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Il golpe (parte III)
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 Da J. M. Keynes a Mario Draghi

Economia Sociale di mercato
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Le basi del moderno Stato sociale furono poste nel XIX secolo. Ma non dalla sinistra socialista, che vi contribuì solo successivamente mediante le due riforme del marxismo ossia la socialdemocratica e la fascista, quanto invece dalla destra tradizionalista. Nella Germania guglielmina fu un conservatore autoritario come Bismarck ad introdurre le assicurazioni sociali per i lavoratori ed il dirigismo economico nazionale. Un diplomatico ispanico, cattolico reazionario, come Juan Donoso Cortés si aggirava nelle periferie urbane di Parigi per portare concreto aiuto alle famiglie operaie e, mentre polemizzava con il socialista Proudhon, si adoperava, inascoltato, presso il proprio governo, condizionato dai liberali, affinché lo Stato intervenisse ad alleviare le sofferenze del proletariato.

Per non parlare, poi, del grande movimento sociale cattolico che si diffuse in tutt’Europa nell’Ottocento e che vantò dalla sua uomini come Ozanam, il vescovo sociale von Ketteler, Toniolo e numerosi altri. Lo stesso Leone XIII, nella Rerum Novarum (1891), chiedeva l’intervento dello Stato affinché si sovvenisse ai bisogni dei lavoratori. E con grande scandalo dell’ortodossia liberista, quel grande Pontefice scriveva che «il lavoro non è merce» e che pertanto ci sono àmbiti, non solo quelli della tutela del salario, nei quali la legge della domanda e dell’offerta, quella che secondo i liberisti muoverebbe spontaneamente il mercato verso il migliore dei mondi possibili, non può essere la legge decisiva. Furono questi reazionari ad aprire la strada verso lo Stato sociale, verso una forma di socialismo su basi etiche e non marxiste, verso le successive idee di Keynes.

Oggi molti vedono in quella antica tradizione di pensiero sociale religioso e/o nazionale la radice della cosiddetta economia sociale di mercato, che è stato il modello, più o meno keynesiano, dell’Europa del secondo dopoguerra.

Dicono che Monti, il quale ha studiato dai gesuiti, non sia un liberista puro ma un economista di scuola renana ossia un teorico dell’economia sociale di mercato. Si pone però una domanda: quando si parla di Economia Sociale di mercato cosa si intende? Certamente una economia sottoposta a prioritarie esigenze morali e sociali. Ma il punto sta in questa ulteriore domanda: a chi è affidata la tutela di tale priorità etico-sociale? Al buon cuore dei singoli, associati o meno, oppure innanzitutto allo Stato il quale dunque è chiamato ad assumere un ruolo decisivo nel coniugare il mercato con la socialità, fermo restando che la socialità deve restare comunque preminente affinché si possa davvero parlare di economia sociale di mercato? Si tratta, in altri termini, di chiarire il senso dell’aggettivo sociale, ovvero se esso coincida con il supposto spontaneismo intersoggettivo, quindi orizzontale e contrattuale, rivendicato dal liberismo come legge naturale del mercato, oppure se, invece, esso richieda un intervento superiore, dall’alto, della Autorità Politica, dunque statuale, non solo regolatore ma anche, dovunque si mostri necessario per tutelare il bene comune in assenza o meno dell’efficienza privata, anche gestionale. Riteniamo che non possa ridursi l’economia sociale di mercato al mero spontaneismo dei singoli o dei gruppi ma che bisogna darne una chiave di lettura in espliciti termini di Stato sociale di mercato ad indicare la indiscutibile priorità, politicamente garantita, dell’etica sociale sull’egoismo interindividuale che muove il mercato.

Altrimenti, una espressione come economia sociale di mercato diventa un mero flatus vocis. Si tratta anche, certamente, di cercare e ricercare sempre il giusto equilibrio tra Stato e mercato, ma non deve considerarsi equilibrio né quello che riduce ai minimi termini la presenza del pubblico né quello che l’estenda in maniera quasi onnicomprensiva. Il mercato, in un ordine sociale giusto, è contenuto nella Città Politica e non il contrario, come pretende il liberismo.

Tobin tax, money manager e banchieri centrali


James Tobin
  James Tobin
Monti, che sembra però essersene dimenticato, è stato anche allievo del premio Nobel per l’economia James Tobin che per primo propose negli anni ‘70 la tassa sulle transazioni finanziarie che poi da lui prese il nome di Tobin tax. Sull’ipotesi dell’introduzione di una tassa di tal genere, nella misura almeno minima dello 0,05%, si è scatenato in Europa un braccio di ferro che vede tra i pochi contrari la solita Merkel appoggiata dal conservatore britannico Cameron. Interessante quanto, in proposito, afferma Leonardo Becchetti, docente di Economia Politica all’Università di Roma Tor Vergata: «La battaglia sulla Tobin Tax… può segnare un primo momento in cui si rovescia il rapporto di forza tra le lobby finanziarie… e la società civile e la politica, alleate, … (una riforma organica dei mercati finanziari non è più rinviabile perché) cè un enorme spreco di risorse finanziarie (…). Pensiamo alle migliaia di miliardi indirizzati al salvataggio delle banche, che avrebbero potuto tranquillamente assicurare listruzione obbligatoria in tutto il mondo. Non dobbiamo rassegnarci a considerare questo (ossia quello disegnato dal liberismo e dal monetarismo, nda) come il migliore dei mondi possibili, ma batterci per cambiare le regole della finanza. Ordinandola alla crescita delleconomia e del benessere (…). Per questo è così importante la Tobin tax, che comunque ha un suo valore intrinseco perché porterebbe risorse ingenti: un recente studio parla di 9,9 miliardi di euro solo per lItalia (…). (La Tobin tax sarebbe un forte deterrente per la speculazione perché) Frenerebbe il trading ad altissima frequenza, un ambito nel quale ora siamo in una situazione tipo Far West, senza legge. E contrasterebbe quei meccanismi che vedono gli speculatori vendere i titoli di Stato in prossimità delle aste, per far salire lo spread e ottenere rendimenti più alti. Le manovre sullo spread sono diaboliche perché creano ed esasperano il cuneo fra Paesi forti e deboli, che in Europa esiste ma non è di quelle dimensioni, e con ciò riducono la convenienza dei Paesi forti ad avviare il cambiamento. Sembra quasi una strategia studiata ad arte per far saltare leuro (…). (Non solo però la Tobin tax, perché anche) I mercati Otc (over the counter, al di fuori dei circuiti delle Borse) devono essere regolamentati (…). Bisogna (inoltre) …separare lattività commerciale delle banche da quelle speculative. Il punto fondamentale è che occorre penalizzare luso speculativo del denaro rispetto al suo uso produttivo. Ormai è scientificamente dimostrato che la relazione tra incremento dellattività finanziaria e crescita si è interrotta negli ultimi dieci anni: in particolare, cè una correlazione negativa tra crescita delle attività sui mercati Otc e finanziamenti a disposizione delleconomia reale. Bisogna inoltre adoperarsi per rendere popolari questi temi (…). Occorre far passare lidea che quello su cui si deve puntare, per affrontare questioni come la crisi dei debiti sovrani, sono le relazioni fiduciarie fra gli Stati: il debito pubblico è cosa troppo seria per lasciarlo in mano alla speculazione» (1).

Il che significa che è necessario tornare al primato dell’economia reale su quella finanziaria che, però, soltanto presupponendo il primato del Politico sull’economico può essere davvero garantito. Deve tornare, e di forza, la grande politica sulla scena internazionale. Questo ci porta, quindi al vero problema che, alla fine, è etico ed antropologico coincidendo  con il livello di caratura politica e morale di una classe dirigente. I liberisti fanno leva proprio sul fatto che, a loro dire, poche volte nella storia si sono viste classi politiche degne di tal nome, mentre la tentazione dello stampare moneta per soddisfare ambizioni personali di potere, follie ideologiche o i bassi istinti e le passioni popolari e clientelari, è troppo forte per la comune umanità di cui sono impastati i politici. Ma questa polemica anti-politica dei liberisti può essere rovesciata e ritorta contro di loro. Perché mai, infatti, i banchieri, centrali indipendenti o anche quelli ordinari, dovrebbero essere migliori dei politici ed, a differenza di questi ultimi, scientificamente infallibili nella gestione dello strumento monetario? In un libro di diversi anni fa (2) Geminello Alvi, un steineriano-olivettiano assurto a ruoli di dirigenza nel mondo finanziario globale, ha spiegato, dall’interno della stanza dei bottoni, di quale miserevole pasta umana sono fatti anche i banchieri e i money manager. Si tratta di una umanità fragile, vanitosa, esposta alle lusinghe dell’adulazione e del potere come tutti gli altri, come i vituperati politici. Sicché non c’e affatto nessuna speranza di salvezza nell’affidarsi alla troppo mediaticamente santificata competenza dei banchieri. Basta, per esempio, ricordare gli errori madornali di un Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca governatore della Banca d’Italia, quando nel 1992 la lira fu sottoposta all’attacco speculativo di Soros, che la costrinse ad uscire dallo SME. Ciampi non si rese affatto conto della sproporzione delle forze in campo e bruciò miliardi di lire, gettandoli sul mercato, nel vano tentativo di sostenere il valore della nostra ex-moneta. Invece di uscire immediatamente dallo SME, consentendo mediante la svalutazione, alla nostra economia di riprendersi dalla batosta subìta, sotto l’attacco speculativo, a causa del cambio fisso che la legava alle altre monete europee, resistette per mesi dando fondo alle nostre riserve valutarie fino a prosciugarle. Fu come se un generale avesse voluto affrontare un esercito nemico di due milioni di uomini con appena duecentomila effettivi. Ecco un esempio della grandezza e della competenza di questi venerati gran maestri e banchieri internazionali.

Keynes, Roosevelt e il fascismo

È, tuttavia, necessario ammettere che sono stati i guasti prodotti dalla miseranda bassezza, morale e culturale, dell’attuale classe politica a permettere agli avvoltoi della speculazione di avventarsi sui beni pubblici nazionali acquistandoli a prezzi stracciati per poi rivenderli a prezzi gonfiati o trasferire all’estero patrimoni e altissime competenze tecniche. Alcide De Gasperi – non lo stiamo incensando ma solo citando – ebbe a dire che un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alla prossima generazione. Ecco, oggi mancano completamente gli statisti.

Statisti come Benito Mussolini

Tra le accuse che i liberisti rivolsero a Keynes vi fu anche quella per la quale le sue teorie economiche, stataliste ed interventiste, aprivano varchi immensi al fascismo. In effetti lo stesso Keynes, che era e rimase sempre un sincero democratico inglese, in una sua conferenza (3) nella quale riprendeva lo schema storico ternario gioachimita per applicarlo alla storia dell’economia (qui, si palesa quel retroterra teologico-filosofico che, come abbiamo detto all’inizio di queste nostre considerazioni, inficiano la sua opera sotto il profilo extra-economico), ammise che «le degenerazioni di questa era (l’era del capitalismo individualista e a-sociale, nda) nellambito governativo sono il fascismo da una parte, il bolscevismo dallaltra parte». Dunque per Keynes il fascismo poteva rappresentare una risposta, sicuramente a lui sgradita e ritenuta maldestra, alle deficienze del capitalismo liberista. Quando Monti, in Europa, ha manifestato, di recente, il suo timore di una insorgenza populista ha ragionato in termini non dissimili da quelli nei quali ragionava Keynes nella sua conferenza degli anni Trenta. Sta di fatto che quando Franklin Delano Roosevelt (che era massone perché negli Stati Uniti non si fa carriera politica senza esserlo) inaugurò il New Deal, mettendo in pratica i suggerimenti che lo stesso Keynes gli aveva dato, inviò i suoi tecnici in Italia per imparare dal regime fascista. Il presidente americano in quegli anni era prodigo di pubblici elogi alla politica sociale di Mussolini e non era il solo in Europa ed in America a guardare con interesse e speranza alla terza via suggerita dal corporativismo fascista. L’Italia in quegli anni era al centro dell’interesse politico e scientifico. Nelle università occidentali si discuteva ampiamente dell’esperimento italiano. La sinistra europea guardava con invidia ed interesse alle realizzazioni sociali del regime. Socialisti come il belga Henry de Man elaborava il suo pianismo, una proposta di dirigismo economico, guardando esplicitamente al corporativismo italiano. Altri come l’ex comunista Doriot fondava in Francia il Partito Popolare Francese che rappresentò una sorta di fascismo proletario. Il discorso ci porterebbe molto lontano e quindi dobbiamo fermarci qui per tornare a Roosevelt. Il New Deal è considerato oggi da molti storici come il massimo di fascismo che una società liberale come quella americana poteva, in quegli anni, assorbire. Quando avviò la fondazione della Tennessee Valley Authority, come si è detto, Roosevelt inviò i suoi tecnici in Italia, dove era in atto la creazione dell’IRI e dove l’intervento statuale per la bonifica delle terre era una realtà consolidata. La Tennessee Valley Authority, infatti, era una agenzia statale deputata alla bonifica delle terre incolte per consegnarle ai contadini, i farmer americani falcidiati dalla crisi del 1929. Quella agenzia aveva, inoltre, anche un altro importante scopo: quello di creare, mediante gli investimenti pubblici necessari alle opere di canalizzazione e trasformazione rurale ed idroelettrici, posti di lavoro in modo da erogare salari e, tramite l’effetto moltiplicatore della moneta, rimettere in grado la disastrata economia americana di ripartire.

Franklin Delano Roosevelt
  Franklin Delano Roosevelt
La Tennessee Valley Authority impiegò milioni di disoccupati per la costruzione di imponenti dighe allo scopo di sfruttare le risorse idroelettriche del bacino del Tennessee. Keynes aveva suggerito a Roosevelt come primo intervento immediato, in attesa di elaborare un piano più vasto di riforme, di mettere i disoccupati a scavare fosse e riempirle in modo da assicurare loro un reddito, perché quel reddito sarebbe stato speso dagli operai ex disoccupati ed in tal modo si sarebbe contribuito a riavviare la produzione industriale. Ma la politica sociale di Roosevelt non imitò il fascismo solo per la costruzione di grandiose opere pubbliche. Con il Social Security Act Roosevelt introdusse l’assistenza sociale e l’indennità di disoccupazione, malattia e vecchiaia che in Italia erano già una realtà grazie all’INFPS (Istituto Nazionale Fascista di Previdenza Sociale). Creò la SEC, un’agenzia per il controllo del mercato azionario, ad imitazione della antesignana fascista dell’attuale, ed attualmente depotenziata, Consob. Mediante una serie di leggi – l’EmergencyBank Relief Act, il Gold Reserve Act, il Glass-Steagall Act – sottopose a rigido controllo il sistema bancario e finanziario americano esattamente come si andava facendo negli stessi anni nell’Italia fascista, dove si pubblicizzava l’intero apparato bancario-finanziario e si separava il capitale bancario da quello industriale (il Glass-Steagall Act di Roosevelt imponeva la medesima separazione). Mediante altre leggi, come l’Agricultural Adjustement Act ed il National Industrial Recovery Act, si occupava di disciplinare la potenza produttiva agricola ed industriale americana onde prevenire fenomeni di sovrapproduzione anche vietando il lavoro minorile ed il lavoro nero. In Italia analoghi provvedimenti erano stati adottati per imporre la disciplina corporativa della produzione nazionale. Con una riforma fiscale ad ampio raggio, Roosevelt combatté l’evasione fiscale inasprendo, tra l’altro, le imposte sui ceti più abbienti, sulla base del sacrosanto principio tonoliano che chi più ha più deve contribuire. Introdusse il diritto di sciopero, il riconoscimento legale dei sindacati e l’obbligo della contrattazione collettiva, che erano per gli Stati Uniti tutte cose sconosciute e rivoluzionarie laddove invece nell’Italia fascista, pur tra mille difficoltà ed imperfezioni, il sistema sindacale e corporativo aveva già sancito, salvo il diritto di sciopero e di serrata, analoghi provvedimenti in favore della sindacalizzazione dei lavoratori e della contrattazione collettiva con efficacia erga omnes. Con la creazione del Work Progress Administration, infine, Roosevelt istituzionalizzò un’altra agenzia governativa per la gestione delle opere pubbliche su tutto il territorio nazionale. In Italia si provveda nello stesso senso con i Provveditorati alle Opere Pubbliche. Agli inizi della grande depressione anche in Italia si era ritenuto di seguire le classiche soluzioni liberali consistenti nella riduzione deflazionista dei salari, onde dare respiro ai profitti imprenditoriali ed agli investimenti. Ma la cosa non funzionò perché, per la ampie ragioni sopra illustrate a proposito delle deficienze dell’ideologia liberista, non poteva funzionare. Si cambiò allora completamente registrò e si avviò l’intervento statuale in economia, per rilevare le industrie decotte salvando con esse i posti di lavoro. Si trattò, anche se con Mussolini Keynes non aveva come con Roosevelt alcuna corrispondenza privata, dell’inizio di una politica di stampo squisitamente keynesiano.

Mussolini e Beneduce


Sabino Cassese, giudice costituzionale nonché grande studioso e docente di Diritto Amministrativo, pur di formazione illuminista, è uomo di grande onestà intellettuale. Nel suo ultimo libro, Italia: un Paese senza Stato, ha dedicato un capitolo intero alla ricostruzione storico-giuridica della grande operazione politica e tecnica realizzata dal regime fascista, negli anni ‘30, per far uscire l’Italia dalla crisi internazionale del ‘29-34. Una crisi del tutto simile a quella che stiamo vivendo oggi.

Alberto Beneduce
  Alberto Beneduce
Nel libro di Cassese si tratta della fondazione dell’IRI e dell’IMI ossia dell’avvio dello Stato imprenditore che sarebbe rimasto il fulcro dell’economia mista e dello sviluppo del dopoguerra. Cassese ricorda che Mussolini chiamò, per questa operazione, Alberto Beneduce che fascista non era essendo stato un gran commis di Stato, anche per meriti di loggia, sotto i precedenti governi liberali. Beneduce era stato massone e socialista. Non osteggiò mai apertamente il fascismo accettando di servire lo Stato durante il regime. Forse in questa scelta più che opportunismo di carriera deve vedersi una certa affinità ideologica tra gli ideali giovanili del Duce e del Beneduce, che erano stati, e in sostanza sempre rimasero, socialisti. Una figlia di Beneduce, dallo strano ma significativo nome di Idea Socialista, sposò un giovane funzionario dell’IRI destinato, anche per influsso del potente suocero, a grande ed ambigua carriera: Enrico Cuccia, il gran patròn, per designazione dell’oscuro banchiere Raffaele Mattioli, del capitalismo italiano della Prima Repubblica. Chiamando Beneduce, un tecnico di grande competenza, anche se antifascista, ad una delicata missione nazionale, Mussolini, in quell’occasione, consapevole dell’importanza dell’operazione, si comportò da statista e non da politico. L’operazione – che comportava grandi investimenti pubblici – fu possibile perché all’epoca lo Stato era ancora in pieno possesso della sovranità monetaria: non doveva in altri termini piazzare i suoi titoli sui mercati finanziari, che del resto non erano così forti e globali come oggi, e non doveva pertanto sottostare al ricatto dello spread. Un momento fondamentale di quella rivoluzionaria operazione, che come si è già detto suscitò la pubblica ammirazione di Roosevelt, fu l’avvio della pubblicizzazione del sistema bancario. Il sistema bancario, con la Legge Bancaria del 1936, fu sottoposto ad un forte controllo statale, si separarono le banche dalle industrie, si intervenne con metodi keynesiani per salvare le industrie ed i posti di lavoro. Ed onde evitare di socializzare le perdite e privatizzare i profitti, quando lo Stato risanò il sistema bancario ed industriale, decotto per effetto della crisi, si abbandonò l’idea iniziale, ancora succube del dogma liberale, di restituire ai privati quanto dal pubblico risanato. Fu, come detto, l’avvio della presenza dello Stato nell’economia che ha consentito il decollo industriale del dopoguerra e che ha retto fino agli anni ‘90. Certo, il policantismo, succeduto allo statismo mussoliniano, fece deviare il sistema verso gli esiti di Tangentopoli. Ma è un falso storico, ormai diventato un luogo comune mediatico, che la presenza del pubblico nell’economia sia sempre e comunque dannosa. Chi approfondisca la questione sotto il profilo dell’indagine storica, potrà constatare che lo Stato è sempre intervenuto perché costretto dalle inefficienze, non solo sociali ma anche economiche, del mercato e dall’incapacità di molti imprenditori rivelatisi veri dissipatori di quel patrimonio nazionale che è la tecno-struttura industriale di un Paese. Lo diciamo ai tanti cattolici conservatori e timorati del dio mercato: l’intervento dello Stato per le inefficienze del privato è del tutto legittimo alla luce del principio di sussidiarietà della Dottrina Sociale Cattolica.

Oggi – vigente il paradigma neoliberista (quello di Sarkozy e della Merkel, ovvero dei bocconiani ed harvadiani o freidmanniani che ne imbeccano le scelte di governo) –  una operazione come quella  degli anni ‘30 non è più possibile a causa del cappio al collo che ci hanno messo facendo aderire l’Italia ad un’Europa nella quale, per l’appunto, la BCE non è prestatore di ultima istanza per gli Stati. Il terrore tedesco e bocconiano per l’inflazione ha portato i popoli europei a sacrificare il Welfare sull’altare del moloch intoccabile di un dio-mercato che, secondo il paradigma liberista, sarebbe capace di autoregolarsi e tutto alla fine, per virtù della (esoterica?!) mano invisibile, aggiustare nella pacificazione e nel benessere globali. Come tutte le utopie millenariste anche questa sta mostrando il proprio volto fallimentare. Purtroppo a prezzo del nostro sangue e di quello dei nostri figli. La Grazia e la norma: Silete argentarii in munere alieno, restituire il potere di emissione o almeno il controllo dell’emissione monetaria allo Stato, all’autorità politica, necessita, dunque, insieme e prima di qualsiasi riforma tecnica, di una riforma morale in interiore homine, che solo la grazia può davvero concedere. Ricordando l’ammonizione di Agostino sugli Stati che sono solo briganti quando non retti da principi di giustizia. Tuttavia è possibile rendere responsabile l’autorità politica anche attraverso mezzi esteriori e coattivi. La restituzione del potere di emissione monetaria all’ambito del Politico, in modo da restituire, come è giusto che sia, al controllo della Comunità Politica quel bene comune che è la moneta, deve accompagnarsi a norme opportunamente studiate che responsabilizzino lo Stato nell’uso della sovranità monetaria.

In prima istanza, però, il problema è innanzitutto etico ovvero dipende dalla disposizione morale (che cattolicamente abbisogna della Grazia) al bene comune. E la moneta è, come detto, tra quelli giuridici ed economici, il principale bene comune. Ecco perché non può essere privatizzata o lasciata al governo dei banchieri privati. La creazione di moneta è una funzione troppo importante (dalla quale dipende la sovranità dei popoli nonché ogni politica che voglia perseguire, per quanto umanamente possibile, redistribuzione sociale del reddito nell’equità) per essere lasciata nelle mani dei banchieri. Alla luce della Rivelazione e del diritto di natura, per cui il Teologico è prima del Politico ma il Politico è prima dell’Economico, la priorità della Comunità Politica sul mercato (che non significa negare nella giusta misura lo spazio di legittimità al mercato e che quindi significa, correlativamente, riconoscere un giusto limite allo Stato ma senza castrarlo come vogliono i liberisti: la questione è nella continua ricerca di un sensato equilibrio tra Stato e mercato, pubblico e privato, Politico ed economia) è un indiscutibile imperativo etico, prima che politico.

È necessario, con ferma convinzione, proclamare Silete argentarii in munere alieno!

 
(fine terza parte di 4)

Luigi Copertino


Il Golpe (parte I)

Il Golpe (parte II)
Il Golpe (parte IV)





1
) Confronta Con la Tobin tax unaltra finanza è possibile, intervista su Avvenire del 12 gennaio 2012. È oltretutto molto interessante quanto il professor Leonardo Becchetti afferma in un altro suo intervento sul blog la felicità sostenibile. Sentiamo: «Il malato e la trasfusione. Questa crisi è come quella storia di un benefattore (gli Stati nazionali) che intervengono per salvare un paziente gravemente malato (le banche daffari) con una trasfusione (migliaia di miliardi). Il malato si riprende mentre il benefattore si indebolisce. Il malato per tutta gratitudine usa le nuove energie per attaccare il benefattore che lha salvato. Fuor di metafora, con la crisi finanziaria globale i debiti pubblici di alcuni dei principali Paesi occidentali sono significativamente aumentati per le operazioni di salvataggio degli intermediari in crisi (o per gli effetti indiretti della crisi) e sono successivamente diventati il nuovo obiettivo di attacchi speculativi. Una parte del mondo finanziario ha così privatizzato i profitti, socializzato le perdite e successivamente utilizzato i fondi pubblici impiegati per il proprio salvataggio per scommettere contro gli stessi salvatori. È comprensibile pertanto che la maggioranza dellopinione pubblica sia dellavviso che chi opera sui mercati finanziari debba contribuire a pagare i costi di questa crisi, per ora ridossati sulle fasce più deboli. Da questo punto di vista si ritiene che la TTF risponda ad unesigenza di giustizia e sia addirittura urgente visti gli eventi più recenti per mantenere la coesione sociale a livello comunitario. I tre piani. La crisi ha tre piani (sistema finanziario internazionale, Europa e Italia). Nasce da un tubo che si rompe al terzo piano e allaga i piani inferiori. Noi continuiamo solo a parlare di chi deve passare lo straccio al piano terra (l’Italia) per asciugare per terra. Senza capire che se non ripariamo il guasto al piano superiore tutto questo può non bastare per salvarci. Scacco matto in tre mosse. La BCE se vuole può dare scacco matto alla speculazione in tre mosse. Impegno ad acquistare tutti i titoli di Stato italiani di cui gli investitori internazionali vogliono liberarsi. Divieto di posizioni al ribasso o di acquisto di credit default swaps sul debito italiano per chi non possiede titoli. In questo modo progressivamente gli speculatori escono dal mercato dove restano BCE e investitori italiani. La sola dichiarazione di una strategia del genere dovrebbe rimettere a posto le cose facendo crollare lo spread sui decennali e consentendo alla stessa BCE di realizzare cospicui guadagni in conto capitali sui titoli che tiene già in portafoglio. È evidente che lannuncio e il mantenimento di questa strategia dovrebbe essere subordinato al rispetto da parte dellItalia delle strategie di risanamento già avviate. Il problema riguarda la stabilità nel tempo più che la situazione presente nella quale il nostro Paese sta emergendo come uno di quelli più virtuosi con un surplus vicino al 5%. Insomma il problema è sempre lo stesso, una rinnovata fiducia tra Stati ed istituzioni può consentirci di superare il problema. È proprio questo ciò che speriamo Monti riesca a conseguire dai partner europei. A casa nostra. A casa nostra dobbiamo agire sulle sacche di spreco che possono portare altre risorse [crediti dello Stato non riscossi nel settore delle concessioni del gioco dazzardo (si parla di 50 miliardi), lotta allevasione] ma utilizzare le nuove risorse non per aumentare un avanzo primario già consistente ma per ridurre le tasse sul lavoro e sui redditi in modo da restituire soldi nelle tasche degli italiani e cercare di contrastare la recessione».
2
) Stiamo citando a memoria, avendone avuto a suo tempo notizia da una recensione di Giano Accame, e pertanto non ricordiamo di preciso quale sia questo libro. Comunque uno di questi, tutti pubblicati negli anni ‘90: Il secolo americano o Le seduzioni economiche di Faust o ancora Dellestremo Occidente.
3
) Ora in J. M. Keynes Esortazioni e Profezie, Il Saggiatore, Milano, 1968.

 

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