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È la voglia di far soldi a salvare il mondo
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Una volta Marco Respinti era un cattolico

In tempi di rigurgito neokeynesista, alias dirigistico, alla Casa Bianca, dunque nel mondo (vuoi per imitazione, vuoi per più mesta spinta inerziale), il ritorno sulle scene dell'anti-Keynes per eccellenza rincuora. Ritrovare Milton Friedman (1912-2006), premio Nobel nel 1976, fondatore della scuola cosidetta monetarista dell'economia, fa respirare boccate di ossigeno a pieni polmoni e la comparsa della nuova traduzione italiana, a mezzo secolo di distanza dalla pubblicazione originale, nel 1962, del suo Capitalismo e libertà (IBL libri, pp. 296, euro 24), un classico imprescindibile della cultura della libertà, è una occasione che nessuno può permettersi il lusso di perdere. C'è dunque da ringraziare il ramo editoriale dell'Istituto Bruno Leoni di Torino per questa iniziativa preziosa, arricchita da una prefazione di Antonio Martino che di Friedman è stato un tempo allievo e sempre un interprete fedele.

«Milton Friedman», scrive Martino, «è stato il mio maestro: quasi tutto ciò che so di economia l'ho imparato da lui, è stato anche il mio consigliere: ogni volta che mi trovavo in difficoltà nel prendere decisioni importanti mi consultavo con lui».

Professore di economia all'Università di Chicago dal 1946 al 1976, Senior Research Fellow alla Hoover Institution on War, Revolution and Peace dell'Università californiana di Stanford, Friedman è autore di opere imponenti, fra le quali spicca Il dollaro: storia monetaria degli Stati Uniti, 1867-1960, scritto con Anna J. Schwartz, e pubblicato in italiano a Torino da UTET nel 1979. Ma è Capitalismo e libertà il fior fiore della sua speculazione più rotonda. Raccolta di conferenze svolte al Wabash College di Crawfordsville, nell'Indiana, nel 1956, Capitalismo e libertà proviene dallo stesso milieu che in quegli anni d'oro di riscoperta e rinascita di un pensiero a tutto tondo autenticamente a misura di uomo, soprattutto nel mondo anglosassone, ha prodotto i capolavori di Friedrich A. von Hayek (1899-1992), capaci di innescare spinte di autentico progresso non ancora cessate, e dell'italiano Bruno Leoni (1913-1967), misconosciuto purtroppo a lungo in patria a causa di quell'egemonia ideologica della sinistra che per decenni ci ha privato di perle che invece fuori porta, e alla faccia nostra, e forse persino un po' derisi per le nostre puerilità, facevano scuola.

Capitalismo e libertà è una pacata e al contempo appassionata, lucida ma non meno puntuta, difesa dell'economia libera di mercato. Da noi, per riflessi condizionati inveterati, si definiscono opere così in termini d'ideologia: qui sarebbe l'ideologia "liberista", là quelle collettivistiche, si badi bene le seconde intese sempre come migliori della prima. E invece no. La grandezza di Friedman è basilare: è la capacità di affermare il pensiero della libertà non come una delle tante opzioni possibili o delle scelte opinabili. Per Friedman, tutt'al contrario, la libertà economica è indispensabile per realizzare uno sviluppo sociale capace di garantire il bene delle persone nonché il mezzo più adatto per realizzare, sentite un po', fini socialmente condivisi. Insomma, il bene comune.

Mentre ancora le sinistre si spolmonano nel denunciare certi biechi "individualisti" liberali con i loro fantomatici egoismi assortiti, la lezione immarcescibile di un Friedman ricorda invece che proprio la responsabilità e l'autonomia dell'individuo generano spontaneamente quel contesto capace di salvaguardare, tutelare e promuovere tutti, se solo, ci mancherebbe altro, tutti si sforzano per darsi almeno un po' liberamente da fare, come Dio comanda. Friedman lo insegna con grande piglio e indubbia scientificità, e ancora una volta sprona a rivedere le received notion (in verità delle superstizioni sin troppo abbondantemente diffuse) che definiscono "pubblico" ciò che è statale (cioè pagato da privati che son costretti a farlo), consegnando il "privato" alla perdizione.

Scriveva Friedman cinquant'ani fa: «Oggigiorno la conservazione e l'ampliamento della libertà sono minacciate su due fronti. Una delle due minacce è chiara ed evidente: si tratta della minaccia esterna proveniente dai sinistri uomini del Cremlino che promettono di seppellirci. L'altra minaccia è di gran lunga più sottile: si tratta della minaccia interna posta da quei benintenzionati che vogliono riformare noi e la nostra società». Della prima minaccia si sono occupati la storia, la Provvidenza, papa Giovanni Paolo II (1920-2005) e quel Ronald W. Reagan (1911-2004) che nel 1988 conferì a Friedman la prestigiosissima Presidential Medal of Freedom. Della seconda ci si deve occupare noi oggi: è la minaccia che odia e briga per abbattere il "modello americano".

Mica perché imponga, «verità americane»: ma perché nel disastro globale testimonia verità fondamentali a misura di uomo.

Marco Respinti

Fonte >
  Libero



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