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Cominciano le rivolte. Come prepararsi.
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Islanda. Migliaia di islandesi - ligi alle autorità - hanno dimostrato per le strade di Reykjavik reclamando le dimissioni del primo ministro Geir Haarde e del governatore della Banca Centrale David Oddsson, ritenuti colpevoli del disastro finanziario del Paese. Le manifestazioni avvengono da giorni, con scontri con la polizia. La folla ha eletto come capo un noto cantante-trovatore (sic) islandese, Hordur Torfason; un Beppe Grillo più deciso e capace, Torfason ha annunciato che le dimostrazioni continueranno finchè il governo non se ne andrà.

Un giovanotto s’è arrampicato sul palazzo di Althing (dove il presidente si affaccia per l’annuale giornata nazionale) e vi ha apposto un cartello: «Islanda in Vendita, 2,1 miliardi di dollari».

E’ la cifra che il Paese riceve come prestito d’emergenza dal Fondo Monetario. Altri 2-300 manifestanti hanno assaltato la centrale di polizia per tentare di liberare con la forza uno dei manifestanti, che era stato fermato. Hanno spaccato finestre, la polizia, in assetto di guerriglia urbana, ha usato i gas. Alla fine l’arrestato è stato rilasciato dietro pagamento di una multa.

Ma la rabbia non si calma. Tutti i prezzi sono aumentati di colpo del 30%, i disoccupati aumentano di giorno in giorno.

Come si sa, la rovina del Paese è dovuta alle tre banche principali, Kaupthing, Landsbankki e Glitnir, che si sono esposte  enormemente all’estero, per cifre superiori  al PIL del piccolo Stato.

L’umore generale è stato riassunto da una manifestante di nome Gudrun Jonsdottir, 36 anni, impiegata: «Ne ho le scatole piene di tutto questo. Non mi fido del governo, non mi fido delle banche, men che meno dei partiti. E non mi fido del Fondo Monetario. Questo era un bel Paese, e loro l’hanno rovinato» (1).

Svizzera. Raccolte in un lampo centomila firme per un referendum popolare contro i banchieri: basta con le liquidazioni d’oro dei dirigenti, i loro stipendi saranno sotto controllo pubblico, i «bonus» che intascano dovranno essere in rapporto ai risultati raggiunti (2).

Quest’ultima proposta del referendum ha di mira Marcel Ospen, il capo supremo della UBS, e i suoi direttori: si è saputo che, non contenti di arraffare gli emolumenti più alti d’Europa, i banchieri svizzeri hanno continuato ad offrirsi «bonus» altissimi anche quando la crisi finanziaria della banca era ormai nota a tutti.

Durante un’assemblea della banca, sono comparsi seimila piccoli azionisti - anziani, risparmiatori, medio benestanti, che hanno visto le azioni UBS in loro possesso dimezzare di valore in poche settimane - e il tono dell’incontro è stato tempestoso.

Pretendevano che Ospel - dimissionario - rivelasse quanto s’era pagato col suo ultimo bonus, che dicono principesco (l’entità è segreta, si parla di 15 milioni di dollari); lui s’è rifiutato; uno degli azionisti, o meglio dei manifestanti, è salito sul palco e gli ha gridato: «Ricaccia il bonus».

Poi ha tirato fuori dalla tasca due autentici würstel elvetici e glieli ha fatto ciondolare sotto il naso: «Non ti voglio affamare, ti ho portato qualcosa da mangiare».

La UBS controlla il 25% del mercato interno, o meglio lo controllava; ora i depositanti hanno ritirato dalla banca l’equivalente di 100 miliardi di euro di depositi (incredibile, ma la cifra viene dalla BBC), mettendoli nelle piccola banche locali (che attualmente prosperano).

Il «salvataggio» delle banche, deciso dallo Stato con uno stanziamento di 60 miliardi di euro, ha fatto infuriare ulteriormente gli svizzeri.

L’uomo che ha raccolto le firme per il referendum è un piccolo e prospero imprenditore fino ad oggi sconosciuto, Thomas Minder.

«Tutta la porcata dei sub-prime è un’invenzione americana, eppure una banca svizzera ci è cascata», ha detto indignato, ferito nella sua elveticità. Il voto dovrà aspettare un anno, quando i vari referendum della democrazia diretta svizzera si accorpano con le elezioni generali politiche. Ma è escluso che la rabbia sia sbollita per allora. La UBS ha molte migliaia di piccoli azionisti svizzeri, che la ritenevano sicura come il risparmio postale.

Cina. Causa la riduzione netta delle esportazioni, 62 mila aziende hanno chiuso in poche settimane. Spesso senza preavviso - i padroni semplicemente scompaiono con la cassa - e lasciando i lavoratori con mesi di paghe arretrate.

Il fenomeno colpisce in modo concentrato il Guangdong, centro del miracolo economico cinese, dove migliaia di fabbrichette producono scarpe, giocattoli, gadget di ogni genere.

Per esempio, un operaio di nome Wang, ora disoccupato, reclama dalla sua ditta (Weixu) due mesi di paga arretrata, pari a 440 dollari. Lui e i suoi colleghi sono scesi sulla strada, affrontando la polizia. Le autorità locali, su pressione di Pechino, provvedono direttamente al pagamento degli arretrati nel tentativo di calmare le proteste.

Il governo locale di Chang’an, sud Guangdong, ha sborsato 1 milione di dollari ai lavoratori in arretrati; o almeno così dice (Wang e i collegi non hanno visto nulla).

Stati Uniti. A Bogalusa, una bidonville di bianchi poveri in Louisiana, un tempo chiamata «la capitale del Ku Klux Klan», la polizia ha segnalato almeno 200 incidenti di tipo razziale da quando è stato eletto Barack Obama.

Gli incidenti comprendono: croci in fiamme nei giardini di coppie miste, minacce di morte ad abitanti (di colore e no) che avevano esposto davanti a casa manifesti pro-Obama, graffiti razzisti, comparsa di cappi appesi agli alberi davanti a case di gente di colore. Una donna che era membro del Klan ma poi ne era voluta uscire è stata crivellata da ignoti.

Negli anni ’60, a Bogalusa, il Klan teneva riunioni pubbliche in cui si decideva addirittura quale chiesa negra bruciare. Nel 1965 qui fu ucciso da ignoti un vice-sceriffo negro.

Poi l’influenza della società segreta è diminuita, come in tutta l’America: da 4 milioni di membri del primo ‘900, sarebbero attualmente non più di 6 mila su scala nazionale.

Ma il rapido deteriorarsi della situazione economica, più dura per i bianchi poveri, insieme all’arrivo della prima famiglia di colore alla Casa Bianca, ha ridato una sinistra vitalità al Klan o almeno ai suoi simboli, cappi e croci incendiate, che sono apparsi in vari «incidenti».

A Bogalusa, dove il 40% degli abitanti è nero, si ritiene che esista almeno un «capitolo» del Klan, fino ad ieri apparentemente in sonno (3).

Dimitri Orlov, un ingegnere russo che vive negli Stati Uniti, ha stilato una scala del collasso in cinque stadi, basandosi sulla sua esperienza, vissuta nel crollo del regime sovietico e successivamente nel periodo di inflazione e truffe finanziarie dell’era Eltsin (4).

E’ istruttivo elencare la scala:

1 - Collasso finanziario
2 - Collasso commerciale
3 - Collasso politico
4 - Collasso sociale
5 - Collasso culturale

«Ogni stadio comporta la perdita di fede o di fiducia in qualche importante istituzione o elemento dello status quo», dice Orlov. «Gli effetti fisici misurabili possono essere lenti, ma il rovesciamento psicologico è rapidissimo».

In Russia negli anni ’90, il collasso finanziario fu, per milioni di persone, il passaggio repentino da un prima a un dopo.

Prima                                             Dopo
Pensioni sicure                                Carità pubblica
Valore della casa                             Senzatetto, occupazioni abusive
Investimenti                                     pochi copechi
Risparmi liquidi                                iper-inflazione
Transazioni a credito                        transazioni in contanti, baratto
Indipendenza finanziaria                   interdipendenza fisica

In questa fase, si presume che lo Stato regga e organizzi qualche tipo di sostegno di emergenza; un periodo di semi-stabilità prima dell’avvento degli stati ulteriori.

Qui, scrive Orlov, l’esperienza mi ha insegnato che è bene approfittare di questa fase per «aggiustare certi aspetti importanti della nostra vita», specie «nelle relazioni con gli altri».

La normalità finanziaria, spiega, è come un sistema di barriere; il mio conto in banca è separato dal tuo conto in banza; tu ed io possiamo vivere senza preoccuparci troppo l’uno dell’altro; possiamo crederci «giocatori economici indipendenti in una campo di gioco livellato».

Ma quando le barriere diventano irrilevanti perchè non c’è più niente dietro, «diventiamo un peso gli uni per gli altri, in un modo così immediato da rappresentare un trauma per molti. L’indegnità di questa interdipendenza fisica avrà un costo umano inatteso, specie in un Paese educato al mito dell’individualismo».

Collasso commerciale

Quando  le merci necessarie diventano scarse o i negozi non vengono riforniti, immediatamente si notano fenomeni di accaparramento, e in conseguenza, di saccheggio. Si forma in un istante un grande mercato nero per le cose di prima necessità, dallo shampoo alle fiale di insulina. Forti rincari da profitattori. Se esiste ancora un’organizzazione statale, attuerà un controllo dei prezzi ed anche razionamenti, il che sarà vissuto come una benedizione.

In Unione Sovietica «il sistema di distribuzione alimentare, cronicamente inefficiente in tempi normali, si manifestò paradossalmente utile durante il collasso, consentendo alla gente di sopravvivere nella transizione».

Anche qui, un prima e un dopo.

Prima                                                Dopo
Scarso il denaro                                  Scarsi i prodotti
Economia di servizii                             Economia di auto-servizi
Shopping Center                                 Mercatini dell’usato, delle pulci
Supermercati                                      Bancarelle dei contadini
Culto delle novità                                 Riparazione degli oggetti
Prodotti importati                                 Surrogati nazionali

«Se prima del collasso commerciale il problema è avere abbastanza denaro per permettersi i generi necessari, dopo il problema è convincere quelli che hanno i generi di prima necessità a cederli per denaro; molti vorranno essere pagati in qualcosa di più valido che il liquido. I clienti devono offrire un servizio; e siccome i più hanno poco o nulla da offrire a parte il loro denaro senza valore, ammesso ne abbiano ancora, i fornitori di beni e di servizi si astengono. Scompare il mercato libero e aperto, sostituto da un mercato che non è aperto nè libero. I beni ancora disponibili non sono offerti a tutti, ma solo ad alcuni e in certi periodi. La ricchezza che esiste ancora è nascosta, perchè esibirla aumenta il rischio».

Attualmente, i generi in vendita sono «in gran parte importati, e tutti fabbricati in modo da diventare obsoleti». Sicchè diventerà difficile continuare a far funzionare le cose (auto, orologi, telefonini, eccetera) per mancanza di ricambi. Anche la quantità di questi beni industriali diminuirà, perchè parte di essi verrà cannibalizzata per ricavarne parti di ricambio. Nascono di colpo micro-industrie della riparazione e della rappezzatura.

Collasso politico
 
Prima                                                     Dopo
Diritti acquisiti                                          Promesse non tenute
Servizi comunali                                       Favoritismi locali
Tasse e bilanci                                         Mazzette, concussione
Ordine pubblico                                        Ronde militari o vigilantes
Rimozione spazzatura                              Cumuli di spazzatura
Ponti e strade                                          Buche, interruzioni e deviazioni

«Può essere difficile prendere coscienza del collasso politico perchè i politici sono bravi a mantenere l’apparenza e la pretesa di autorità anche quando essa vacilla», dice Orlov.

Un segno sinistro, che lui ha visto in Russia, è «il momento in cui i politici regionali cominciano a sfidare apertamente il governo centrale». Ad esempio il governatore della regione di Primorye, nell’estremo oriente russo, accaparrò il carbone delle miniere locali e stabilì una politica estera sua indipendente verso la Cina, «senza che Mosca fosse capace di frenarlo»; la Cecenia che si dichiarò indipendente, con il conseguente bagno di sangue.

I regionalismi corrotti, i particolarismi invincibili, le vere e proprie «secessioni» di località e di gruppi d’interesse spesso criminali  in Italia segnalano lo stesso collasso della politica, in avanzato stato di decomposizione?

E’ il caso di rifletterci. Orlov parla agli americani e avverte: una volta inagibili le superstrade, non resta molto per tenere unite le due coste (pacifica e atlantica); un tempo c’erano le ferrovie continentali, ma sono state troppo trascurate.

«Un Paese consistente in due metà collegate dal canale di Panama è di fatto due Paesi, almeno».

Un altro segnale da osservare sono «le incursioni di poteri esteri nella politica interna». In Russia, «consulenti politici stranieri hanno manipolato le elezioni» producendo le rivoluzioni colorate. Magari. In Italia, può dire qualcosa il sindaco di Roma che innalza sul Campidoglio la  bandiera di Sion avendo a fianco l’ambasciatore di Israele?

In USA, i fondi sovrani che comprano pezzi e bocconi dell’economia americana preludono ad una cessione di sovranità: presto avanzeranno richieste politiche per estrarre più valore dai loro investimenti; quando cominceranno a finanziare candidati alle cariche pubbliche, ci si accorgerà che la sovranità è finita altrove.

Peggio: «Il vuoto di potere lasciato dall’autorità legittima collassata tende ad essere riempito automaticamente dal crimine organizzato». In Italia, questo sintomo è sotto i nostri occhi: in Calabria, Sicilia, Campania. In Russia, il potere degli oligarchi con loro squadre di sicari privati, è un più vistoso esempio.

In USA, dice Orlov, la gente crede di poter fare a meno dell’apparato pubblico. Si accorgerà quanto dipende da esso quando sparisse la pur fragile assistenza sanitaria Medicare e Medicaid che «tiene in vita tanti», e quando le autorità locali non saranno più in grado di raccogliere i rifiuti, fare la manutenzione delle fognature, spazzare la neve, mettere vigili a dirigere il traffico, e distribuire l’acqua potabile.

Attenzione: «Questo collasso comincia dal basso, i funzionari locali sono i primi ad essere sopraffatti, mentre la capitale resta lontana e non risponde».

Collasso sociale

L’America, benche si glorii della sua filantropia, è molto stretta quando si tratta di aiuto ai bisognosi. Le provvidenze sociali sono punitive, basate come sono sull’ideologia che il povero sia tale per colpa sua. Il vuoto di previdenza sociale è colmato dalle organizzazioni caritative private. Quelle su base religiosa hanno un motivo per reclutare la gente alla loro causa; ma anche quelle che non pongono altre condizioni, «hanno lo scopo reale di rinforzare la superiorità di coloro che sono caritatevoli, a spese dei riceventi l’aiuto. Più grande il bisogno, più umilianti sono le condizioni imposte ai beneficiari». Inoltre, i benefattori non hanno motivazione di fornire più soccorso in risposta di bisogni crescenti. Al contrario: «Quando il bisogno è grande, costante e crescente, le organizzazioni caritative divengono via via meno adeguate a soddisfarlo».

Sarà bene dunque guardare ad altre opzioni: il ritorno alle società di mutuo soccorso (nacquero negli anni ’30), in cui i bisognosi «non devono cedere la loro dignità e non sono stigmatizzati per la loro condizione».

Meglio ancora, «la formazione di comunità abbastanza forti e coesive da provvedere al bene dei suoi membri, ma abbastanza piccole che le persone possano porsi in relazione diretta le une con le altre, e dove la responsabilità è diretta e visibile».

Cosa difficile in una società dei consumi basata sul credito finanziario, e dove l’ordine pubblico è statalizzato: qui, la disposizione al mutuo aiuto e all’assunzioone di responsabilità dirette «sono atrofizzate».

Attenti, dice Orlov: dobbiamo fare il possibile per contrastare questa fase di collasso, il collasso sociale. Ecco infatti o il «dopo» che esso ci porterebbe (non credo occorra la traduzione):

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Se non viene scongiurato il collasso sociale, è quasi inevitabile che si instauri il collasso «culturale».

Quello stadio in cui «si perde la fede nella bontà dell’umanità», dove la gente perde la capacità di «generosità, gentilezza, rispetto, affezione, onestà, ospitalità, compassione, aiuto materiale».

Le rivolte incipienti in Paesi culturalmente obbedienti come l’Islanda e la Svizzera denunciano il crollo della fiducia nell’insieme delle istituzioni, non solo delle banche; resta tuttavia l’idea, nei manifestanti, che «questa era una bella società»; lo stesso esprimono gli azionisti  svizzeri in rivolta, quando dicono che i subprime sono «un’invenzione americana», dunque indegna della civiltà elvetica. Resta in essi, dunque, la certezza che la loro «cultura» è migliore, esiste e deve solo essere riaffermata.

Si può dire lo stesso per l’Italia?

Il linguaggio sempre più cinico e violento ammesso in pubblico, la sessualizzazione ossessiva della comicità e della pubblicità, il godimento ripugnante, da parte dei telespettatori, delle degradanti convivenze che offre alla vista la TV (Isola dei Famosi, programmi della De Filippi...), le tifoserie teppistiche, i ripetuti pirati della strada drogati che falciano vite e scappano, i graffitari endemici, il linguaggio di Bossi o di Di Pietro, le scene vergognose cui si abbandonano i dipendenti Alitalia senza vergognarsene, tutto questo non rivela uno spaventoso collasso «culturale», addirittura pre-esistente agli altri collassi, finanziario e politico?

Dice Orlov: «Prendiamo l’onestà, ad esempio: la gente la pretende da sè e dagli altri, o giudica accettabile infrangerla per ottenere quel che vuole? La gente trae più motivo di gratificazione nel mostrare quanto ha, o quanto dà?».

Pensate all’Italia e provate a rispondervi, specie riflettendo sul comportamento della cosiddetta «casta», sia essa politica, bancaria, universitaria, giudiziaria, o pubblica in genere. Pensate ali politici che girano con scorta armata sulle auto blù corazzate. Pensiamo anche ai nostri comportamenti personali di ogni giorno.

In tempi normali, l’assenza di queste virtù personali è in qualche modo mascherata dalle istituzioni impersonali: finchè le banche danno credito, i negozi offrono merci, il governo garantisce più o meno l’ordine pubblico, ci è consentito fare a meno delle virtù «calde», o di confinarle alla famiglia e agli amici (alla famiglia, in Italia, sempre meno: quanti figli si drogano senza che i genitori ne abbiano il minimo sospetto? Quanti genitori insegnano ai figli atteggiamenti di egoismo edonista, di fatuità «griffata»?).

Questo collasso culturale è il peggiore, perchè arretra la civiltà e fa regnare la violenza endemica, quando collassano finanza, commercio e politica. La violenza può non essere fisica; ma già abbonda nel nostro mondo occidentale la violenza mentale che consiste, nota Orlov, «nel rifiutare il riconoscimento dell’esistenza dell’altro».

In USA è visibilissimo (ma accade sempre più spesso anche da noi, verso gli stranieri, gli extracomunitari, e non solo) l’atteggiamento dei passanti che evitano il contatto oculare reciproco, credendo così di essere più sicuri. Lo sguardo «vuoto» e indifferente e l’evitamento dello sguardo altrui dà il messaggio: «Non ti riconosco», non esisti. Ciò non rende più sicuri, al contrario. Allo scopo, è molto più utile lo sguardo cordiale e sorridente che suggerisce: «Ti riconosco, ti vedo».

Orlov non vuole però che la conclusione della sua analisi porti al pessimismo. Al contrario: «Io voglio che la gente sappia che può trovare il modo di condurre una vita serena e significativa anche nel crollo del sistema, comunque condannato».

La condanna non deve implicare l’illusione che si possa fare a meno di ogni potere pubblico: lasciate perdere «i diritti acquisiti», le operazioni militari all’estero, il valore legale del titolo di studio, il teatro a soggetto che passa per «democrazia»; queste sono la cose caduche del politico; ma resta la necessità di servizi essenziali, di essenziali controlli di sicurezza impersonali.

La rivolta deve tendere alla ricostruzione di un «governo», al minimo - in mancanza di meglio - locale.

Così, il collasso commerciale può «far nascere spontaneamente una nuova economia con meno griffes e meno sprechi, capace di provvedere ai bisogni basilari».

Là dove le comunità sono socialmente e culturalmente salde, la gente comincerà ad agire per provvedere al necessario senza attendere il permesso ufficiale. Ciò è meno probabile nell’Occidente de-industrializzato e dove il 60% delle persone campano fin troppo bene di «servizi avanzati» di cui, in realtà, si può fare a meno, mentre mancano competenze per sopperire ai bisogni essenziali (solo il 3-5% si dedica all’agricoltura).

La speranza è che le disposizioni atrofizzate siano ancora presenti - hanno aiutato l’uomo a sopravvivere nei millenni - e che «la difficoltà comune possa catalizzarle, suscitando cambiamenti sociali più vicini alla norma umana».

Possiamo prepararci cominciando «ad ignorare ciò su cui non possiamo far conto» nel futuro. Rinunciare alla TV, quando bastano la radio e internet; all’auto per la bicicletta. L’auto ci dà una gratificazione e un prestigio che è puro e semplice frutto di pubblicità e conformismo, dunque illusorio.

Così è un lusso occuparsi della politica nazionale, se si trascura di controllare come il municipio dà gli appalti per la raccolta dei rifiuti (vedi Napoli, e poi muori).

Il collasso culturale - il peggiore - è già avvenuto in ampi settori della società post-industriale, dall’«etica» dei miliardari di Wall Street non meno che nei quartieri pericolosi degli spacciatori di crack. Ma ci sono ancora «sacche di cultura intatta qua e là», comunità che hanno imparato dall’avversità a mantenere una coesione sociale, altri che hanno preso deliberata decisione di condurre una vita più semplice e sana.

Dove? Orlov consiglia di imitare (o importare) certe sub-culture vitali, come quelle che sussistono in certe comunità di immigrati, o tra gli Amish e i mennoniti, quelli che rifiutano la luce elettrica, si spostano con calessi e cavallo, e coltivano il proprio pane con le loro mani.

Orlov conclude: se avessi fondato un Collapse Party, dovrei essere contentissimo, perchè molto del mio programma è già in corso di attuazione: «Le autorità locali cominciano a rilasciare detenuti (i 2,5 milioni di detenuti in USA) per mancanza di fondi, è in corso una colossale cancellazione di debiti sulle carte di credito (non è un giubileo, ma di fatto è qualcosa di simile), il governo comincia a capire che deve evitare i sequestri delle case col mutuo, le case automobilistiche sono alla frutta... magari riusciremo persino a richiamare le truppe e a chiudere le basi all’estero».




1) «Icelanders demand PM resignation, clash with police», Reuters, 22 novembre 2008.
2) «UBS loses favour with angry Swiss», BBCE News, 22 novembre 2008.
3) Howard Witt, «White extremists lash out over election of first black president - The Ku Klux Klan is emerging from decades of disorganization and obscurity, and the turnaround is acutely evident - more than 200 hate-related incidents have been reported since the Nov. 4 election», Los Angeles Times, 23 novembre 2008.
4) Dmitri Orlov, «The five stages of collapse», Energy Bulletin, 11 novembre 2008.


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