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Durban 2 ovvero dell’ipocrisia dell’Occidente
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Scandalo nella corte dell’umanitarismo! Alla conferenza ONU, Durban 2, contro il razzismo, Ahmadinejad, il presidente iraniano, ha accusato Israele di praticare politiche razziste. Ora, sappiamo bene tutti che Ahmadinejad persegue una sua politica. E’ normale, è naturale. Solo coloro che ancora credono alle virtù del normativismo umanitario e liberale, possono pensare che le conferenze internazionali siano il luogo nel quale tutti gli uomini di buona volontà del globo si riuniscono per affrontare e risolvere i problemi dell’umanità ed assicurare al mondo un futuro migliore. A costoro consigliamo la chiarificante lettura del «Nomos della terra» di Carl Schmitt, per capire come dietro l’umanitarismo liberale si nasconda nient’altro che la codificazione normativa, questo è il diritto internazionale globale e non più interstatuale, dei rapporti di forza vigenti nel concreto panorama politico del momento. Dunque se Ahmadinejad fa la sua politica, anche Frattini, la Merkel, Sarkozy, Obama fanno parimenti la loro.

A Ginevra si doveva discutere di razzismo ed ormai solo l’Occidente non si è accorto, rectius: non vuole accorgersene per ovvi interessi di bottega, che nel mondo è fortemente cresciuta la consapevolezza che il sionismo è una forma di nazionalismo a tinte razziste. Il sionismo, che non è tout court identificabile con l’ebraismo religioso in tutte le sue componenti perché semmai solo in alcune di esse trova purtroppo un aberrante supporto «teologico», è, dovrebbe essere, dal punto di vista della stessa fede ebraica, una bestemmia contro il Dio di Abramo. Come appunto ritengono parte degli ebrei: dai Neturei Karta ai Rabbis for Human Rights.

Le delegazioni degli Stati occidentali si sono ritirate dalla conferenza di Ginevra denunciandone il carattere «antisemita». L’Occidente ha utilizzato, anche in questa occasione, il solito linguaggio atto a confondere le acque con la fraudolenta intenzione di colorare di antisemitismo ciò che assolutamente non è antisemita. In Occidente si vuol dogmatizzare l’equivalenza, falsa e bugiarda, che alla lunga si rivelerà dannosa per lo stesso Israele, tra «anti-sionismo» ed «antisemitismo». In realtà tra l’anti-sionismo e l’antisemitismo la differenza è essenziale.

Ma l’Occidente è ipocrita e non da oggi. Usò, a suo tempo, per favorire i propri interessi coloniali, il nazionalismo arabo e quello dei Giovani Turchi contro il sultanato, ossia contro una «monarchia tradizionale», disseminando l’impero ottomano, fin dai tempi napoleonici, di logge massoniche portatrici di idee liberali e progressiste. Con Lawrence d’Arabia illuse gli arabi, spingendoli alla rivolta verso il sultano ottomano, con promesse di indipendenza nazionale, per poi, a prima guerra mondiale finita, mettere corrotte monarchie filo-occidentali al governo delle colonie e semi-colonie anglo-francesi. Dopodichè, oggi, c’è chi, come Arrigo Levi (1), si lamenta del fatto che il mondo arabo abbia sin dal 1948 una avversione per Israele, tacendo però del fatto che la fondazione dello Stato israeliano è stata avvertita dai Paesi arabi, in fase di de-colonizzazione, come l’ennesimo atto di arroganza occidentale.

Eppure è lo stesso Arrigo Levi, nelle pagine del suo libro pubblicate sulla stampa in questi giorni, a dirci che lui, anche quando per un anno, nell’immediato secondo dopoguerra, andò in Palestina per combattere per Israele non era, ne successivamente è mai stato, un ebreo sionista. La Palestina nella quale Arrigo Levi prestò il suo servizio di combattente volontario era quella della pulizia etnica anti-araba, documentata, senza giustificazioni ideologiche, dallo storico israeliano Ilan Pappé, che per questo, come il suo collega Ariel Toaff, ha dovuto lasciare l’Università di Gerusalemme per approdare in una più ospitale università inglese.

Ma Arrigo Levi non cita il Pappé ma un altro storico israeliano, Benny Morris. Anche quest’ultimo, che insieme a Pappé fa parte di quella schiera di storici revisionisti che in Israele si chiamano i «nuovi storici», ha documentato l’inumana pulizia etnica anti-araba ordinata dal socialista sionista Ben Gurion molto prima dell’inizio delle ostilità tra il nascente Stato di Israele ed i Paesi arabi circumvicini. Ma Morris lo ha fatto, a differenza di Pappé, con intenzioni giustificazioniste dei crimini sionisti: anzi secondo la sua tesi fu necessario, al fine di fondare Israele, che si procedesse con il terrore ad allontanare le popolazioni arabe da secoli pacificamente, seppur tra alti e bassi, residenti in Palestina insieme a cristiani ed ebrei. Questi ultimi, infatti, non hanno mai davvero lasciato del tutto la Terra Santa.

durban_II.jpgArrigo Levi si richiama alle stesse tesi giustificazioniste per, probabilmente, accomodare nella sua coscienza il fatto di aver, magari in buona fede, combattuto per una banda di criminali, i sionisti ed i loro capi, credendo di essere dalla parte giusta e senza avvedersi del contributo che stava portando al male in danno di suoi fratelli in umanità ed anche in etnia. Infatti gli arabi palestinesi sono semiti quanto gli ebrei. Questa constatazione evidenzia, poi, che l’identità ebraica non è innanzitutto razziale ma religiosa. Questa peculiarità, come ben comprese Israel Eugenio Zolli, espone costantemente l’ebraismo post-biblico, per aver rifiutato l’universalismo cristiano, a scadere in becero etnocentrismo, magari con pretese umanitario-universalistiche.

Ma se Arrigo Levi non è mai stato sionista e se, come fa ancora oggi, egli rivendica di essere un ebreo cosmopolita, dovrebbe comprendere quanto iniquo sia in realtà il sionismo. Infatti, egli si rammarica che gli ebrei residenti in Israele considerino gli ebrei della diaspora come «mezzi ebrei», ebrei non puri nella loro identità ebraica, in qualche modo contaminati dal contatto continuo con i goym.

Ora è proprio questo lo stigma originario del sionismo, da troppi ritenuto un’ideologia nazionalista romantica che rivendicava una terra per un popolo senza terra, alla stregua dell’ideologia risorgimentale della Giovane Italia di un Mazzini che rivendicava l’indipendenza italiana o di quella dei patrioti liberali polacchi o boemi che rivendicavano, nel XIX secolo, l’indipendenza nazionale per la Polonia e la Cechia.

Non è però proprio così.

Generalmente, infatti, il sionismo è presentato come scaturente da un drammatico bisogno di sicurezza nutrito, all’indomani dell’emancipazione, dal popolo ebreo, a causa delle persecuzioni subite nei secoli della diaspora. In realtà le cose non sono così lineari e nella genesi del sionismo hanno inciso molto di più categorie in qualche modo «ancestrali», pur rielaborate nella prospettiva tipicamente «mitizzante» dell’illuminismo e del romanticismo, che non categorie politiche meramente nazionaliste.

Nel caso del sionismo, la categoria del messianismo a carattere millenarista ha giocato un ruolo essenziale. Ad angosciare Theodore Herzl, il fondatore del movimento sionista, non era il presunto bisogno ebraico di sicurezza quanto il rischio, dopo l’emancipazione, di una nuova diaspora, questa volta culturale, nazionale e persino razziale. Egli infatti scriveva: «Per mezzo dell’oppressione e della persecuzione non è possibile estirparci …; gli ebrei forti ritornano ostinatamente alla loro stirpe, quando scoppiano le persecuzioni. Ciò si è potuto vedere ben chiaro nel tempo che seguì immediatamente all’emancipazione ebraica: gli ebrei che si trovavano più in alto sotto il punto di vista spirituale e materiale, smarrirono interamente il senso della solidarietà di razza» (2).

Anche un altro noto esponente sionista Max Nordau esprimeva preoccupazioni analoghe quando scriveva: «L’ebreo privo di diritti dell’epoca precedente all’emancipazione era uno straniero fra i popoli, ma egli non aveva  pensato mai di ribellarsi contro questa sua condizione. Egli sentiva in tutto e per tutto d’essere membro di una stirpe speciale, che non aveva nulla in comune con gli abitanti di altri Paesi (…). L’etnologo e lo storico dei costumi riconoscono che il ghetto, qualunque fosse l’intenzione dei popoli che lo istituirono, non era sentito dagli ebrei del passato come una prigione ma come un luogo di rifugio (…). Nel ghetto l’ebreo aveva il suo mondo, la sua casa sicura che aveva per lui il significato spirituale e morale di una patria».

Ma ha seguito dell’emancipazione il panorama cambiò radicalmente sicché Nordau si lamentava del fatto che: «In una specie di ebbrezza l’ebreo si affrettò a rompere tutti i ponti dietro di sé. Egli aveva ora un’altra patria; non aveva più bisogno di rimanere legato ai suoi correligionari (…). Al posto del contrasto salvatore, subentrò il mimetismo utile» sicché - continua Nordau - «Non è giusto dire che il sionismo non sia altro che un atto di sfida o di disperazione contro l’antisemitismo (…). Per la maggior parte dei sionisti l’antisemitismo non è stato che un invito a riflettere sui loro rapporti coi popoli, e questa loro riflessione li ha condotti a risultati tali che rimarrebbero il loro permanente patrimonio spirituale e morale anche se l’antisemitismo scomparisse completamente dal mondo» (3).

Ecco perché sin dal suo comparire molti ebrei videro nel sionismo una ideologia del ritorno al ghetto, come è inevitabile pensare anche oggi di fronte alla trasformazione dell’intera Palestina in un ampio ghetto con la costruzione, iniziata da Sharon, del muro.

Fu immediato nel sionismo l’affiorare della tematica, che è possibile ritrovare anche nell’arabismo e nel fondamentalismo islamico, della necessaria restaurazione di una presunta purezza etnico-religiosa originaria allo scopo di riallacciarsi alle radici di un glorioso passato. Fu sempre Nordau a sostenere che con il «nuovo sionismo politico» gli ebrei riacquistavano «coscienza delle loro capacità etniche (e l’) ambizione di preservare l’antichissima gente fino ad un avvenire il più possibile remoto e alle grandi gesta degli avi aggiungere le nuove illustriazioni dei discendenti» (4).

Al fine di impedire la dispersione dell’identità ebraica, concepita però in termini etnico-religiosi e non dunque semplicemente e spiritualmente «teologali», Herzl si richiamava, decontestualizzandolo e pertanto strumentalizzandolo, al modello veterotestamentario della rivolta xenofoba antiellenistica dei Maccabei. Un po’, per intenderci, come facevano il fascismo «giacobino» che si richiamava al mito della Roma prisca ed il nazismo che si richiamava a quello dell’originaria purezza «ario-germanica».

In questa prospettiva, apertamente mitico-razziale, Herzl minacciava l’espulsione dall’Eretz Israel, prossimo venturo, degli ebrei troppo assimilati disconoscendo ad essi un carattere autenticamente ebraico: «Io credo pertanto - scriveva Herzl - che crescerà dalla terra una generazione d’ebrei meravigliosi: i Maccabei risorgeranno (…). Chi può, vuole ed è costretto a scomparire, scompaia pure. Ma la personalità del popolo ebraico non vuole e non è costretta a scomparire (…). Interi rami dell’ebraismo possono morire, cader giù; l’albero vive. Se dunque tutti o alcuni degli ebrei francesi protestano contro il mio progetto, perché si sarebbero già ‘assimilati’, la mia risposta è semplice: tutta la faccenda non li riguarda. Essi sono francesi israeliti: benissimo! Questo però è un’affare interno degli ebrei» (5).

Dunque di che si meraviglia oggi il nostro Arrigo Levi? Già Herzl aveva avvertito gli ebrei assimilati e quindi anche quelli che, come lo stesso Levi, si sentono non sionisti ma cosmopoliti. Essi, e tra essi Arrigo Levi, non sono «ebrei» ed il sionismo, ossia lo Stato di Israele, che dal sionismo è nato, «non è affar loro». Perché, dunque, chiediamo ad Arrigo Levi, aver perso un anno della propria vita come volontario per tutelare interessi che in quanto ebreo «non puro» gli erano, a detta del fondatore del sionismo, del tutto estranei? Rivolgiamo la stessa domanda a tutti gli ebrei della diaspora che, in quanto tali, non sono, secondo l’ottica sionista, «veri ebrei». In particolare di una così grave questione dovrebbero preoccuparsi proprio gli ebrei religiosi se fossero onesti, come i Neturei Karta, con la propria coscienza religiosa.

Se, dunque, quelle sopra viste sono le vere basi ideologiche del sionismo e se esso non è nato quindi da un bisogno di sicurezza nazionale, non meraviglia che, proprio a causa della nascita dello Stato di Israele, esso abbia finito per assumere, da laico-romantico che apparentemente sembrava in origine, connotazioni marcatamente etnico-religiose fino a trasformarsi, in alcuni settori del rabbinato ultraortodosso, in un vero e proprio fondamentalismo ebraico, caratterizzato da pulsioni millenaristiche indotte dal riaccendersi di mal riposte speranze messianiche nutrite da secoli in seno al giudaismo a causa di un’errata esegesi talmudica riguardo le profezie veterotestamentarie.

Sin dagli anni settanta del XX secolo, è stato osservato, si assiste in Israele allo sviluppo di movimenti fondamentalisti che «rompono con le seduzioni della società laica per riorganizzare la loro esistenza esclusivamente su norme e divieti attinti ai testi sacri giudaici. Tale rottura esige una netta separazione tra ebrei e gojm (non ebrei, gentili) per combattere l’assimilazione, massima minaccia alla sopravvivenza del popolo eletto» (6).

Esito naturale, questo, per uno Stato che è nato anche dalle intese che i sionisti ebbero, a suo tempo con i nazisti, per deportare gli ebrei tedeschi, da generazioni assimilati alla cultura mitteleuropea, verso il «promesso» Eretz Israel. Per uno Stato che ha tra i suoi «padri della patria» un Jabotinski, convinto «fascista» sionista, la cui organizzazione paramilitare, il Betar, che fu il germe della futura marina israeliana, si addestrava nella scuola navale di Civitavecchia, per gentile concessione di Mussolini, il quale simpatizzava per questo «fascismo sionista» come pure per i «fascismi arabi» sul tipo del nasserismo. Si trattava, infatti, per il duce italiano di usare questi contrapposti «fascismi» in funzione anti-inglese nel Vicino Oriente.

Mentre, per tornare all’oggi, gli Stati occidentali ritirano indignati le loro delegazioni dal Durban 2 di Ginevra e Netanyahu richiama in patria l’ambasciatore israeliano presso la repubblica elvetica, una delle forze principali del nuovo governo israeliano, uscito dalle recenti elezioni, è l’Israel Our Home (Eugenio Zolli da puro ebreo, infatti poi si convertì al Cattolicesimo, rimase sconvolto dall’intenzione sionista di ridurre Gerusalemme, biblica casa di preghiera per tutte le genti, ad una home nazionale) il partito xenofobo e razzista di Avigdor Liebermann, l’ebreo di origini moldave che, si sente a tal punto «puro» nelle sue ascendenze razziali, da imporre nell’agenda governativa il giuramento di fedeltà da parte degli arabi israeliani all’identità ebraica dello Stato di Israele, pena la loro espulsione. Come dire che i cittadini arabi dell’unica democrazia del Medio Oriente, che tanto piace e tanto è difesa da questo ipocrita Occidente liberale, devono accettare la propria discriminazione legale riconoscendo il carattere etnico-religioso, a loro estraneo, dello Stato del quale sono cittadini.

Se non è razzismo questo, ci chiediamo e chiediamo, cosa è?

Nel Sudafrica dell’apartheid vigeva lo stesso identico «diritto» discriminatorio. L’Occidente a suo tempo appoggiò la svolta di Nelson Mandela, anche perché una eventuale rivolta armata della popolazione nera avrebbe messo in pericolo gli interessi occidentali nel Paese. Sempre in nome della tutela dei propri interessi l’Occidente liberale oggi, pur strumentalizzando la rivolta tibetana, mantiene ampi e ottimi rapporti con la Cina totalitaria, ma dal popperiano mercato aperto, che è la principale protettrice della Corea del Nord sempre pronta ad invitare tutti a non drammatizzare se la sua protetta, di tanto in tanto, come una bambina dispettosa, lancia qua e là qualche missile.

Ma poi di fronte alle dichiarazioni propagandistiche di Ahmadinejad, ed ai finora presunti missili di Teheran, questo stesso Occidente, mai messo in discussione dalla nostra destra e dalla nostra sinistra, da Fini/Berlusca e da Franceschini/Vendola, come pure dagli immancabili Bonino e Pannella, si ricorda di essere liberale e democratico nonché il bastione della democrazia nel mondo.

In questo caso, però, non ci sono interessi economici da tutelare. Quelli, che pur non furono l’unica voce in capitolo nelle decisioni guerrafondaie di Bush, animate anche da ben altre inquietanti pulsioni fanta-religiose, sono già stati tutelati, per quanto riguarda il Vicino Oriente, con le aggressioni all’Afghanistan ed all’Iraq.

Nel caso in questione, l’Occidente, apostata dalla fede cristiana, obbedisce alla propria «teologia civile», quella che ha fatto del tragico evento dello sterminio ebraico un evento centrale, metafisico, salvifico dell’intera storia mondiale. Sostituendo questo evento, che di quello Doloroso della Croce è stato, come ogni altra umana sofferenza, solo partecipazione, al Sacrificio di Nostro Signore Gesù Cristo.

Questo è il vero motivo, teologico, della levata di scudi degli Stati, talmudizzati, dell’Occidente non più cristiano.

Ecco perché è molto significativa la presa di posizione del Vaticano che, a differenza degli Stati occidentali, non ha affatto ritirato la propria delegazione dal Durban 2.

Naturalmente ed immediatamente il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, non ha perso neanche questa occasione per tacere: «E’ un ennesimo scivolone, l’ennesima ambiguità verso l’ebraismo, dell’attuale Pontefice» ha dichiarato, con il tono censorio di chi vuole «scomunicare» qualcun altro dal consorzio civile degli uomini «giusti», seguito in questo a ruota dall’immancabile omonimo Pacifici e dal Gattegna, che insieme al rabbino capo costituiscono il «ghota», la novella «Banda Stern» spirituale, della comunità ebraica italiana.

Ora, invece, e lo diciamo a tutti coloro che nutrono perplessità sul conto di Benedetto XVI, è altamente significativo, e coraggioso, che un Papa alla vigilia di un viaggio in Israele non si lasci intimidire dal coro filo-sionista messo in scena in questi giorni, in occasione del Durban 2, né, ed è ancora più importante, dalle evidenti pressioni della nota lobby sia nelle sue espressioni nostrane che in quelle internazionali.

Questo ci fa ben sperare che il Santo Padre sappia mantenere le distanze in Terra Santa dai tentativi di strumentalizzazione, che sicuramente Israele metterà in atto nei suoi confronti, e che sappia anche rimediare alla mancata visita a Gaza. Infatti è notizia di questi giorni che il parroco di Gaza, padre Musallam, sarà ricevuto in delegazione dal Papa durante il viaggio e che Israele è stato pressato dal Vaticano affinché conceda almeno 200 visti per i palestinesi cristiani, circa 300, di Gaza in occasione della visita papale.

Ci diceva ieri, in un sms, l’amico Siro Mazza che, nonostante la sua intenzione di non urtare la suscettibilità di Israele, a questo Papa non ne va mai bene una nel suo rapporto con i «fratelli maggiori». Abbiamo risposto a Siro che probabilmente è lo Spirito Santo, grazie all’atteggiamento sempre più ostile ed incarognito degli ebrei verso di lui, che quantomeno a partire dalla questione della preghiera pro judaeis del rito latino, e fors’anche dai tempi della «Dominus Jesus», vedono in lui un Pontefice che resiste troppo alle loro pretese, a far sì che il Papa non dimentichi mai che fra noi e loro rimane sempre, e sempre rimarrà fino alla fine dei tempi, la Pietra da loro scartata e diventata però Testata d’Angolo.

Per alcuni forse Benedetto XVI potrà sembrare ambiguo nel suo agire. In realtà, come ha scritto in questi giorni sul Corsera Vittorio Messori, che lo conosce molto bene personalmente, Benedetto XVI è uomo totalmente affidatosi a Dio anche nelle cure del governo della Chiesa. Ricorda Messori che in occasione del periodo passato insieme al cardinal Ratzinger, all’epoca Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ossia «grande inquisitore» dell’ex Sant’Uffizio, per la preparazione del libro intervista «Rapporto sulla Fede», un libro, lo diciamo per chi non se ne fosse accorto, nel quale già all’inizio degli anni ‘80 Ratzinger esprimeva la chiara intenzione di mettere la parola fine, con grande disappunto dei Melloni e degli Alberigo, al caos post-conciliare, ebbe modo di chiedere al cardinale se riusciva a dormire tranquillo con tutte quelle allarmate relazioni che gli piombavano sul tavolo da tutto il mondo e che informavano Roma della grave crisi in atto nella Chiesa. Ratzinger gli rispose che dormiva senza problemi perché la Chiesa è in fondo sempre guidata da Cristo, certamente attraverso gli uomini che Lui sceglie anche conoscendone le insufficienze e debolezze, e che pertanto a noi cristiani è richiesto solo di fare con coscienza il dovere assegnatoci e pregare. Al resto ci pensa Lui, sicché ogni tempesta che tenta di affondare la Barca di Pietro prima o poi finisce per placarsi.

Agli apostoli che in preda al panico Lo svegliarono, durante la tempesta, Nostro Signore, prima di ordinare al vento ed alle acque di acquietarsi, rimproverò la poca fede.

Un rimprovero che vale anche oggi, più che mai, anche per noi tutti che spesso ci dimostriamo uomini di poca fede. Le potenze del mondo, anche quella dell’ipocrita Occidente e dello Stato di Israele, sono nulla di fronte alla Potenza dell’Eterno.

Luigi Copertino




1) In Il Tempo del 20 aprile 2009.
2) Confronta Bidussa, 1993, pagina 72, citato in Domenico Losurdo «Che cosa è il fondamentalismo» in Avallon - l’uomo e il sacro, numero 54, Rimini 2005, pagina 55.
3) Le citazioni di Nordau sono in Bidussa, ibidem, pagine 127-136; ora in Domenico Losurdo, opera citata.
4) Confronta Bidussa, ibidem, pagina 135; ora in Domenico Losurdo, opera citata.
5) Confronta Bidussa, ibidem, pagina 122 e pagina 74; ora in Domenico Losurdo, opera citata.
6) Confronta Kepel, 1991, pagina 167; ora in Domenico Losurdo, opera citata.


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