Iran: la gioventù si batte
15 Giugno 2009
Tempo fa, a proposito del regime iraniano, scrissi che il suo cambiamento non spettava alle bombe israeliane e americane, ma alla gioventù iraniana. Apparentemente, questo processo è cominciato. Quella che infuria nelle strade di Teheran non pare essere (a meno di smentite nei prossimi giorni) una «rivoluzione colorata» finanziata dalla CIA e da Georges Soros, ma un movimento autonomo, nato da dinamiche interne. Complicato, e reso pericolosamente drammatico, dal fatto che entrambi i candidati hanno un potente seguito nazionale alle spalle.
Juan Cole, un analista del Global American Institute, ritiene che la vittoria di Ahmadinejad sia opera di brogli, e ne dà le seguenti ragioni
(1): l’Iran è un Paese multi-etnico dove le appartenenze locali hanno un forte peso, sicchè i pochi voti ottenuti dallo sfidante Mussawi, che è a zero, nel suo nativo Azerbaijian persiano, non sembrano credibili. Parimenti non sembra credibile la schiacciante maggioranza ottenuta da Ahmadinejad a Teheran, dove i figli della borghesia benestante gli sono contro. Inoltre, i risultati ottenuti da Ahmadinejad sono troppo uniformi nelle varie provincie, mentre in precedenza variavano molto, secondo le etnie. Pare infine che il ministero dell’Interno avesse chiesto a Mussawi di rimandare di qualche ora l’annuncio della sua vittoria, per poi cambiare le carte in tavola e dichiarare vincente Ahmadinejad.
Ma Abbas Barzegar, un docente in studi religiosi della Emory University di Atlanta (Georgia, USA), persiano, ribatte: il regime non ha bisogno di fare brogli così plateali, dato che le elezioni vengono controllate dall’alto clero in via preventiva, escludendo in anticipo i candidati sgraditi e chiudendo i giornali avversi. La campagna è stata inoltre insolitamente libera; ci sono stati dibattiti TV tra i candidati (cosa mai vista in Iran), a pare che Ahmadinejad abbia dimostrato una capacità dialettica superiore a quella degli avversari, vincendo i match
(2).
Vero è che la campagna dello sfidante ha usato i mezzi modernissimi: Facebook, YouTube e invio a raffica di SMS (del resto, anche Ahmadinejad ha il suo blog ed ha usato YouTube), e che un incredibile 30% della popolazione naviga sul web: 23 milioni di «surfers» di un popolo che è per metà composto da giovani di meno di vent’anni. Ma nelle campagne non si guarda YouTube, e i poveri lavoratori di città e di provincia non passano il tempo negli internet-cafè. Per milioni di loro, Ahmadinejad è pur sempre il figlio di modesti natali, che tuona contro la corruzione ed profondamente religioso.
Dunque è uno scontro della «campagna» contro la «città»?
Se è così, comincia una rivoluzione molto interessante (a guardarla da fuori): fin dai tempi della rivoluzione francese, è la capitale a guidare le rivoluzioni, con le sue minoranze attive e consapevoli, contro le maggioranze passive della provincia. E Mussawi, commenta Mahan Abedin (un analista piuttosto favorevole al regime), ha fatto appello con successo a «un certo tipo di gioventù, e specialmente di giovani donne, portatrici di un ventaglio di esigenze politico e socio-culturali che, se messe in pratica, equivarrebbero ad abolire il regime islamico»
(3).
Già. Nei panni di un ayatollah, guarderei con molto allarme quelle graziose e spigliate fanciulle di Teheran, che riescono a portare in modo sexy il chador: da anni, quei riccioli che sfuggono dal nero velo, quel trucco sul viso, quelle ciglia depilate, quei corpi che non si fanno mortificare dall’abito mortificante sono una esplicita protesta politica contro l’occhiuta polizia dei costumi, una sfida all’ipocrisia di «religiosi» da troppo tempo al potere, che mentre predicano la morale si accaparrano con la corruzione troppa parte degli introiti petroliferi. I giovani, le giovani vogliono vivere, indomabilmente.
Una teocrazia ha senso finchè si può credere che la fine del mondo, e l’arrivo del Mahdi siano imminenti; 33 anni dopo, il potere teocratico si è accomodato ed ha costituito una casta. La Casta dell’Iran.
Ma a complicare le cose, anche Ahmadinejad fa appello a sentimenti anti-casta, anti-corruzione, forte della sua base elettorale. E’ significativo che abbia accusato apertamente l’ayatollah Hashemi Rafsanjani, suo potente avversario e leone della rivoluzione dai tempi di Khomeini, di parassitismo e corruzione, giungendo a assimilare il suo tradimento dello spirito originario della rivoluzione islamica alle mene che portarono all’assassinio dell’imam Hussein, che Maometto aveva designato suo erede, e sono all’origine della frattura fra sunniti e sciiti (1.400 anni fa).
Nei dibattiti TV, Ahmadinejad ha avuto buon gioco a far notare che i suoi tre contendenti sono annosi membri dell’establishment più alto. Mussawi, lungi dall’essere un uomo nuovo, è stato primo ministro dal 1981 all’89 (gli anni della guerra contro l’Iraq) al tempo in cui il supremo ayatollah Khomeini lo usò per tenere a bada le ambizioni dell’ayatollah Khamenei, allora presidente, che mirava al suo altissimo seggio; oggi Khamenei è infatti al posto che fu di Khomeini, ed avendo abolito la carica di presidente, è il presidente di fatto. Rafsanjani, è un ex presidente ed attuale capo del «Consiglio dell’Opportunità», insomma nella cerchia interna dell’alto clero. Kathami è un altro ex presidente dei piani alti della teocrazia politica.
Ora, questi tre si sono coalizzati contro Ahmadinejad, «uomo del popolo». Se ha davvero ottenuto la maggioranza dei voti, questa maggioranza ha un inequivocabile sapore anti-establishment. Del resto anche la prima elezione di Ahmadinejad aveva un senso anti-establishment: Ahmadinejad è un laico (ancorchè religiosissimo) e non un clerico, appartiene alla seconda generazione rivoluzionaria (quella che si è formata sui sanguinosi campi di battaglia della guerra Iran-Iraq), e un suo modo di citare Khomeini suona un «ritorno alle sorgenti» della repubblica teocratica, che è un implicito rimprovero alla casta clericale venuta dopo.
E l’alleanza dei tre caprioni contro di lui non durerà: fu Rafsanjani a far cadere il governo Mussawi nel 1989, e nei complicatissimi circoli del potere «religioso» volano inimicizie, manovre, trabocchetti e coltellate alla schiena da far sembrare quel che avveniva fra i maggiorenti della vecchia Democrazia Cristiana nostrana un gioco fra dilettanti.
D’altra parte, Ahmadinejad ha avuto l’ostentato appoggio della guida suprema della rivoluzione, il furbo clerico Khamenei.
Qui forse (e sottolineo forse) è la chiave: le elezioni iraniane, stavolta, hanno messo a nudo le profonde divisioni esistenti nei corridoi del potere reale della repubblica islamica, il labirinto complicato fino all’indescrivibile della casta clericale con le sue occulte rivalità, finora bene o male dissimulate nel mellifluo stile «religioso» dei capi. E una volta venute alla luce in questa tumultuosa e fin troppo aperta contesa elettorale, con l’eccitamento delle masse a cui i diversi establishment hanno fatto (incautamente) appello, è quasi impossibile ricoprirle di nuovo nella felpata lingua di legno dell’alto clero. Il genio è stato lasciato sfuggire dalla bottiglia, e il seguito degli eventi – qualunque sia – avrà conseguenze reali nelle vite di ogni iraniano.
Perchè la scelta stessa fra due candidati è stata reale e non finta, in una democrazia limitata, ma non del tutto controllata. Il modo consueto di controllo della politica, attraverso il Consiglio dei Guardiani (della Rivoluzione) non è più in grado di attutire le tensioni e il reale conflitto politico che si è manifestato, e si manifesterà sempre più.
In queste ore, probabilmente, la casta ayatollesca sta decidendo se stroncare le proteste della gioventù di Teheran al modo in cui il regime maoista di Pechino stroncò la protesta di Tienanmen – nel sangue. Scelta non facile, per una teocrazia che si pretende legittimata da Dio, spianare le mitragliatrici contro il suo popolo. Se la scelta fosse questa, il regime perderebbe la residua legittimità – già abbondantemente usurata – agli occhi della sua gioventù nazionale.
Va ricordato che la «legittimità» del clero iraniano nasce dal fatto di aver «liberato» il popolo dallo Scià: ma oltre il 60% della popolazione non era nata allora, e non può ricordare l’oppressione dello Scià. Vede e si ricorda l’oppressione dell’alta casta clericale.
Quel clero è durato troppo al potere; ma la natura «morale» del suo potere lo impaccia ad usare i mezzi senza scrupoli degli eredi di Mao. D’altra parte, non si è mai vista una Casta capace di autoriformarsi, e di rinunciare al potere (come potrebbe fare il clero iraniano, lasciando nascere dei veri partiti politici, espressioni di componenti reali e di reali aspirazioni della società).
Per questo il momento è interessante, a guardarlo da fuori. La lotta comincia davvero, in piazza. Forse, potrà sboccare in una guerra civile?
Il «regime change» tanto sospirato dai neocon, se verrà, verrà da dentro l’Iran, senza gli ignobili «aiuti» di potenze straniere, che la gioventù iraniana (comunque si divida) non accetterebbe.
Post Scriptum: la questione delle centrali nucleari e della presunta bomba atomica iraniana, che tanto preoccupa i nostri media (perennemente in ansia per Israele) non è entrata per nulla in questa contesa. Lo sviluppo nucleare è un fatto di orgoglio nazionale, che nessuno dei contendenti ha in mente di sfidare. Ovviamente, Ahmadinejad è più gradito agli israeliani di un pragmatico Mussawi, che non avrebbe comunque fatto reali concessioni in questo campo.
Per Washington, è una difficoltà in più. Va notato che nel governo Obama le voci dicono: comunque bisogna trattare, chiunque sia al potere a Teheran.
Pochi giorni fa il senatore John Kerry, candidato democratico delle presidenziali del 2004 (che perse contro Bush), ha definito «ridicola» la pretesa di Bush (e di Israele) che l’Iran smetta l’arricchimento, dato che questo è un diritto garantitogli dal Trattato di Non-Proliferazione, che il Paese ha firmato. Bush – ha detto Kerry al Financial Times – ha fatto apposta a porre una condizione inaccettabile dall’altra parte, al solo scopo di proclamare poi che «la diplomazia non porta a nulla» ed avere il pretesto per il conflitto armato. Dichiarazione notevole, anche se Kerry avrebbe potuto farla cinque anni orsono.
1) Juan Cole, «Stealing the Iranian election», Informed comment, 1 giugno 2009.
2) Abbas Barzegar, «Wishful thinking from Teheran», Guardian, 13 giugno 2009.
3) Mahan Abedin, «A bigger struggle lies ahead», Asia Times, 13 giugno 2009.
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