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Israele: ha vinto il PUS
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Ha vinto il PUS, Partito Unico Sionista; è persino inutile domandarsi chi vince le elezioni in Israele. C’è un partito solo nell’unica democrazia del Medio Oriente, quello della maggioranza egemone, ovvero quella ebraica. Se volete capire qualcosa di quel Paese, scordatevi l’alternanza, gli schemi consueti moderati-fondamentalisti, laburisti-nazionalisti, laici-religiosi, destra-sinistra: quella è solo propaganda, «ammuina» messa in scena per i goym.

In realtà il sistema istituzionale di Israele è una macchina perfetta, inefficiente ma efficacissima, pensata per realizzare un sogno inseguito per secoli e realizzato in pochi decenni: «L’anno prossimo a Gerusalemme».

Chi pensa al giudaismo senza pensare alla Torah, alla Qabbalah e al Talmud non sa di che parla.

Chi parla di Israele, anche dello Stato di Israele, senza tener conto dell’«elezione divina», spreca parole e perde tempo.

Inutile dar retta a chi parla di Israele come Stato laico; Israele è nato su basi etniche confessionali, checché se ne dica. L’esperienza originaria, quella del sionismo, dell’ebraismo laico era solo la «fase uno» dell’insediamento sionista nella terra di Eretz Israel. La fase finale sarà quella che Lieberman, il nuovo capo dell’ultradestra nazionalista e laica dice e gli altri pensano: Israele agli ebrei, gli altri o fuori, o morti.

Lieberman, questo ebreo moldavo, come può rivendicare il possesso di una terra che dista migliaia di chilometri da dove è nato, se non perché, in base a leggi religiose, egli può essere dichiarato ebreo? Potrà anche presentarsi come un ebreo laico, cioè non osservante la Torah, ma il diritto di prendersi una terra non sua lo fonda, piaccia o meno, su quella stessa Torah che non osserverebbe. Per chi è ebreo non è l’osservanza della Torah che fa l’ebreo: è l’esistenza della Torah.
Che poi la osservi o meno poco importa: c’è chi, come Shabbetai Zevi, il falso Messia di Smirne, teorizzò la violazione della Torah come pratica salvifica, ma non per questo non  è considerato ebreo. Strana cosa il giudaismo, strano impasto di sangue, suolo e fede.

Gli piaccia o meno, è la Torah che fa dire a Lieberman, nato in Moldavia, che quella terra è sua. Già, Lieberman (questo ebreo moldavo, rozzo e ignorante, ex buttafuori in una discoteca e facchino all' aeroporto, che sogna la deportazione dei palestinesi e i cui sostenitori gridano impunemente «morte agli arabi») è l’uomo ideale per cominciare a fare quello che Israele farà.

C’è bisogno di qualcuno rozzo e impresentabile, che dica cose impresentabili, per potere domani fare cose impresentabili. C’è sempre, specie in  Israele, un estremista che serve ad aprire la strada, dietro al quale gli altri si accodano: anche Sharon, quando fece la passeggiata sulla spianata delle Moschee, sembrava un pazzo provocatore. Poi gli ebrei lo elessero primo ministro. E il resto del mondo, ipocrita e codino, lo salutò come l’uomo della pace. E non è un caso. Quello che nelle altre nazioni è un accidente ed un incidente della storia, in Israele è una strategia. Il iudaismo ha duemila anni, e sa aspettare.

Chi attende per secoli che una profezia si compia, guarda lo scorrere degli anni senza l’ansia e l’angoscia dei moderni. Sa che, come dice il libro del Qolet, «Per ogni cosa c’è il suo momento… un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante, un tempo per la guerra e un tempo per la pace». Chi ha risolto l’enigma più grande, quello della sua stessa sopravvivenza a dispetto di esilio, discriminazione e stragi, sa di dover procedere con circospezione e cautela. Per poter spingere la politica verso la «soluzione finale» che attende il «popolo di Israele», cioè la riconquista piena, vale a dire esclusiva, della terra di Israele, per tornare cioè a farne Eretz Israel, occorrono tappe intermedie, che partano da lontano. Si iniziò mendicando un focolare ebraico, per creare oggi lo Stato ebraico e domani Eretz Israel. Si iniziò dal laicismo sionista, per passare alla Destra nazionalista, per finire a servire l’ideale teocratico fondamentalista. Non ha fretta Israele a raggiungere i suoi scopi e non teme di doverli dissimulare.

Per ora la strategia è quella di persuadere anzitutto gli stessi ebrei a volere lo Stato ebraico, cioè fatto solo di ebrei. Per ora lo si fa con argomenti profani, creando condizioni di esasperazione nei rapporti coi palestinesi, in modo che la gente invochi nelle piazze e nelle urne «sicurezza». Poi verrà la pace. Il voto alla Destra nazionalista e ultrareligiosa è stato il risultato di una strategia perfetta, dissimulata a dovere. Poi, per difendere questa «conquista», occorrerà sradicare - anzitutto dalla mente ebraica - l’idea che lo Stato di Israele possa esistere senza il suo fondamento spirituale, sarà necessario fare piazza pulita dell’idea di costituire un’entità politica statuale che sia il frutto di un mero processo storico e politico. Servirà l’anima, in cui tutti potranno riconoscersi: lo Stato è l’arca che custodisce la Torah.

Eretz Israel, la terra d’Israele non è solo un luogo geografico, è anzitutto un luogo dello spirito, «terra della Promessa in cui scorre latte e miele», proprietà di JHW e da lui donata al Suo popolo. Essa è l’anima stessa del popolo israelita, il soffio vitale del suo esistere.

Il salmo 137, scritto in ricordo della deportazione a Babilonia, costituisce un archetipo sempre presente, un inno d’amore per Sion e di odio per i suoi nemici, la condizione stessa del rapporto con JHW: «Potevamo noi forse cantare salmi e canti del nostro Iddio in quel triste Paese straniero?

La mia destra sia paralizzata se ti scordo, o Gerusalemme. Mi si attacchi la lingua al palato se un istante appena io lascio di pensarti, mia Gerusalemme, se non pongo te, Gerusalemme, al di sopra di ogni mia gioia. Babilonia, o madre di morte, sciagurata città, sia beato chi ti rende la stessa infamia, sia beato chi afferra i tuoi figli e li stritola contro la roccia».

Dopo la distruzione del Tempio ad opera dei Romani ed il galut, cioè la diaspora, il lamento di Israele si sarebbe ripetuto ininterrottamente per due millenni, implorando da Dio il ritorno a Sion, per preparare la venuta del Messia: l’anno prossimo a Gerusalemme, di Pesach in Pesach, senza stancarsi mai.

Ora, ciò che si è compiuto con la rinascita della nazione ebraica, non può per nessun ebreo prescindere da quell’attesa millenaria.

Abraham Isaac Kook (1865-1935) rabbino-capo ashkenazita di Palestina durante il mandato britannico, eletto tale dalle nuove corti d’appello rabbiniche e morto nel 1935, è una figura centrale per capire la realtà «metafisica» dello Stato di Israele: i suoi scritti furono raccolti in un volume postumo, Orot (Luci), apparso la prima volta nel 1942, mentre le date effettive della loro composizione cadrebbero nell’ultimo quarto della vita di Rabbi Kook.

Nella parte relativa alla terra d’Israele, pare scritta tra il 1910 e il 1930, quando lo Stato ebraico neppure esisteva, vi è una frase che meglio di ogni altra illustra la dottrina vera e nascosta che sarà alla base della costruzione di quello Stato: «Tra Eretz Israel e la terra del popolo ebraico non c’è differenza; non si tratta di mera proprietà nazionale, con lo scopo di unificare il nostro popolo e sostenerne la sopravvivenza materiale, o persino spirituale. Eretz Israel fa parte della vera e propria essenza della nostra nazionalità, e ne è legato organicamente alla vita e all’intimo essere. Pure nelle sue più sublimi manifestazioni, la ragione umana non può neppure cominciare a comprendere la santità unica di Eretz Israele, né scandagliare i recessi del profondo amore per la terra che covano nell’animo del nostro popolo. Ciò che Eretz Israel significa per l’Ebreo lo si può provare soltanto attraverso lo Spirito del Signore che è nel nostro popolo come totalità, attraverso lo stampo spirituale dell’anima ebraica, che irradia la sua influenza caratteristica su ogni salutare emozione. La più alta luce brilla tanto che lo spirito di santità divina riempe i cuori dei santi e dei sapienti d’Israele di vita celeste e di gioia. 3Considerare Eretz Israel come mero strumento per stabilire la nostra unità nazionale - o pure per sostenere la nostra religione nella Diaspora preservandone il carattere proprio e la propria fede, devozione, ed osservanze - è nozione sterile, indegna della santità di Eretz Israel».

Eretz Israel non è solo la costruzione di uno Stato, è molto di più. E’ la realizzazione di un destino. La riconquista di quella terra va dunque per Kook interpretata come l’adempimento di una promessa e come la premessa dell’avvento dell’Era messianica: «Lo spirito d’Israele si accorda al battito del processo redentore, alle onde sonore del suo travaglio che finiranno solo con la venuta dei giorni del Messia. E’ un grave errore rimanere insensibili all’unità che distingue lo spirito ebraico, immaginare che la materia Divina che contraddistingue Israele sia paragonabile al contenuto spirituale delle altre civiltà nazionali. Questo errore è la fonte del tentativo di dividere l’elemento nazionale dell’ebraismo da quello religioso. Questa separazione falsificherebbe sia il nostro nazionalismo che la nostra religione, poiché ogni elemento di pensiero, sentimento e idealismo presente nel popolo ebraico appartiene a un’entità indivisibile, e tutti insieme ne costituiscono il carattere specifico. Ma, nonostante il tentativo di dividere queste componenti indivisibili dello spirito ebraico sia sbagliato, sarebbe errore ancora più grave immaginare che [‘p. 426’] questa separazione possa avere successo; sarebbe dunque inutile dichiarare una guerra amara e malconcepita contro coloro che sono fedeli ad un aspetto solo del carattere ebraico. Se l’unica eccezione alla separazione dei vari elementi spirituali presenti all’interno della congregazione d’Israele fosse il fatto che ciò è proibito dalla legge della Torah, allora sarebbe davvero nostro dovere resistere a ciò fino in fondo, ma siccome questa separazione è assolutamente impossibile, possiamo restare sicuri che coloro che ne sono protagonisti possono sbagliare solo in teoria, ma non in pratica. A prescindere da cosa pensino, poiché l’elemento particolare dello spirito ebraico che sono in grado di fare proprio è radicato nella vita totale del nostro popolo, esso contiene inevitabilmente ogni aspetto del suo ethos».

Insomma Israele è uno, uno il suo ethos, una la sua Torah. Per Kook chi pensa il contrario sbaglia: «La nostra divergenza con costoro dev’essere diretta solamente allo specifico compito di dimostrarne l’errore e di provare loro che tutto il tentativo di frammentare la superiore unità d’Israele è destinato al fallimento. Noi che rappresentiamo l’integrità della volontà e dello spirito ebraico abbiamo il dovere di reagire in modo profondamente naturale, semplicemente analizzando le opposte posizioni per mostrare che ogni singolo elemento dello spirito ebraico non può che includere tutti i valori che i ‘separatori’ sperano di dimenticare e distruggere. Una volta affermata questa verità, i nostri oppositori dovranno infine accorgersi che stavano perdendo tempo, che i valori che avevano tentato di bandire erano tuttavia presenti pur se in forma attenuata e distorta nelle loro teorie, e che il risultato dei loro sforzi sarebbe potuto essere solamente fame spirituale, orizzonti ristretti, e perdita di ogni senso dell’equilibrio. Una sola via si aprirà allora ai nostri avversari: ammettere la verità provata dall’esperienza e aderire interamente al sacro contenuto dell’evidentissima Luce d’Israele. Allora le loro anime non saranno più tormentate da quelle idee nebulose e fantomatiche di cui non riuscivano a liberarsi e in cui non potevano trovare una chiara illuminazione dello spirito. Allora capiranno che il nazionalismo, o la religione, o qualsiasi altro aspetto dello spirito d’Israele, può realizzarsi soltanto nel contesto di una vita ebraica che sia piena e interamente consona ad ogni sfumatura della sua essenza».

Forse conviene ricordare che, secondo il sito di Lyndon Larouche, i «laicissimi» Sharon e Netanyahu sarebbero stati collaboratori e discepoli del rabbino Zvi Yehuda Kook, il figlio di Rav Abraham Isaac Kook, e braccio destro del fascio-sionista Jabotinsky a Londra. Il padre di Netanyahu fu segretario personale di Jabotinsky (1).

Quanto dunque in realtà il nazionalismo laico sia succube di questo misticismo politico-religioso lo si capisce bene, se si considera - come è scritto in quel sito - che Merkaz HaRav, il centro fondamentalista religioso dei due Kook, funge da quartier generale del movimento degli insediamenti e per l’infiltramento delle forze armate. Scomparso nel 1982, il rabbino Kook junior è stato il fondatore della setta «Fedeli del Monte del Tempio» insieme a Stanley Goldfoot, noto terrorista ebreo della banda Stern che nel 1948 fece saltare in aria tutto il comando inglese al King David Hotel e fu implicato pure nell’assassinio del conte Bernadotte.

La «passeggiata» inscenata da Ariel Sharon, con il consenso delle autorità israeliane e americane, alla spianata delle moschee e che ha dato l’occasione ad Israele, a seguito dei prevedibilissimi scontri, di operare quel genocidio palestinese ancora in atto, risponde alla stessa logica. Sharon, il laico Sharon, era il più importante padrino politico dei fanatici del Tempio della Montagna e, come l’ex-rivale di partito Benjamin Netanyahu, è stato un assiduo presenzialista delle raccolte di fondi a New York per l’Ateret Cohanim Yeshiva, il principale centro della vecchia Gerusalemme dove si raccolgono gli estremisti che vogliono demolire la di Moschea Al-Aqsa e quella di Omar.

Sempre i medesimi ambienti «laicissimi» finanziano il movimento degli insediamenti Gush Emunin, il più importante dei quali è quello di Kiryat Arba, presso Hebron in Cisgiordania, da cui proveniva il commando suicida di Baruch Goldstein, il fanatico fondamentalista che massacrò i fedeli islamici alla Grotta dei Patriarchi nel febbraio 1994, poco dopo la firma del trattato di Oslo.

E quando i Fedeli del Tempio marciarono sulla Spianata il 13 febbraio 2002, per festeggiare il primo spicchio della luna di Adar, in testa alla manifestazione c’era addirittura il sindaco di Gerusalemme ed ex-primo ministro Ehud Olmert, assieme a diversi membri del parlamento israeliano.

Tutto questo non deve stupire: se Sharon e Netanyahu sono stati collaboratori e discepoli del rabbino Zvi Yehuda Kook e Kook junior è stato il fondatore della setta Fedeli del Monte del Tempio, tutto torna. Al di là delle maschere in Israele, il volto è sempre quello di Eretz Israel. E benché minacci di fare da sè, Tzipi Livni, ministro di Olmert e figlia Eitan Livni, militante nell’Irgun durante gli anni del mandato britannico sulla Palestina, non va contro quell’unico progetto: semplicemente tirandosi indietro e rischiando di indebolire il governo, quel progetto lo sostiene.

Alla lunga l’obiettivo non è quello di consolidare Israele contro i suoi vicini nemici: con trecento atomiche, non c’è partita. Alla lunga l’obiettivo è far nascere dallo Stato di Israele proprio Eretz Israel, cosa che comporterà - alla lunga - la deportazione dei palestinesi fuori dal suolo sacro. Per fare ciò occorre spostare sempre più a destra la politica, sempre più a destra la destra, fare  lentamente a fette la sinistra, obbligando tutti lentamente a dire quello che un tempo solo la destra più estrema osava dire: se non si comprende ciò che intendo vi basti il fatto che Kadima, il partito di Sharon, è diventato il partito del Centro. Nazionalisti e religiosi, cioè Kadima (Avanti, fondato da Sharon), Likud (Consolidamento, nazionalista), Yisrael Beytenu (Israele Nostra Casa, nazionalista, minoranza russofona di Avigdar Lieberman), lo Shas (Mifleget ha-Sfaradim Shomrei Torah: Partito Sefarditi Osservanti la Torah, ortodosso sefardita), Yahadut ha-Torah (o Achdut ha-Torah ha-Meuchedet o UTJ: Giudaismo Unito della Torah, ortodosso ashkenazita), ha-Ihud ha-Leumi (Unione Nazionale, ultranazionalista «coloni»), ha-Bayit ha-Yehudi (Casa Ebraica, ortodosso nazionalista) hanno insieme il 74% dei voti e 93 seggi su 120.

Casomai - e non è così - il partito laburista dovesse rappresentare un’opposizione potrebbe con il suo 9,85% dei voti e 13 seggi forse guaire alla luna.

Il partiro laburista andava bene quando il mondo era bipolare, per dare l’immagine di un Israele progressista, liberale, democratico. Oggi non serve più. Se ne riparlerà, casomai, per gestire «democraticamente» la conquista: dopo la pulizia etnica servirà ancora qualche «buon ebreo» che mostri sorrisi morbidi e modi umanitari. Servirà per accompagnare con rassicuranti carezze gli ultimi palestinesi di là dei confini, o per sorridere a qualche bambino arabo ricoverato negli ospedali di Tel Aviv ed esibito al mondo per mostrare la magnanimità di Giuda.

Allora, per poco, dopo la sicurezza tornerà buona la «pace», appena il tempo sufficiente a far dimenticare al mondo di aver rubato la terra ai palestinesi, massacrandone a migliaia, per il proprio Lebensraum, pardon spazio-vitale.

Il sistema istituzionale israeliano, fragile, basato sul parlamentarismo e su coalizioni che stanno in piedi per pochi voti, ricattabili da piccoli partiti religiosi o nazionalisti, ovvero fondato su larghe coalizioni che la destra può anche minoritariamente egemonizzare, è ideale per realizzare questo progetto.

Casomai qualcuno deviasse dalla «via maestra» e gli venisse in mente davvero di fare la pace, cioè  cedere anche solo un palmo di terreno di Eretz Israel, basterà il venir meno dell’appoggio di qualche partitino ultrafondamentalista per far cadere il governo. Se la Livni, figlia di Eitan Livni, militante nell’Irgun, pare decisa a non far parte del governo è anche per questo: sarebbe un governo troppo forte (74% dei consensi) per non dover negoziare seriamente col nuovo presidente americano, qualora Obama davvero glielo chiedesse. Meglio esporlo al diktat di qualche rabbino fanatico o di qualche Lieberman di turno e mandare a trattare un negoziatore che, al ritorno, potrebbe non avere più un governo in carica, facendo così saltare il tavolo. Casomai le cose dovessero precipitare, nel frattempo ci sarà sempre qualche idiota, provocatore o spia, che in nome di Allah o di JHW, sparerà qualche razzo su Sderot e dintorni.

La legge costituzionale approvata dalla Knesset israeliana, volta a rafforzare l’esecutivo con l’elezione diretta del premier e che sarebbe stata applicata per la prima volta nelle elezioni politiche del maggio 1996 è stato l’ultimo trucco. Si ispirava di fatto al modello neoparlamentare
duvergeriano del 1956, che prevedeva l’elezione diretta di un primo ministro in un eventuale doppio turno elettorale con ballottaggio.

Come già ho avuto modo di illustrare, a differenza però dell’elaborazione di Duverger, si notavano già due varianti che indebolivano la forza razionalizzatrice del modello. In primo luogo, per l’elezione della Knesset, contemporanea al primo turno del voto per il premier, era stato mantenuto il vigente sistema elettorale proporzionale puro (con sbarramento dell’1,5% nel collegio unico nazionale) invece dei collegi uninominali maggioritari immaginati da Duverger o comunque in luogo di correzioni de-proporzionalizzanti sotto forma di premi e/o sbarramenti.

In secondo luogo si prevedeva, in modo alquanto contraddittorio con l’elezione diretta, che vi fosse entro 45 giorni dalla pubblicazione dei risultati delle elezioni, un passaggio parlamentare con la presentazione del gabinetto, la divisione dei compiti tra i vari ministri e le linee di fondo della politica governativa. Se tale passaggio non fosse stato affrontato con successo si sarebbe proceduto a nuove elezioni per il Parlamento e per il premier.

Solo gli ingenui si sono stupiti del fatto che quella «sceneggiata» di riforma sia stata abolita nel giro di qualche anno. Era stata introdotta con l’unico intento di dare a vedere che vi potesse essere qualcuno che comandava davvero in Israele. Pagliacciate, in Israele può comandare solo «Eretz Israel». Altro che unica democrazia del Medioriente!

Infine l’altro aspetto fondamentale di questo sistema «inefficientemente efficace» è che lo Stato d’Israele non ha una Costituzione scritta. L’unica «democrazia» del Medio Oriente - come ampollosamente viene definita dai media di casa nostra - manca del suo elemento di base: la Costituzione. Un caso? Una svista? No, una scelta.

«La mancanza di una costituzione scritta - ha scritto lo scrittore israeliano Boas Evron - non è accidentale. La massiccia espropriazione e pulizia etnica subite dai palestinesi in seguito all’insediamento di Israele, come l’annessione di terre e proprietà di coloro che rimasero ma furono dichiarati assenti, come anche la confisca di vaste aree di villaggi palestinesi non distrutti, e tutte le leggi necessarie per legalizzare questi atti, tutto ciò sarebbe stato incostituzionale e dunque dichiarato nullo da una Corte Suprema, essendo chiaramente discriminatorio contro una parte dei cittadini dello Stato. Le costituzioni democratiche, infatti, impongono allo Stato di trattare i suoi cittadini con equità» (2).

Israele è uno «Stato etnico-religioso». Lo ha scritto anche Paolo Prodi, il fratello di Romano, su L’Unità, suscitando le reazioni indignate della comunità ebraica di casa nostra: «Lo Stato d’Israele non ha, come è noto, una carta costituzionale: non ha una costituzione scritta e nemmeno una costituzione non scritta derivante da una storia secolare, come quella inglese dalla Magna Charta del 1215 in poi: non ha una costituzione scritta, nonostante essa sia in progetto sin dal 1948 e se ne discuta ancora presso l’apposita commissione ‘for the Constitution, Law and Justice’ della Knesset, perché non si è potuta superare la contraddizione fondamentale, già evidente molto prima della fondazione dello Stato, sin dai primi progetti dei movimenti sionistici, sul principio di appartenenza e di cittadinanza. L’ethos fondamentale è quello di uno Stato ‘ebraico e democratico’: ma può essere democratico uno Stato basato sull’appartenenza religiosa?» (3).

Suo fratello, l’ ex-premier Romano, ben sapendo quanto conti la «lobby», questa domanda non se la deve essere posta e, compiacendo una precisa richiesta di Olmert, nel dicembre 2006 dichiarava: «Ogni processo di pace deve passare attraverso la rinuncia alla violenza, il riconoscimento dello Stato di Israele ed il riconoscimento degli accordi passati. Debbo aggiungere anche il riconoscimento dello Stato di Israele come Stato ebraico, cioè riconoscere la necessità di avere la continuità dello Stato anche in futuro» (4). Pensate se qualcuno osasse chiedere il riconoscimento dello Stato italiano come stato cattolico, i guaiti di Frattini, Lerner, Mieli e Mimum…!

Già molte volte mi è capitato di dire che Israele può esistere solo così, solo in contrapposizione agli altri, solo ghettizzando e ghettizzandosi, solo separandosi, circoncidendosi rispetto al resto del genere umano. Peraltro l’ebraismo (cui solo il Cristo ha dato compimento, rendendolo cattolico, cioè universale) è regredito, proprio a causa del rifiuto del Messia promesso, nel giudaismo, un ombroso particolarismo, destinato a rimanere settario e razzista, più esacerbato ancora dalle persecuzioni subite e in parte cercate: l’esasperazione della separazione non è solo una follia del giudaismo, è una lucida strategia che Israele conosce da sempre, da ben prima che lo Stato di Israele esistesse.

Ha scritto ancora Paolo Prodi: «Israele è paradossalmente unita dal fatto di essere continuamente sotto attacco (forse con qualche analogia storica con la storia dei ghetti ebraici che hanno garantito nei secoli passati il mantenimento di un’identità dolorosa che si sarebbe persa con l’assimilazione)» (5).

Ho già riportato in un precedente articolo ciò che scrive Sergio Romano nella rubrica che tiene su Il Corriere della Sera. Rispondendo ad un lettore relativamente al rapporto tra le persecuzioni patite dagli ebrei sotto il regime nazionalsocialista e la nascita dello Stato di Israele, Romano ricorda «una interessante conversazione fra un diplomatico italiano, Pietro Quaroni  e il leder sionista Chaim Weizmann in occasione dell’incontro che quest’ultimo ebbe con Mussolini nel 1933, cinque anni prima delle leggi razziali. Weizmann e Quaroni parlarono di antisemitismo e il primo, futuro presidente dello Stato israeliano, disse: ‘Vede, la nostra volontà di sopravvivere, la nostra tradizione sono certo forti, ma nonostante questo non so se il popolo ebraico sarebbe riuscito a sopravvivere per 2000 anni, se il pregiudizio religioso prima e razziale poi non gli avesse costruito intorno questa specie di muraglia artificiale’. […] In un elzeviro apparso nel Corriere d’Informazione del 23 aprile 1956, Quaroni ricordò di avergli detto: ‘Allora, proseguendo il suo ragionamento, bisognerebbe concludere che le persecuzioni sono utili alla causa sionista!’ A questa osservazione, fatta mezzo scherzando, mezzo sul serio, Weizman rispose: ‘Non mi prenda così strettamente alla logica: non sono certo io che posso compiacermi dello strazio di tutto un popolo. Però è certo che quello che sta accadendo in Germania (Hitler era appena asceso al potere! nda) ha provocato una ripresa di coscienza ebraica un po’ dappertutto, anche là dove essa si stava esaurendo, il che non è senza utilità’» (6).

Dal peggio il meglio, dal male il bene, il peccato come trono di santità, la dissimulazione come coscienza, l’identità come nevrosi. Questo abisso è Israele, che ha rifiutato il Messia, questo abisso è Israele alla ricerca di se stesso e del Messia. Chi cerca di spiegarlo con le sole categorie della politica è un illuso o un inetto.

Domenico Savino



1) Confronta http://www.movisol.org/tempio.htm
2) Boas Evron, «Jewish State or Israeli Nation?», Bloomington, Indiana University Press, 1995.
3) L’Unità dell’8 ottobre 2006, vedi alla voce Israele, di  Paolo Prodi.
4) http://www.cipmo.org/1501-indice-attualita/olmert-prodi.htm
5) L’Unità dell’8 ottobre 2006, vedi alla voce Israele, di  Paolo Prodi.
6) Il Corriere della Sera, 6 giugno 2005, pagina 31.


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