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American KGB
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«Ripetiamolo: l’amministrazione  Bush ha voluto usare l’11 settembre come pretesto per invadere l’Iraq, benchè l’Iraq non avesse niente a che fare con l’11 settembre. Così, ha torturato delle persone per farle confessare questo inesistente collegamento».

A scrivere queste parole non è un blogger complottista. E’ Paul Krugman, opinionista principe del New York Times, e recente premio Nobel per l’economia (1). Krugman non parla qui da economista, ma - soppesando le parole - da cittadino informato.

Un rapporto della Croce Rossa Internazionale sulle torture praticate nelle carceri speciali americane (2), e sempre più frequenti testimonianze (anche di torturatori) stanno facendo emergere questa verità non ufficiale: il potere americano tortura per estorcere confessioni false. Su Al Qaeda. Sui legami fra Saddam e Bin Laden. E sull’11 settembre.

Uno dei torturati è Khalid Sheik Mohammed, un pakistano che (in cinque anni di isolamento a Guantanamo) si è confessato come capo di Al Qaeda nonchè «mastermind», ossia il progettista assoluto, dell’11 settembre. E mica solo di quel delitto. Ha ammesso di aver ucciso con le sue mani il giornalista Daniel Pearl, di aver organizzato l’attentato esplosivo in una discoteca di Bali nel 2002, tentato l’abbattimento di un aereo israeliano a Mombasa nonchè attentati a varie ambasciate israeliane e americane; ha confessato progetti per ammazzare Giovanni Paolo II, Jimmy Carter e Bill Clinton; per abbattere la Sears Tower a Chicago, per affondare petroliere nel Golfo Persico. Ha ammesso di aver preparato lui Richard Reid, il «terrorista della scarpa esplosiva», che salì a bordo di un aereo della American Airlines a Parigi, il 22 dicembre 2001, e cercò di darsi fuoco a una scarpa in cui aveva nascosto dell’esplosivo (una hostess lo immobilizzò). KSM si è anche accusato della «Operazione Bojinka», un fantomatico piano per dirottare contemporaneamente 12 aerei 12. Eccetera, eccetera.

Il personaggio, subito ribattezzato dai giornali «KSM», ha persino ripetuto queste auto-accuse - ciascuna delle quali basta per condurlo al patibolo - durante un’udienza nel giugno 2008, ampiamente riportata dai media perchè eccezionalmente tenutasi a Guantanamo alla presenza di 35 giornalisti. In quell’occasione cantò ad alta voce passi del Corano, e al rimbrotto del giudice militare, s’è scusato: «Il Corano dovrebbe essere dentro la linea verde. So che non posso parlare della tortura, so che questa è la linea rossa».

Più tardi, il prigioniero KSM è stato ascoltato da funzionari della Croce Rossa Internazionale, che hanno avuto un raro accesso a Guantanamo. Quel che ha detto loro sta nel rapporto della CRI. Basterà citarne una frase:

«Durante il più duro periodo del mio interrogatorio ho dato una quantità di false informazioni per venire incontro a quel che ritenevo volessero sentire coloro che mi interrogavano, onde far cessare il maltrattamento. In seguito io ho detto a costoro che i loro metodi erano stupidi e controproducenti...».

D’accordo, KSM può aver mentito alla Croce Rossa. Ma un servizio speciale della catena televisiva NBC conferma: il rapporto stilato dalla Commissione Senatoriale sull’11 settembre (9/11 Commission Report), che  «comprovò» che il mega-attentato del 2001 alle Twin Towers e al Pentagono era opera di Al Qaeda, si basa in gran parte sulle confessioni estratte ad alcuni detenuti di Guantanamo, specialmente a quattordici di loro (3).

Il 9/11 Commission Report, che è la colonna della «versione ufficiale», ampiamente stampato e distribuito, ha oltre 1.700 note a piè di pagina che indicano le «fonti» da cui risulta la verità ufficiale. Ben 441 di queste note, più di un quarto, fanno riferimento a «interrogatori condotti dalla CIA». Inoltre, la maggior parte di queste note riguardano i capitoli che illustrano i piani iniziali per l’attentato, come furono messe insieme le cellule terroristiche, come i dirottatori arrivarono in USA  (Capitoli 5, 6 ,7). Praticamente tutto il racconto si basa sulle «confessioni» di prigionieri definiti «enemy combatants», ossia privati di avvocati e persino di capi d’accusa, tenuti in isolamento e «trattati» con «tecniche dure d’interrogatorio»: nessun altro riscontro obbiettivo, come si dice, viene presentato a conferma delle confessioni.

Non solo: come ha appurato la NBC News, e come è stato confermato da agenti della CIA, all’inizio del 2004 i «nemici combattenti» in galera furono sottoposti ad un secondo giro di «interrogatori duri», fatti specificamente per rispondere a nuove domande poste dalla Commissione senatoriale. Nel complesso, la Commissione si è affidata completamente, per capire come fu progettato l’attentato dei supposti terroristi arabi, ad oltre cento rapporti d’interrogatorio della CIA.

Almeno quattro dei «nemici» i cui interrogatorii figurano nel «9/11 Commission Report» come prova dei fatti, hanno dichiarato di aver fornito le informazioni allo scopo di smettere di essere torturati. Lo hanno detto davanti al «Combatant Status Review Tribunal», una specie di gran giurì con giudici militari con il compito di decidere quali «enemy combatants» possano essere sottoposti ad un tribunale ordinario.

Molti particolari delle deposizioni degli imputati sono state cancellati con «omissis», ma fra gli atti resta (inavvertenza dei giudici militari?) la lettera del padre di uno dei quattro, che racconta i metodi cui è stato sottoposto suo figlio e protesta: «... questa  tortura è cessata solo quando Majid ha accettato di firmare una dichiarazione che non gli è stato nemmeno permesso di leggere».

Ecco un particolare che fa somigliare i tribunali militari USA  ai sinistri processi-farsa sovietici, dove imputati confessavano «spontaneamente» di aver sabotato e tradito, dopo interrogatori condotti da «procuratori» che volevano soprattutto strappar loro una firma sotto la «confessione» predisposta.

La NBC ha intervistato Philip Zelikov, direttore tecnico della Commissione: esperto di intelligence  e uomo di fiducia di Bush, è stato messo da Bush ad affiancare ed «assistere», per così dire, i senatori membri della Commissione, nella raccolta dei dati e degli indizi. Ma non si rendeva conto, chiedono i giornalisti a Zelikow, che certe «prove» venivano da confessioni estorte?

usa_kgb.jpgZelikov risponde balbettando: «Non che ne fossimo consapevoli, ma indovinavamo che cose del genere accadevano… Abbiamo provato a cercare fonti diverse per aumentare la nostra credibilità... Non è che ci credevamo ad occhi chiusi... Eravamo scettici. I problemi (di ottenere la collaborazione della CIA su questo, ndr.) rafforzarono le nostre proccupazioni circa gli interrogatori».

Michel Ratner, un giurista che presiede il Centro per i Diritti Costituzionali, obietta davanti alle telecamere della NBC: «Ma come! Siedi nella Commissione dell’11 settembre, hai a disposizione tutti i legali e lo staff della commissione senatoriali, e ti limiti a “indovinare” quel che accade, invece di chiedere che cosa sta accadendo? L’opinione pubblica considera il “9/11 Commission Report” come un documento storico affidabile. Ma se le sue conclusioni sono sostenute da informazioni ottenute con la tortura, allora sono sospette».

La NBC ha intervistato anche i membri dello staff, i funzionari e i legali che hanno assistito la Commission. Ottenendo risposte del tipo: «Controllare gli standard del trattamento dei prigionieri non faceva parte del nostro compito». «No, non abbiamo guardato a fondo a nella questione». «No, non abbiamo posto domande specifiche: esulava dai limiti del nostro mandato».

Insomma, la scusa di Norimberga: abbiamo solo eseguito gli ordini.

Zelikow getta le colpe sulla CIA: l’agenzia non ha lasciato che la Commissione  interrogasse direttamente  i detenuti: «Avevamo bisogno di maggiori informazioni per giudicare i rapporti che leggevamo; sul contenuto, il contesto e il carattere degli interrogatori...» (4). Ma se avevano sospetti che le confessioni erano estorte, non dovevano accettarle come prove, ritorce Ratner.

L’opinione pubblica americana (e non solo) è stata indotta a condonare gli interrogatori «duri» con l’argomento: questi individui sono comunque membri di Al Qaeda, terroristi, guerriglieri assetati di sangue catturati in battaglia in Afghanistan; pendagli da forca.

Macchè: il 90% dei detenuti nel carcere di Abu Ghraib erano innocenti ed innocui individui catturati a caso. E a dirlo è il generale di brigata (una donna) Janis Karpinski, ossia la direttrice di Abu Ghraib fino all’aprile del 2004, quando - dopo la comparsa delle foto sui maltrattamenti del carcere afghano - fu licenziata sui due piedi da Rumsfeld. Oggi, cinque anni dopo, la Karpinski si fa intervistare dal periodico Salon (5) e si lagna di essere stata il capro espiatorio della sporca vicenda.

Perchè parla solo oggi? Evidentemente perchè prima, finchè comandavano Bush e Cheney, non si sentiva sicura: un altro sentore di KGB.

Un altro che sente l’urgente bisogno di confidarsi con ritardo è il colonnello Lawrence Wilkerson: un pezzo grossissimo, è stato «chief of staff» di Colin Powell finchè costui è stato al Dipartimento di Stato. Wilkerson scrive al «Washington Notes», la newsletter del super-giornalista Steve Clemons, per confermare: la maggior parte dei detenuti a Guantanamo sono innocenti, e l’amministrazione Bush lo sapeva benissimo (6).

«L’atteggiamento era: non importa se un detenuto è innocente», scrive Wilkerson: «Anzi, poichè viveva in Afghanistan ed è stato catturato dentro o presso una zona di conflitto, deve conoscere qualcosa d’importante. Questa filosofia generale, in una forma anche più rozza, vigeva anche in Iraq ed ha portato all’incubo di Abu Ghraib. La sola cosa necessaria era estorcere qualunque cosa possibile da lui e dagli altri come lui, mettere tutto insieme in un programa di computer, e poi notare le connessioni incrociate... In breve, avere informazioni sufficienti su un villaggio, una regione, un gruppo di individui, nella speranza di collegare i punti e di identificare così dei terroristi o le loro manovre.... Così, più gente possibile doveva essere tenuta in detenzione il più a lungo possibile per  far funzionare questa “filosofia” della raccolta di dati d’intelligence. L’innocenza dei detenuti non c’entrava. Dopotutto, in genere erano contadini ignoranti, e per giunta musulmani...».

Spesso, i malcapitati erano persone denunciate da un vicino che ce l’aveva con loro per motivi propri; tanto più che gli occupanti americani davano premi in denaro a chi segnalava un sospetto «terrorista». Un altro vecchio trucco del KGB.

Tutti questi coraggiosi parlano ora perchè c’è Obama al posto di Bush. Obama ha appena  dichiarato pubblicamente, in un discorso al National Archives, che negli ultimi otto anni gli USA «sono usciti dalla retta via» praticando «metodi brutali come il waterboarding, che secondo alcuni erano necessari per la nostra sicurezza collettiva».

Nello stesso discorso, il nuovo presidente ha rigettato l’idea - avanzata da parti dell’opinione pubblica - di allestire una «Commissione di verità» sulle azioni dell’Amministrrazione Bush nella guerra al cosiddetto terrorismo.

«Non m’interessa  che ci rimettiamo a litigare sulle direttive degli ultimi otto anni».

Così, con l’aria di condannare un sistema che - l’ha detto lui stesso - «ha abbandonato le nostre tradizioni giuridiche e calpestato le nostre istituzioni e i nostri valori», Obama ha messo il coperchio su quel passato prossimo. E anche questo ricorda in qualche modo l’Unione Sovietica: Obama è come il Gorbaciov dei tempi ultimi, che cercò di salvare il regime dandogli un «volto umano» a posteriori.

Tanto più che Obama ha concluso: «Sappiamo che Al Qaeda sta progettando attivamente di aggredirci ancora. Sappiamo che questa minaccia sarà con noi ancora per molto tempo, e noi dobbiamo usare tutti gli elementi in nostro potere per sconfiggerla».

Insomma, la menzogna continua. E i metodi messi da parte sono ancora lì, con l’apparato pseudo-giuridico per riattivarli, dal Patriot Act con le sue leggi speciali fino alle «renditions» in Paesi che torturano senza problemi legali. Basta delocalizzare, e tutto continua come prima.

In Israele, per esempio. Il Committee Against Torture, un gruppo di dieci membri che agisce sotto  l’egida dell’ONU, ha chiesto ufficialmente allo Stato ebraico di consentire alla Croce Rossa l’accesso al campo - che sorge in località sconosciuta - ufficialmente chiamato «Facility 1.391».

Gruppi israeliani e palestinesi per i diritti umani hanno denunciato l’esistenza di questo lager, dove avvengono di routine torture di prigionieri arabi e palestinesi. Alcuni palestinesi, che sono stati ospiti della facility 1.391 nel 2002, sono in grado di testimoniare gli abusi fisici e le violenze subite (7).

Due cugini che sono stati presi a Nablus nel 2002 (i parenti  li hanno cercati per anni) si sono rivolti ad Hamoked, un gruppo israeliano che lotta per i diritti umani, quando sono stati liberati forse per sbaglio. I due, Mohammed e Bashar Jadallah, hanno riferto di essere stati tenuti in celle di due metri quadrati, con pareti dipinte di nero, nessuna finestra e una lampadina accesa per tutto il tempo. Nei rari casi in cui erano portati fuori, erano costretti a indossare occhiali da sub anneriti. Quando Bashar (50 anni) ha chiesto dove si trovava, gli è stato risposto: «Sulla luna».

L’altro cugino, Mohammed (23 anni) dice di essere stato ripetutamente pestato, incatenato stretto, costretto a restare seduto su una sedia bassa senza poter dormire (quando si assopiva veniva svegliato con getti d’acqua fredda); gli veniva impedito di andare al WC. I suoi interrogatori (gente dello Shin Bet) gli mostravano foto di familiari, minacciando di «farli finire male».

Si sa di un altro detenuto nel carcere segreto: Mustafà Dirani, un capo di «Amal» (gruppo sciita libanese), che ha  fatto una denuncia giudiziaria. Dirani dice di essere stato catturato nel 1994 e tenuto nella Facility 1.391 per otto anni, insieme allo sceicco Anbdel Karim Obeid, un capo di Hezbollah; l’uomo che lo interrogava per estorcergli informazioni, noto come «maggiore George», lo ha sodomizzato con un bastone. Il tribunale israeliano competente ha chiuso il caso nel 2004, quando Dirani è stato liberato nel quadro di uno scambio di prigionieri.

«Lo scopo del campo», dice Dalia Kerstein, direttrice di Hamoked, «è interrogare prigionieri del mondo arabo e musulmano. Vengono presi e i parenti non li cercano certo rivolgendosi a Israele».

Il campo sorge a 100 chimoletri a nord di Gerusalemme, e apparentemente è quasi del tutto sotterraneo.

«E’ peggio di Guantanamo sotto il profilo giuridico, perchè non è mai stato visitato (nè della Croce Rossa nè da alcuna altra autorità indipendente) e non si sa che cosa vi avviene», dice Dalia Karstein.

Non si sa quanti di questi lager segreti esistano in Sion. Vari ex detenuti parlano di una «Unit 504»,  sotto giurisdizione militare, dove i trattamento sono anche più spietati. La Commissione dell’ONU  che ha avanzato ufficialmente la domanda di visitare il lager (Israele ha rifiutato, ovviamente) ha raccolto oltre 600 querele di e detenuti.

Ishai Menuchin, direttore dello Israel Public Committee Against Torture, è uno dei benemeriti ebrei che ha raccolto e inviato alla commissione ONU le informazioni relative, che mostrano secondo lui che la tortura viene usata «sistematicamente». La sua paura è che, da quando Israele ha ridefinito Gaza come «Stato nemico», decine di palestinesi catturati durante il massacro scorso possono essere qualificati come «combattenti illegali» anzichè «detenuti di sicurezza», ed essere trattati in prigioni come la Facility 1.391.

Non lo sapremo mai.




1) Paul Krugman, «Grand unified scandal», New York Times, 22 aprile 2009. «The Bush administration put relentless pressure on interrogators to use harsh methods on detainees in part to find evidence of cooperation between al Qaida and the late Iraqi dictator Saddam Hussein’s regime, according to a former senior U.S. intelligence official and a former Army psychiatrist. Such information would’ve provided a foundation for one of former President George W. Bush’s main arguments for invading Iraq in 2003. No evidence has ever been found of operational ties between Osama bin Laden’s terrorist network and Saddam’s regime».
2) «ICRC Report on the Treatment of Fourteen ‘High Value Detainees’ in CIA Custody»,
International Committee of the Red Cross, 43 pp., February 2007. Il rapporto è stato tenuto riservato, date le gravi accuse all’amministrazione USA che contiene. Un riassunto è stato fornito da Mark Dammer, «US Torture: Voices from the Black Sites», New York Review of Books, 9 aprile 2009.
3) Robert Windrem e Victor Limjoco, «9/11 Commission Controversy», MSNBC, 30 gennaio 2008.
4) Ovviamente, Zelikow è un finto ingenuo. Bush lo fece capo del PFIAB (President’s Foreign Intelligence Advisory Board), una posizione da «uomo di fiducia», prima di distaccarlo alla Commissione 11 Settembre per  manipolarla. Il 10 settembre 2002, durante un incontro con un selezionato gruppo di opinion leader all’Università di Virginia, Zelikow spiegò: «E’ ovvio che l’Iraq non rappresenta una minaccia per gli Stati Uniti. Rappresenta un pericolo per Israele, ed è per questo che andiamo in guerra» contro Saddam. «L’amministrazione preferisce non battere su questo punto, perchè non è facile da vendere all’opinione pubblica».
5) Jen Banbury, «Rummy’s scapegoat», Salon, 21 maggio 2009.
6) Laurence B. Wilkerson, «Guest Post by Lawrence Wilkerson: Some Truths About Guantanamo Bay»,  Washington Note, 17 marzo 2009.
7) Jonathan Cook, «How many secret prisons does Israel have?», Counterpunch, 20 maggio 2009.


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