%. Naturalmente, non viene in mente alla BCE di imitare Tiberio, stroncando insieme la speculazione e l’abisso del debitore greco. Eppure sono tutti allarmati: un default di Atene, dicono alla City, può trascinare con sè nell’abisso l’Irlanda; un default della Grecia, ha dichiarato Greensoan, provocherà un’altra recessione negli Stati Uniti. Nessun esperto propone tuttavia la temporanea distribuzione di liquidità a interessi zero. Chissà come mai.
3) Ancor quasi un secolo dopo, l’esecuzione di un oscuro fanatico religioso a Gerusalemme da parte del procuratore Pilato era fumosamente malnota a Tacito, quando lo storico chiama il crocifisso «Cresto». Ma era ben nota agli uffici imperiali, se si dà fede a Tertulliano secondo cui Tiberio voleva dichiarare il primo cristianesimo «religio licita»; a questa misura si oppose il Senato per ottuso puntiglio, essendo la legittimazione di culti esteri una prerogativa senatoria; l’effetto fu il fatale senatoconsulto, che recitava «Non licet esse christianos», che legittimò le future persecuzioni, a cominciare da quella di Nerone. Tiberio non potè far altro che opporvi il suo veto, che rendeva inoperante il senatoconsulto solo durante il suo regno: è probabilmente questo veto a cui allude San Paolo, quando parla del katechon, «qualcosa che frena lAnticristo», il che però «sarà tolto di mezzo», evidentemente con la morte di Tiberio. Su questa informazione di Tertulliano sono stati ovviamente sollevati dubbi dalla ipercritica storica: ma non si vede come Tertulliano, che cercava di difendere i cristiani, avrebbe ammesso l’esistenza di una legge senatoria così sfavorevole alla nuova fede; l’avrebbe piuttosto negata, se avesse potuto. Una conferma dell’atteggiamento favorevole di Tiberio viene da un’altra sua decisione: l’invio in Oriente di un delegato imperiale, Lucio Vitellio, che appena arrivato a Gerusalemme (verso il 36 dopo Cristo) con gli ampi poteri di un plenipotenziario di Tiberio, destituì il sommo sacerdote Caifa: sotto l’accusa di aver ordinato l’esecuzione di Stefano, il protomartire cristiano, avvenuta col metodo ebraico della lapidazione.
Esecuzione illegale, le pene capitali essendo infatti prerogativa esclusiva del potere romano. Non era stato possibile destituire Caifa già dopo l’esecuzione di Gesù, in quanto era stata formalmente decretata da Pilato, dunque dal legittimo potere romano. Ma evidentemente Tiberio aspettava la prima occasione per colpire quel Sinedrio che aveva forzato sediziosamente la mano di Pilato.


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