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Il potere e la grazia: cristianesimo e «scontro di civiltà»
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Premessa. Il Tremonti-pensiero

La lettura di un libro come «La paura e la speranza» di Giulio Tremonti fa riflettere (1). Nell’analisi, lucida, stringente, efficace, dell’attuale ministro dell’Economia si rivelano categorie di approccio per niente economicistiche. L’autore dimostra di avere un’ampia cultura che si avvale, nell’esame delle cause ultime della crisi globale in atto, di contributi teologici, filosofici e storiografici. Forse è proprio per questo che quella di Tremonti è anche una requisitoria contro i «sacerdoti» del pensiero unico economico che ha dominato la scena da trent’anni a questa parte, a partire dalla rivoluzione reaganiana e tatcheriana. Un’ideologia, questa, che egli chiama «mercatismo» ritenendola la perversione del liberalismo. Essa è nata all’incrocio tra un liberismo assoluto e l’eredità del marxismo. Perché, precisa Tremonti, morto il comunismo, la sua eredità è rappresentata dall’atteggiamento «giacobino», «dogmatico», dal volontarismo della prassi volta a trasformare il mondo secondo costruzioni teoretiche poi imposte, con la forza, alla realtà che di per sé, però, si ribella ad esse. E’ in questa eredità «rivoluzionaria» che bisogna, dice giustamente Tremonti, cercare le motivazioni, per l’appunto ideologiche, per le quali processi che avrebbero richiesto il lento fluire di generazioni, quelli dell’apertura dei mercati tra aree del mondo diverse per cultura, storia e parametri economici, sono invece stati compressi in pochissimi anni. Ricompresi tra due date fatidiche: il 9 novembre 1989, caduta del muro di Berlino, ed il 15 aprile 1994, giorno della stipula a Marrakech, in Marocco, del World Trade Organization (WTO). Date alle quali, osserva Tremonti, non a caso segue un’altra, quella dell’11 dicembre 2001, l’ingresso della Cina nel WTO, con la caduta globale di tutti i dazi e l’intercomunicazione, libera da ogni ostacolo, tra tutte le aree economiche, pur differenti, del pianeta. L’11 dicembre, però, fu, a sua volta, preceduto dall’11 settembre 2001, un segno sinistro che avrebbe dovuto far comprendere all’Occidente che si era messo su una strada errata. L’attentato alle Twin Towers, al di là delle vere responsabilità ancora tutte da accertare, è diventato per il mondo extra-occidentale il simbolo della reazione alla proditoria volontà di potenza del capitalismo liberista globale. Si scorge nella critica tremontiana del mercatismo, oltre, in parte, quella liberale di un Popper, la chiara lezione di Voegelin circa la matrice gnostica delle moderne ideologie. Tuttavia, a nostro giudizio, nell’incedere lucido di una analisi che rende conto del fallimento della globalizzazione meglio di tante altre, resta non ben compreso da Tremonti che il liberalismo non può essere escluso da ogni responsabilità. Vediamo perché.

Miserie del mercatismo e del liberalismo

«… è solo una coincidenza - scrive Tremonti - se le due date si allineano, se l’11 dicembre 2001 viene appena tre mesi dopo l’‘11 settembre 2001’? E’ in questo modo che inizia la nuova storia. Una nuova storia retta da una nuova ideologia. Dal mercatismo. Il 1989, con il crollo del muro di Berlino, segna la crisi sia del comunismo che del liberalismo. Sostituiti entrambi da un’ideologia nuova: il mercatismo, l’ultima follia ideologica del novecento. Il liberalismo si basava su di un ‘principio di libertà’ applicato al ‘mercato’. Il comunismo su una ‘legge di sviluppo’ applicata alla ‘società’. Il mercatismo è la loro sintesi. Perché applica al «’mercato’ una ‘legge di sviluppo’ lineare e globale. In questi termini il mercatismo può essere concepito come l’immissione del mercato in un campo di forza. Il mercatismo fa infatti convergere a forza, e sulla stessa scala, domanda e offerta, produzione e consumo, e per farlo normalizza tutto, standardizza e spazza via tutti i vecchi differenziali. Postula e fabbrica prima un nuovo tipo di pensiero, il ‘pensiero unico’, e poi un nuovo tipo ideale di uomo-consumatore: l’‘uomo a taglio unica’. Fonde insieme consumismo e comunismo. E così sintetizza un nuovo tipo di materialismo storico: ‘mercato unico’, ‘pensiero unico’, ‘uomo a taglia unica’ » (2). Emerge in queste considerazioni l’evidente richiamo alla critica francofortese del Marcuse all’«uomo ad una sola dimensione». Richiamo che però non pone Tremonti tra gli epigoni del pensiero marx-freudiano perché, in realtà, egli più che da Marcuse mutua la critica all’uniformizzazione occidentale direttamente dai segreti ispiratori di «destra» del pensatore marxista francofortese ossia Carl Schmitt, Martin Heidegger e, risalendo da questi ultimi indietro di un secolo, Joseph de Maistre e Louis de Bonald, i padri del pensiero controrivoluzionario, i cosiddetti «giacobini del legittimismo», condannati dalla Chiesa per il loro «tradizionalismo» fideistico. Ma, come si notava, Tremonti cerca di salvare dal naufragio della globalizzazione mercatista il liberalismo: «La crisi - egli continua - ruota intorno al mercatismo e questo libro non è affatto contro il ‘liberalismo’ (anzi), è ‘contro il mercatismo’, la versione degenerata del liberismo (…).

Prima del 1989 il mondo era diviso, ma dialetticamente equilibrato tra due ideologie diverse. L’ideologia liberale, l’ideologia comunista. Nel 1989… con la fine dei regimi comunisti, la forza ideologica profonda della sinistra si è spostata, da sinistra a destra, … e lo ha fatto senza trovare resistenze, portando con sé il suo storico tasso di dogmatismo e di fanatismo, di integralismo e di fondamentalismo. E’ così è cambiata per invasione di campo la struttura stessa del liberalismo (…). Diversamente dal comunismo, il liberalismo non poggiava infatti su una legge assoluta, ma da un lato sul principio della libertà applicato al mercato, dall’altro lato su un apparato dialettico, empirico e graduale fatto da regole, tempi, metodi, coessenziali alla libertà stessa (…).

Dopo il 1989, nell’illusione della vittoria, ha ceduto anche il liberalismo e lo ha fatto sotto la fortissima pressione ideologica che veniva proprio dalla parte opposta, da quella del comunismo. A fine esercizio, il comunismo è riuscito a trasferire e trapiantare proprio nel campo opposto, nel dominio del mercato, il proprio DNA, con l’idea che la vita degli uomini sia mossa e possa essere mossa da una ‘legge’. Il trapianto ha avuto successo. La vecchia mentalità laica e critica, empirica e graduale, tipica del vecchio liberalismo si è come assolutizzata. In questo modo, il nuovo mercato mondiale è diventato il campo di applicazione - naturale ed insieme ideale -  della nuova ‘legge’ di sviluppo globale (…). All’utopia comunista si è sostituita l’utopia mercatista. E’ così che prima nell’economia e poi nella società si è impianta la fabbrica del nuovo uomo postmoderno. Un tipo umano che non solo consuma per esistere, ma che esiste per consumare. Un soggetto che pensa come consuma… per cui i vecchi simboli civili e morali sono sostituiti dalle icone e dalle immagini commerciali. Per cui i jeans e le scarpe sono una divisa e la divisa un sostituto dell’anima, per cui il turismo sublima l’avventura umana, la musica metallica spiritualizza l’esistente, i concerti sostituiscono provvisoriamente la comunità… L’‘uomo a taglia unica’ non è solo la forma ideale del consumismo di massa diffuso su scala globale. E’ l’‘uomo normalizzato’ idealizzato per primo dal comunismo. E’ così consumismo e comunismo si sono infine trionfalmente fusi in un nuovo materialismo. La modernità è nel mercato e dunque il difensore dei consumatori è il nuovo tribuno della plebe, il supermarket è la nuova ‘agorà’, le banche sono il sinedrio della democrazia, le élite identificano e sostituiscono ‘rappresentandola’ la volontà dei popoli. Il territorio è dominato dai nuovi simboli, dalle nuove icone, dai nuovi totem del mercato (…). Tutto alla fine si è però saldato nel WTO, il pantheon del nuovo rito commerciale mondiale. Mercato unico, errore unico. Mai nella storia dell’umanità un processo politico della portata di quello attivato con il WTO, l’apertura del mondo al mercato, è stato consentito ed avviato con tanta istantanea e superficiale precipitazione». (3)

Di fronte ad una così magistrale descrizione dell’«uomo ad una dimensione», ossia del blondettiano «selvaggio con il telefonino», verrebbe spontaneo chiedere se Tremonti non abbia inteso, senza dirlo, descrivere anche il mondo come lo vede Berlusconi. Ma quel che invece è più importante annotare è il fatto che la pur lucida analisi di Tremonti pecca di modestia quando, appunto, vuol fermare la sua ricerca delle responsabilità sulla soglia del «vecchio» ed «equilibrato» liberalismo. Il punto è che lo spirito «antidogmatico», lo spirito critico e graduale del liberalismo, quello reale non quello immaginario di molti liberali, è tale innanzitutto nei confronti della Rivelazione del Dio di Abramo. Il liberalismo, anche quando nella sua forma moderata, con Locke e Giansenio, si esercita in lezioni di deismo e di intimismo fideistico, porta con sé tutto il soggettivismo ed il relativismo luterano e quindi rimane il principale fondatore della pretesa illuministica, ed occidentale, di tutto sottoporre al giudizio critico di una ragione che, negato il suo limite, si erge prometeicamente ad unico criterio di conoscenza e, soprattutto, di manipolazione, del reale. Il liberale, proprio quello moderato, anche quando, con Tocqueville, riconosce un ambito sociale alla fede lo fa con la superiorità del razionalista che ritiene utile alla società, per evitarne il collasso, la religione, sicché essa per tale via finisce inevitabilmente per diventare una religione civile al servizio della società borghese.

Tremonti dimentica che nel XIX secolo la critica religiosa contro il razionalismo era la critica contro il «perfettismo liberale» ossia contro l’idea, per l’appunto liberale, che la società e l’uomo potessero essere perfezionati per via morale e politica senza l’apporto della Fede Rivelata. E’ qui, nel perfettismo liberale, la radice della sostituzione all’antico atteggiamento contemplativo verso il mondo marxiano del primato della prassi sull’essere, per la sua trasformazione rivoluzionaria. E’ fuor di dubbio che nell’ambito del liberalismo sono sorte anche istanze intese a prendere le distanze dagli eccessi da esso medesimo derivati. Ma la radice ultima della follia rivoluzionaria è lì, nel liberalismo. Sicché non dovrebbe affatto meravigliare se dopo il comunismo sia arrivato il mercatismo, fusione del fanatismo ideologico della sinistra con il cinismo del liberismo selvaggio. Nessuno, neanche Tremonti, può dimenticare che se tra liberalismo e comunismo, come evidenzia giustamente il nostro autore, vi era, prima del 1989, una dialettica geopolitica questa dipendeva in larga misura dal fatto che tra le due ideologie in questione la dialettica sussisteva innanzitutto sul piano filosofico. Come ha sempre saputo la Chiesa che sin dal XIX secolo ha considerato liberalismo e comunismo le due complementari varianti del pensiero immanentista moderno. Ora, è certamente vero che negli ultimi decenni del XX secolo con Popper, che ha trovato il suo omologo in economia in von Hayek, il liberalismo ha elaborato una serrata critica al pensiero totalitario, la cui radice Popper identifica nel povero Platone (un errore di prospettiva di cui in Italia si è fatto portavoce, in ambito cattolico-liberale, Dario Antiseri), ma questo altro non significa che al momento del suo apogeo storico, coincidente con la fine del comunismo all’atto del passaggio dalla modernità alla post-modernità, il liberalismo torna, in qualche modo, alle sue origini «luterane» ossia alla riaffermazione del soggettivismo. Non più, però, nel senso «forte» della ragione che si sente capace di cambiare il mondo ma nel senso «debole» della medesima ragione che, come unico fondamento possibile della convivenza liberal-democratica, assume ora il relativismo ovvero la sua dichiarata incapacità non tanto di distinguere tra vero e falso quanto di accedere alla Verità, ritenuta di per sé sempre «autoritaria».

In tal modo, se ne facciano una ragione i cattolici alla Antiseri!, la caduta della pretesa totalizzante della ragione non riapre affatto la via al Dio rivelato. In realtà la strada è adesso spianata al trionfo del soggettivismo, dell’individualismo, fino al nichilismo. Non condividiamo molte sue prospettive (soprattutto quelle che riguardano le proposte che, come vedremo, egli fa circa le soluzioni «di civiltà»), ma ammettiamo che quello del quale Tremonti ha descritto, in modo senza dubbio magistrale, una fase cruciale, ossia quella che sta vivendo la nostra generazione tra XX e XXI secolo, è nient’altro che l’esito ultimo del processo di secolarizzazione. Un processo «trans-politico» che negli anni ‘70 Augusto Del Noce, il quale in proposito profetizzava il «suicidio della rivoluzione» nel finale esito del «comunismo aziendale» ossia nel permissivismo consumista, già vedeva dipanarsi tra un momento «sacrale», coincidente con l’epoca delle grandi ideologie totalitarie (nazismo e comunismo), ed un momento «profano», coincidente con il raffreddamento nichilista post-ideologico rappresentato dalla reificazione totale dell’uomo nella mercificazione globale del mondo. Del Noce in questo itinerario storico-filosofico scorgeva non già un progresso ma una ulteriore fase di avanzamento dell’emersione del nichilismo, che è il vero ed ultimo fine del processo di secolarizzazione iniziato nel XVI secolo.

Augusto Del Noce denunciò il neo-liberalismo, ossia l’attuale «mercatismo» tremontiano, che nel momento in cui egli scriveva si era appena affacciato agli orizzonti della storia, come un «nuovo totalitarismo» in quanto a controllo sociale molto più efficace, perché «invisibile», rispetto ai precedenti modelli, arcaicamente rozzi, dell’hitlerismo e dello stalinismo, che ne sono stati i precursori in uno stadio di sviluppo ancora embrionale. Dopo la «morte di Dio» è ormai giunta la «morte dei surrogati ideologici di Dio», ossia delle fedi politiche intramondane. Un evento, questo, che ci riporta, quasi a chiudere il cerchio iniziato con il «libero esame» di Lutero, al primato presuntamente intoccabile di un ego sempre più prometeico nella sua volontà di ridurre il mondo a strumento delle proprie voglie e pulsioni nichiliste ma anche sempre più a sua volta strumento, inconsapevolmente agito, di forse subumane e preternaturali che, sbandierando l’illusione di un uomo nuovo finalmente libero ed emancipato da Dio, e dai suoi surrogati, in realtà reifica l’intera umanità nel «mercatismo», ovvero, in questo Tremonti ha ragioni da vendere, nella più assurda follia ideologica, nel più perfetto totalitarismo, mai visto. Il fatto che, ora, questo sistema sembra entrato in crisi, con il crollo dell’economia globale iniziato nel 2007, non autorizza, purtroppo, nessuno a dire che l’umanità stia a fatica ritrovando la strada giusta, quella che per millenni ha percorso, quella che porta verso l’Alto.

Le giuste ragioni della critica tremontiana

I liberali dimenticano, nella loro esaltazione del primato della libertà, che non è data all’uomo alcuna vera libertà al di fuori del suo rapporto di filiale amore con l’Altissimo. Ogni volta che l’uomo, sin dalla tentazione edenica, ha provato a fare a meno di Dio, anziché acquisire maggiore libertà l’ha persa del tutto. Ecco perché non si può negare che il totalitarismo, sulla definizione «scientifica» del quale sociologi e politologi si accapigliano da decenni, altro non è che l’immanentismo, la riduzione degli orizzonti dell’umanità alla sola mondanità. Il liberalismo, proprio per questo, non può sfuggire ad esiti totalitari, magari imprevisti o non voluti. Esso, sia agli inizi che alla fine della parabola storica dell’immanentismo, che con il passaggio dal moderno al postmoderno, ossia con il trapasso dalla ragione ideologica alla ragione utilitaristica, dallo statalismo al liberismo, dal comunismo al mercatismo globale, sembra giunta agli esiti ultimi, rimane, nella sua essenza più profonda e nel suo sviluppo più coerente, incompatibile con la Fede cristiana nella Trascendenza Divina. Il mercatismo è sì, come giustamente ci dice Tremonti, lo sviluppo del comunismo ma del comunismo quale, a sua volta e nella sua epoca, sviluppo del liberalismo. Il liberalismo non mantiene, a consuntivo, le sue promesse ed è soggetto, esattamente come tutte le ideologie partorite dall’immanentismo, ad un processo di eterogenesi dei fini per il quale partendo da un anelito di libertà per l’essere umano, anelito in apparenza cristiano ma in realtà mancante dell’autentico fondamento di grazia che può darsi solo nell’adesione del cuore, si rovescia, all’esito della sua parabola storica, nella peggior forma di reificazione dell’uomo: la mercificazione totale nel mercato globale.

Alla luce di queste osservazioni, non possiamo non essere d’accordo con Tremonti quando scrive:

«Il secondo  conto che ci presenta la globalizzazione, dopo lo shock sui prezzi e sul carovita, è … quello della ‘crisi finanziaria’. Un conto che, per la verità, la globalizzazione ha presentato per prima a se stessa. Sotto la pressione della crisi… stanno… per primi dichiarando fallimento proprio gli alchimisti che, appena ieri (solo alla fine del Novecento), hanno inventato il mercatismo, l’utopia-madre della globalizzazione, il suo strapotente motore ideologico: i liberali drogati dal successo appena ottenuto nella lotta contro il comunismo; i post-comunisti divenuti liberisti per salvarsi; i banchieri travestiti da statisti; gli speculatori-benefattori; e i più capaci pensatori di questo tempo, gli economisti, sacerdoti e falsi profeti del nuovo credo. Spinta insieme dall’ideologia mercatista e dalla nuova tecno-finanza, che ne ha finanziato il miracolo quasi istantaneo, la magia della globalizzazione si sta risolvendo nel suo contrario. Lubrificata all’inizio dal magico fluido del denaro, la nuova macchina miracolosa si sta inceppando proprio a partire dalla finanza (…). E’ certo che, a partire dall’‘agosto 2007, dalle profondità misteriose del capitalismo finanziario salgono in superficie scosse fortissime, che spezzano certezze fino a ieri assolute (…). Le scosse già registrate sono sufficienti per far tramontare l’idea fiabesca che il progresso economico possa essere continuo e gratuito, e con ciò segnano il nostro improvviso ritorno dal futurismo finanziario alla durezza della realtà materiale… portano con sé la fine dell’illusione che grazie al nuovo capitalismo il profitto possa essere estratto con istantanea rapacità da titoli di debito di cui non si conoscono origine e fondamento o da titoli di proprietà che non esistono in concreto, come nella realtà virtuale di un videogame; mettono infine in crisi il meccanismo di sviluppo della globalizzazione. Globalizzazione e finanza sono state infatti le due facce di una stessa medaglia. Globalizzazione e finanza hanno fatto coppia fin dal principio, hanno subito cominciato a muoversi in simbiosi (…).
E’ stato scritto - davvero piuttosto riduttivamente - che quella in atto non è una crisi di ‘liquidità’, ma ‘solo’ una crisi di ‘fiducia’. In realtà, dire che nel mercato finanziario c’è liquidità ma non c’è fiducia è un po’ come dire che c’è sì una Chiesa, ma in temporaneo difetto della fede! (…). Ma in ogni caso, quello che è ‘già’ successo basta da solo ed avanza per spingerci verso orizzonti mentali diversi da quelli fin qui dominanti, verso una visione diversa della vita, meno materiale e più spirituale, meno chiusa nel privato e nel ‘laissez faire’, più comunitaria, più responsabile, in una parola più politica. E’ l’annunciato, clamoroso ‘ritorno del pubblico’. L’economia è importante, ma la realtà nella sua pienezza e la vita nella sua complessità sono una cosa diversa. Il mercatismo, l’ideologia totalitaria inventata per governare il XXI secolo, demonizzava lo Stato e quasi tutto ciò che era pubblico o comunitario, ponendo la sovranità del mercato in posizione di dominio su tutto il resto. Ora non si può più dire che questa sia la linea giusta (…). Ancora qualche anno fa, infatti, quando si notava che c’erano in giro milioni di disoccupati, lo si giustificava dicendo: ‘E’ il mercato’. Il mercato con la sua mano invisibile, ma alla fine infallibile. Ora, davanti a un’impressionante catena di potenziali ‘default’ bancari, si assiste invece, e lo si accetta, all’intervento della mano pubblica attraverso ‘iniezioni di liquidità’ nel mercato finanziario, iniezioni operate sistematicamente, illimitatamente e permanentemente dalle Banche Centrali. E cioè da banche pubbliche. A riprova del fatto che in un settore vitale del mercato, il settore finanziario, la mano privata è così invisibile che, proprio per questo, deve essere sostituita dalla ben più visibile mano pubblica» (4).

Siamo ancora d’accordo con Tremonti quando scrive:

«… l’Europa è stata infatti, ed è ancora - ed è questo il fulcro del suo attuale essere politico -, il principale e più tipico punto di incrocio tra due forze tra loro opposte: la forza ‘crescente’ del mercato globale; la forza ‘decrescente’ dello Stato nazionale. E’ un fenomeno, quello della crisi dello Stato-nazione, evidente da un po’ di anni. Ma non da molti. Nel 1989, per esempio, il tema non era davvero frequente (…). Sotto la pressione dell’economia globale si è in particolare spezzata, in Europa, la catena politica fondamentale: la catena Stato-territorio-ricchezza (…). Un tempo, allo Stato bastava controllare il suo territorio per controllare la ricchezza e dunque per esprimere la sua forza politica: per riscuotere le tasse, per battere la moneta, per esercitare la giustizia. Il territorio era infatti il container della ricchezza, agraria e mineraria, o la base della nuova ricchezza industriale. La ciminiera, la grande macchina a vapore. Ora non è più così. La ricchezza, sempre più dematerializzata e finanziarizzata, sfugge ai suoi antichi vincoli territoriali, ci vola sopra. Lo Stato resta a controllare il suo territorio, ma non controlla più la parte affluente e strategicamente rilevante della ricchezza, e per questo perde quote crescenti del suo originario potere politico: potere pensato, in una logica di ‘monopolio della forza’, dentro un sistema a dominio territoriale chiuso. Un tipo di dominio che dava appunto allo Stato-nazione il potere esclusivo di battere moneta, di riscuotere le tasse, di esercitare la giustizia. Non solo. In Europa questo processo storico ha preso e prende infatti una forma politica particolare e addizionale, perché una quota notevole della forza politica residua dello Stato-nazione non è stata conservata, ma a sua volta devoluta verso l’alto, all’Unione Europea. Una Unione che per suo conto, allargandosi di continuo fino a comprendere 27 Paesi, ha prodotto un ulteriore effetto di dispersione di forza. L’Europa che c’è ora non è né carne né pesce, siamo tra la fine del giorno e il principio della notte. Non abbiamo più la vecchia macchina politica nazionale, ma non abbiamo ancora una macchina politica europea. La vecchia politica nazionale è stata infatti erosa dalla globalizzazione e, al contempo, devoluta verso l’alto in nuovi contenitori europei, a loro volta sempre più allargati. Contenitori che, non avendo un’identità politica propria, non hanno neppure una propria forza» (5).

Non possiamo non acconsentire con Tremonti neanche quando, proprio lui che fa parte di un club riservato come l’Aspen Institute, vuole svelarci dall’interno i «segreti iniziatici» degli «illuminati» e dei «fanatici millenaristi» che governano il mondo ed osserva:

«E’ finita in Europa l’‘età dell’oro’. E’ finita la fiaba del progresso continuo e gratuito. La fiaba della globalizzazione, la ‘cornucopia’ del XXI secolo. Una fiaba che pure ci era stata così ben raccontata. Il tempo che sta arrivando è un tempo di ferro (…). in un soffio di tempo, in poco più di dieci anni, sono cambiate la struttura e la velocità del mondo. Meccanismi che normalmente avrebbero occupato una storia di lunga durata, fatta da decenni e decenni, sono stati prima concentrati e poi fatti esplodere di colpo. Come si è già visto in tante altre rivoluzioni, quella della globalizzazione è stata preparata da illuminati, messa in atto da fanatici, da predicatori partiti con fede teologica alla ricerca del paradiso terrestre. Il corso della storia non poteva certo essere fermato, ma qualcuno e qualcosa… ne ha follemente voluto e causato l’accelerazione aprendo come nel mito il ‘vaso di Pandora’, liberando e scatenando forze che ora sono difficili da controllare (…). Quando la storia compie una delle sue grandi svolte, quasi sempre ci troviamo davanti l’imprevedibile, l’irrazionale, l’oscuro, il violento e non sempre il bene. Già altre volte il mondo è stato governato anche da demoni. In Europa, per la massa della popolazione - non per i pochi che stanno al vertice, ma per i tanti che stanno alla base della piramide - il paradiso terrestre, l’incremento di benessere portato dalla globalizzazione è comunque durato poco, soltanto un pugno di anni. Quello che doveva essere un paradiso salariale, sociale, ambientale si sta infatti trasformando nel suo opposto. Va a stare ancora peggio chi stava peggio. Sta meglio solo chi già stava meglio. E non è questione di soldi. Perché la garantita sicurezza nel benessere che sarebbe stato portato dalla globalizzazione si sta trasformando in insicurezza personale, sociale, generale, ambientale (…). Nella grande famiglia delle idee il ‘mercatismo’, la fanatica forzatura del mondo nel liberismo economico, la fede illusoria in cui tantissimi hanno creduto negli ultimi anni, ha un antenato illustre: l’‘illuminismo’. Un antenato lontano più di due secoli e certo molto più prestigioso e famoso. Ma il mercatismo né è comunque l’ultimo discendente, un discendente astuto e calcolatore, commerciale, terminale. Come due secoli fa l’illuminismo poneva l’individuo al centro dell’universo e della storia… immettendolo nella prospettiva di un continuo progresso materiale capace di garantire il diritto alla felicità, così la nuova modernità mercatista nata con la globalizzazione e dalla globalizzazione si è candidata a costituire per i decenni a venire una nuova fede razionale e secolare. Una fede… basata (sul) … ‘mercato’ invece che sulla vecchia e ormai superata astrazione della ‘società’ ideale; … basata sugli ‘interessi’ anziché sulle ‘idee’ … basata su ‘desideri’ proiettabili senza limiti in nuove dimensioni di sogno piuttosto che sui vecchi ‘bisogni’ materiali ormai, in Occidente, già quasi tutti più o meno soddisfatti. In questi termini, per il combinato disposto tra una nuova ingegneria sociale e un’illusione demenziale, il mondo a venire avrebbe dovuto essere felice e sempre più felice (…). Non è andata esattamente così, se non per poco (…). Cosa è successo in questi anni in Europa, cosa ha cambiato la nostra vita? Cosa ci ha portato via la speranza? Cosa ci consegna ad un futuro senza futuro? Perché abbiamo buttato via la civiltà contadina, ma non sappiamo più gestire la modernità? Perché abbiamo scambiato gli interessi con i valori, l’avere con l’essere, il consumismo con l’umanesimo? Perché, barattando il piccolo con il grande, abbiamo firmato una cambiale mefistofelica con il ‘dio mercato’? Perché, passando disinvoltamente ‘from Marx to market’, dall’utopia comunista all’utopia mercatista, abbiamo fatto del mercato unico il nostro nuovo habitat? (…). Perché siamo passati da un eccesso all’eccesso opposto, dall’impulso del bisogno alla frenesia compulsiva dello spreco? Cosa ha piegato le curve un tempo piene del nostro progresso? (…). Perché la crisi della nostra società… è già segnata dallo straniamento, dalla solitudine nella moltitudine, dal ‘nichilismo’, da esplosioni irrazionali di violenza individuale e collettiva (…). Perché c’è tanta alienazione dalla politica come se dopo il comunismo esistessero solo le privatizzazioni? Perché stiamo perdendo il nostro tessuto connettivo? Perché ci sono più turisti fuori che fedeli dentro le nostre cattedrali, lo splendore pietrificato della nostra storia? Perché si fa fatica a credere, ma c’è anche un totale smarrimento per il fatto di non credere? (…). Perché l’Europa non è più la signora della storia e rischia di essere spiazzata dalla storia, restandovi solo come un mero agglomerato geografico? Perché gli altri nel mondo hanno una politica, mentre noi in Europa abbiamo per politica la ‘non politica’? Cosa possiamo fare per invertire questa tendenza, per sottrarci a questa non ineluttabile fatalità?» (6).

Un limite cristianamenente non oltrepassabile

Dunque non possiamo non condividere molte delle analisi di Giulio Tremonti. Eppure …! Sì, c’è un «eppure» che per un cristiano è dirimente e sul quale non possiamo sorvolare, pur nella condivisione di tante argomentazioni tremontiane. L’«eppure» in questione trapela proprio quando Tremonti passa dall’analisi alla proposta, benché sul piano politico molte di quelle proposte sono sicuramente auspicabili. Ma, appunto, per il cristiano la politica non ricopre il primo luogo, ma solo il secondo. L’economia il terzo. L’approccio cristiano alla politica, l’approccio di colui che sa che il Regno non è di questo mondo pur essendo Esso già presente in questo mondo e sa pertanto di non essere lui del mondo pur essendo ancora nel mondo, non può che essere sempre «distaccato». Occuparsene, della politica, certamente perché anche il bene della Città degli uomini è un bene voluto da Dio ma con la consapevolezza che il fine principale cui tendere, pur nell’adempimento onesto e fedele ai doveri politici, e magari anche tramite questa via, è quello della Città di Dio.

Se certamente conveniamo ancora con Tremonti quando toglie al lettore l’illusione «mercatista» che «…  la pace perpetua… sarebbe stata finalmente possibile in un mondo livellato sulla geografia piana del grande mercato», perché in effetti da quando Kant si è fatto «cattivo profeta» della Pace Perpetua il mondo ha conosciuto le più terribili guerre che si siano mai viste, la nostra prospettiva inizia a divaricare dall’attuale ministro dell’economia laddove egli, giustamente lamentando che le nostre tradizioni civili sono «virtuosamente ibridate e contaminate con quelle straniere, considerate uguali o superiori, spesso per effetto della loro esotica novità, in un misto tra ‘fusion’ e ‘new age’ » poi però afferma perentoriamente che l’esportazione di quelle nostre tradizioni è «ragione… di un nostro legittimo orgoglio, come del resto era già ai tempi del vecchio colonialismo» (7).

Da qui non seguiamo più la via tracciata da Tremonti perché inizia esattamente da questo punto a far capolino il lato neocon del suo pensiero. Inizia qui a balenare il richiamo, inquietante, alle radici ed alle identità usate come mazze ferrate e cemento civile nello scontro di civiltà, secondo una prospettiva che, pur senza dirlo, Tremonti mutua da Huntington. La prospettiva è la stessa dei neocon americani: soltanto che al posto dell’impero statunitense Tremonti mette la «fortezza Europa» (il che sia detto per inciso, sul mero piano della realpolitik, è certamente preferibile all’egemonia americana). Qui si appalesa l’uso strumentale, per fini di potere, non solo delle radici e delle identità ma persino della Fede. Un uso «anticristico».

Diciamo subito che non mettiamo affatto in dubbio la dichiarazione di fede in Dio che Tremonti ha fatto durante una recente intervista televisiva concessa a Lucia Annunziata. Non sta noi giudicare il suo cuore e per quanto ci riguarda siamo dispostissimi a credergli, anche perché l’uomo ci è simpatico e lo studioso è da noi stimato. Tuttavia riteniamo che la sua sia, nel rapporto con la politica, una fede ancora un po’ troppo «eusebiana» (il riferimento è ad Eusebio di Cesarea), ossia «cesaropapista», piuttosto che agostiniana o tomista.

La proposta di Tremonti, al di là della sua personale convinzione di fede, assomiglia molto, troppo, all’ateismo devoto dei Giuliano Ferrara, dei Marcello Pera e delle Oriana Fallaci. Le radici religiose per Tremonti diventano il necessario collante civile, la religione civile, per un progetto politico ed alla fine quel che prevale non è la fede ma il progetto. Così, lamentandosi dell’Europa «envertebrata», Tremonti osserva:

«Bruxelles, castello di Laeken, 14 e 15 dicembre 2001, vertice dei capi di Stato e di governo europei. Si lancia il progetto di una nuova costituzione europea. Nel corso dei lavori si propone di inserire nel testo il riferimento alle radici giudaico-cristiane dell’Europa. Si apre un dibattito (…). Nel primo tempo della partita ha vinto l’Europa-mercato, ha vinto una visione dell’Europa come piattaforma ideale per sublimare ancora una volta il mercatismo; per questo le ‘radici’ non sono state inserite nella bozza di testo costituzionale, celebrando invece il trionfo del mercato, tanto su quel che resta degli Stati nazionali europei, quanto e soprattutto sul nucleo embrionale dell’Europa, un nucleo da modellare a sua volta ad immagine e somiglianza del mercato. E’ così che l’Europa, rinunciando a codificare le sue radici in nome del mercatismo, più ancora che del laicismo, ha rifiutato la propria identità, perché ha rifiutato la propria anima. E, rifiutando la sua identità e la sua anima, accettando la confusione globale, l’opposto della cultura che invece per sua natura non è solo universale, ma anche locale, ha rinunciato alla sua difesa dalle forze esterne che premono sull’Europa. La difesa dall’esterno è infatti possibile solo se si sa cosa si è all’interno e se ci si crede. Nel secondo tempo non è comunque andata propriamente così, perché i popoli che hanno potuto votare hanno votato contro la nuova e sradicata bozza costituzionale. E’ stato ed è dunque, questo delle ‘radici’, l’inizio di una nuova e possibile storia, perché con il solo mercatismo l’Europa non può che declinare…» (8).
Un’analisi che «tenta» - lo ammettiamo - il nostro sentire cattolico ed anche il nostro sentire nazionale. Tanto più che l’Europa attuale è l’Eurocrazia massonica che sforna a piè sospinto direttive contro la famiglia, per la parificazione delle unioni di fatto anche omosessuali alla famiglia, per favorire aborto ed eutanasia, insomma per dare colpi su colpi a tutto ciò che è diritto di natura prima ancora che morale di fede. Non solo: ci «tenta» tanto più che lo stesso Tremonti, a margine di quanto appena detto, scrive:

«La prima, e in qualche modo superficiale o parziale, interpretazione ha visto questo dibattito come una partita giocata tra Parigi e Roma. Tra Parigi, luogo tutelare dei ‘Lumi’, e Roma, centro storico e spirituale. L’interpretazione più vasta e più profonda è invece un’altra: non una partita tra Parigi e Roma, ma tra Londra e Roma e, al fondo, la lotta tra due visioni della società. Londra come base di irradiazione di una visione della società che, banalizzandosi nei consumi e di riflesso nei costumi, si identifica e si appiattisce nell’economia: l’idea dell’‘Europa-mercato. All’opposto, l’idea dell’‘Europa politica’. Frutto della sua storia passata e proiettata nella storia a venire proprio perché costruita come qualcosa di diverso e più alto, rispetto alla geografia piana tipica di un’area di libero scambio più alcune autorità guardiane preposte alla regolamentazione del traffico» (9).

Parole, queste, che nel richiamare l’opposizione «Londra/Roma» fanno riecheggiare quelle storiche tra «Protestantesimo/Cattolicesimo», «Perfida Albione/Italia proletaria», e nelle quali ci sembra perfino scorgere un richiamo all’opposizione gollista all’ingresso dell’Inghilterra in Europa. Tutte richiami che, lo diciamo apertamente, non ci dispiacciono affatto. Resta, però, quell’«eppure» al quale abbiamo iniziato a dare il nostro cristiano contorno argomentativo e che non ci può esimere dal lanciare un «caveat» e ricordare che la fede non è, non può mai essere, un «instrumentum regni» né la Chiesa cattolica, pertanto universale, può identificarsi con la sola Europa o, peggio, con il solo occidente, benché europeo e greco-romano, ma non occidentale ossia non anglosassone, è, insieme a quello ebraico, il suo nucleo storico principale. Il Cattolicesimo non può essere ridotto ad una teologia politica funzionale allo scontro di civiltà, o anche a quello della concorrenza economica, tra Europa e resto del mondo. Fare del Cattolicesimo una teologia politica significa non essere realmente cristiani ma essenzialmente «pagani». Significa essere «maurassiani». Lo Spirito Santo, pur fermentando le civiltà, è al di sopra di qualsiasi civiltà, è più in Alto.

Il fatto è che in Tremonti si agita una inquietudine «wolkisch», populista e romantica, che si dipana lungo un percorso «rivoluzionario-conservatore» molto evidente:

«… pochi riflettono - egli scrive - su quello che non c’è più: il ‘romanticismo’. E’ invece proprio a partire dalle conseguenze di questo vuoto che va avviata la riflessione, perché la fine del romanticismo è stata in parte un bene, in parte un male. E’ stato un bene che il flusso globale e banale dei consumi, diffusi su scala di massa e standardizzati, abbia dissolto quell’infernale cocktail di idee e di ideologie, di pulsioni e di leggende, di miti e di inni, di luoghi sacri e di stati maggiori che, combinandosi al principio del Novecento con la meccanica moderna, ha finito per insanguinare l’Europa. Anche per questo è impensabile un’altra guerra tra le nazioni europee, finalmente accomunate nei principi della pace, anche perché polarizzate sui consumi e da questi rese omogenee. La fine del romanticismo è stata tuttavia anche un male, perché la forza impetuosa del nuovo flusso ha cercato di sbriciolare e di spazzare via, trascinandola con sé, anche una buona parte dell’humus che c’era sul fondo della nostra storia: l’idea che l’uomo… è parte di un meccanismo storico… complesso…; l’idea non divisionista e non atomica della sua appartenenza a una comunità storica, a una civiltà organica; l’idea che le sue radici affondano nella stessa terra in cui riposano i suoi padri; il rispetto per il particolare, l’opposto dell’universale globale; il valore proprio delle riserve della memoria, che sono qualcosa di più intenso di una parodia bigotta della tradizione; le consuetudini familiari e municipali, le esperienze di vita, i retroterra arcaici e umorali, le diversità, i vecchi valori e le ‘piccole patrie’, i monumenti e i patrimoni d’arte, che sono i nostri geni civili. In una parola le nostre ‘radici’. Inaridirle, strapparle, equivarrebbe a staccarci dalla nostra anima e dalla nostra coscienza. Perché certo le radici da sole non bastano. Ma senza radici non si sta in piedi. Dopo la fine del romanticismo la storia ha certo avuto un corso pieno in Europa e per un intero secolo. Un secolo pieno, se pure breve. Un secolo che non contiene infatti solo la fine del comunismo e l’avvento del mercatismo, le due polarità più forti nate rispettivamente al principio ed alla fine del Novecento, ma anche i fascismi, il nazismo, la Shoah, i misteri di Fatima, la sepoltura della civiltà contadina, il principio e la fine della fabbrica, il consumismo, infine la crisi della democrazia e l’alienazione della democrazia. E’ tutto questo insieme di frenetici mutamenti, tutta questa straordinaria concentrazione di eventi, che ha stravolto la nostra cultura e che alla fine ha creato e lasciato un vuoto nel cuore e nell’anima dell’Europa (…). L’Europa unificata dalla moneta (la penultima rivoluzione) ed allargata ad Est (l’ultima rivoluzione), ci si presenta infatti esausta, non in grado di fare altre rivoluzioni. Eppure, serve un’altra rivoluzione per resistere all’incalzare, all’incombere di una rivoluzione che, per la prima volta nella storia dell’Europa, non viene da dentro e non si fa dentro, perché si fa fuori e viene da fuori: quella della globalizzazione (…). La vita… non è fatta solo dalla politica organizzata… E’ molto più plurale, è fatta anche dalla ragione e dalla fede, dalla storia, dalla tradizione e dalla cultura. E’ per questa ragione che il codice che dobbiamo e possiamo fabbricare per sopravvivere può essere creato solo con la combinazione tra due parole essenziali, che sono insieme vecchissime e nuovissime: ‘identità’ e ‘valori’. Identità e valori sono le due facce di una stessa medaglia. L’identità è fatta dai valori, i valori fanno l’identità. Nella storia tutte le comunità si basano e trovano infatti la loro identità nella prevalenza di tradizioni, idee, nozioni ‘proprie’. In una parola, nella prevalenza dei loro valori. Una comunità può e deve definire la sua identità solo per mezzo dei suoi valori storicamente consolidati; rispetto a questi, le altre comunità sono ‘altre’. Perché è proprio e solo nella ‘differenza’, nella comparazione differenziale, che si forma il carattere comunitario di una comunità. Identità non è infatti solo ciò che siamo, ma anche differenza da ciò che non siamo. Tutto è chiuso nella coppia dialettica ‘noi-altri’. Se il ‘noi’ non viene marcato, ma all’opposto viene obliterato e censurato, finisce che tutto è ‘altro’ e niente è ‘noi’; all’inverso, perché esista un ‘altro’ deve esistere un ‘noi’» (10).

Qui Tremonti svela l’essenza rivoluzionario-conservatrice del suo pensiero. La coppia dialettica «noi-altri», infatti, altro non è che il decalco identitario della dicotomia «amico-nemico», che Carl Schmitt, il «giurista» del Führer nonché grande vecchio della scienza giuridica europea ed esponente massimo, insieme ad Martin Heidegger e ad Ernst Jünger, della rivoluzione conservatrice tedesca degli anni trenta del XX secolo, pone a base del Politico nell’accezione luterano-hobbesiana che egli di esso ha assunto in un quadro di antropologia negativa e di autoritarismo decisionista ed unilateralista. Un quadro di riferimento, quello schmittiano, contrario alla concezione aristotelico-agostiniano-tomista dell’uomo come «creatura sociale» e della politica come forma della naturale socialità ed amicalità che, pur nell’attuale condizione di imperfezione, è ancora propria alla natura umana benché essa sia sempre, a causa della ferita del peccato, «minacciata» dall’egoismo. La visione del mondo come malvagio, dell’umanità come essenzialmente corrotta, dei rapporti umani come sempre e comunque conflittuali, tutto ciò che in altri termini sulla scia di Lutero ed Hobbes porta il contrassegno del lato «destro», conservatore, della gnosi spuria, essendo l’altro lato, quello «sinistro», progressista, sulla scia di Pelagio e Rousseau, costituito dal pacifismo e dall’umanitarismo, è evidentissimo in Tremonti che non a caso continua affermando:

«Tanto più ci universalizziamo nella globalizzazione, tanto più la dialettica tra ‘noi’ e gli ‘altri’ diventa… strategica e drammatica (…). L’inclusione degli ‘altri’ in Europa può proseguire… solo se gli ‘altri’ cessano di essere ‘altri’ e diventano ‘noi’ (…). Il mondo non è neutrale, non è omogeneo, non è fatto da un’armonia universale; i grandi spazi del mondo non sono indifferenti, muti e inerti, ma caricati di energia come campi di forza (…). Niente in Europa può più avere un contenuto etico e politico, al di fuori del nostro storico sistema di valori identitari (…). I valori non si raccolgono come fiori in un prato. Bene e male come valori politici hanno un senso solo in relazione a qualcuno che li impone e non devono e non possono essere necessariamente valori universali. Basta che sul piano dell’organizzazione sociale, e cioè sul piano della politica, bene e male siano definiti come tali da ‘noi’ e per ‘noi’ e per gli ‘altri’ che vogliono venire da ‘noi’. L’individuazione dei valori identitari passa necessariamente attraverso una ‘rivendicazione di potere’ e questa può anche portare a confronti con altri sistemi di valori. E’ una responsabilità non declinabile, se è assunta - come dobbiamo assumerla - solo dentro un programma di pura difesa. Alzare le bandiere dell’onore e dell’orgoglio, della legge e dell’ordine, introdurre nella vita la politica, e dare alla politica la prospettiva di un ordine etico, e crederci, vuole dire scegliere di non essere più, in Europa e dall’Europa, solo ‘commessi viaggiatori’ o solo ‘burocrati predicatori’. Vuol dire scegliere di tornare a essere protagonisti della storia, protagonisti di una storia che può anche includere confronti e conflitti con altri sistemi. E non illudiamoci di evitarli, i confronti e i conflitti, chiudendoci nella passiva accettazione del buonismo imperante. Solo agendo dall’inizio e in radice, codificando la nostra identità e i nostri valori, sotto la pressione della crisi e dei conflitti che dall’esterno si delineano sul nostro orizzonte, avremo davvero la possibilità di evitarli. L’Europa potrà restare in quel nuovo campo di forza che con la globalizzazione è diventato il mondo solo se si saprà forgiare come identità politica, solo se saprà darsi una visione e solo se saprà dotare questa visione di un potere sufficiente» (11).

E’ da notare, non solo il costante ritornare in Tremonti della concezione schmittiana del Politico, «amico-nemico», per la quale l’amico si definisce solo in funzione del nemico, ed infatti egli dice che la nostra identità si codifica solo sotto la pressione dei conflitti che si delineano all’orizzonte, ma soprattutto quel volontarismo di fondo che impone «di credere» ad un ordine etico, ad un sistema di valori identitari la cui individuazione passa attraverso la decisione di un Potere politico consapevole della malvagità del mondo e della conflittualità delle relazioni internazionali. Qui non è l’uomo che aderisce ad un ordine di valori già dato, oggettivamente ricevuto dall’esterno, dall’Alto, secondo la Rivelazione cristiana, ma è l’uomo che prometeicamente e soggettivisticamente si forgia da sé il suo ordine etico di valori a giustificazione di un progetto politico di pura potenza finalizzato a sopravvivere in un mondo feroce. E’ l’esaltazione dell’«homo hominis lupus», della Volontà di Potenza. Tremonti, sulla scia del pensiero rivoluzionario-conservatore nella sua riformulazione neoconservatrice, si scopre, al fondo, non solo hobbesiano o schmittiano ma anche nicciano.

Giungiamo così al punto nel quale la fede, Dio, vengono invocati per sostenere teologicamente tutta l’impalcatura del progetto politico e geopolitico neoconservatore. Ed allo scopo naturalmente fa gioco anche abusare del magistero dell’attuale Pontefice, che invece si pone, come giusto che sia, su un ben diverso piano ossia quello della fede che si rivolge al cuore dell’uomo, per trasformarlo, ben sapendo che non da progetti politici ma dalla Grazia che agisce nell’uomo a cambiarlo anche il mondo, la politica e la comunità ne restano, per conseguenza, trasformati: «Ponete Dio al primo posto nella vostra vita e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta».

Scrive, dunque, ancora Tremonti:

«Non importa che i valori che fanno e difendono l’identità siano o possano essere di ‘sinistra’ o di ‘destra’, anche se è probabile che siano più di ‘destra’ che di ‘sinistra’. Quello che importa è che sono ‘necessari’. Per identificare i valori serve un’anima, per difendere i valori serve un potere politico, per esercitare il potere politico serve un programma, per scrivere un programma serve una visione d’insieme. Per cominciare serve una visione della vita che non sia materiale ma spirituale. Non più solo laicista. Non più solo privatista. Una visione che non escluda Dio (…). L’eclissi del sacro è finita, e con essa la furia ‘secolare’ suggestionata da Darwin e da Malthus, da Marx e da Freud. Nel novembre 2007 l’‘Economist ha prodotto uno special report che si intitola In God’s name. Vi è scritto: Trascurare il ruolo della religione nella vita pubblica significa anche perdere molte potenziali soluzioni… visto che la religione è parte della politica, deve essere anche parte della soluzione’. Dire questo non è come dire che anche in Europa - come in tante altre parti del mondo - Dio è finalmente tornato a incidere nella storia. Ma è molto di più di quel laicismo negazionista che, appena ieri, se pure con minor forza del prevalente mercatismo, ha portato a escludere la verità storica delle radici giudaico-cristiane. E coincide perfettamente con la dottrina razionale e secolare che insegna: ‘Non si può governare la storia con mere strutture materiali, prescindendo da Dio’ (Joseph Ratzinger Benedetto XVI, ‘Gesù di Nazareth’, 2007). Parlare di religione vuole dire ora richiamarsi alle fondamenta morali del nostro essere, ai valori spirituali, cattolici o laici che siano. Vuol dire pensare che la tradizione religiosa può compensare il vuoto di valori che, cadute le ideologie, è divenuto proprio delle nostre democrazie; può introdurre nel sistema politico la spiritualità che ha progressivamente perso; nell’insieme può offrire la possibilità di vivere anche nelle istituzioni politiche con la ‘speranza’ (…). Le parole chiave che nell’insieme definiscono una politica di questo tipo e perciò una politica opposta alla dittatura sfascista del relativismo sono sette. Tre parole formano un gruppo unico, le altre stanno separate, in modo da figurare tutte insieme come quattro blocchi concettuali essenziali: valori, famiglia e identità; autorità; ordine; responsabilità; federalismo» (12).

Tremonti che pubblicamente ha dichiarato di credere in Dio, benché non ha specificato in quale Dio sicché viste le sue frequentazioni «esoteriche» e «iniziatiche» nell’Aspen Institute potrebbe anche aver sottinteso il «Grande Architetto» di massonica venerazione, sceglie una frase del Papa e la decontestualizza per far dire al Pontefice che Dio «serve a governare la storia» facendo di Ratzinger un sostenitore della teologia-politica, ossia della riduzione schmittiana della teologia a categoria della politica, un esaltatore dell’hobbesiano «dio mortale», ovvero del potere sovrano che si impone sulla comunità per darle forma politica.  
                                                                 
Luigi Copertino

• Il potere e la grazia: cristianesimo e «scontro di civiltà» (parte II)



1) Confronta G. Tremonti, «La paura e la speranza - Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla», Mondadori, Milano, 2008.
2) Confronta G. Tremonti, opera citata, pagine 32-33.
3) Confronta G. Tremonti, opera citata, pagine 19-37.
4) Confronta G. Tremonti, opera citata, pagine 11-19. Una precisazione: attualmente le Banche Centrali sono per lo più a capitale privato. Tuttavia esse per legge, pur essendo sostanzialmente private, svolgono funzioni pubbliche che invece dovrebbero essere svolte direttamente dagli Stati rispetto ai quali le corrispondenti Banche Centrali altro non dovrebbero essere che «cassieri». Si tratta di un’altra anomalia del liberismo mercatista. Anomalia che risale almeno al 1694, anno della fondazione della Banca d’Inghilterra ossia della prima Banca Centrale della storia.
5) Confronta G. Tremonti, opera citata, pagine 52-53.
6) Confronta G. Tremonti, opera citata, pagine 5-11.
7) Confronta G. Tremonti, opera citata, pagina 9.
8) Confronta G. Tremonti, opera citata, pagine 53-54.
9) Confronta G. Tremonti, opera citata, pagina 53.
10) Confronta G. Tremonti, opera citata, pagine 74-77.
11) Confronta G. Tremonti, opera citata, pagine 78-80.
12) Confronta G. Tremonti, opera citata, pagine 80-87.


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