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Serve un «Regime change» da noi
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Ricevo anche mail del genere:

«Sono un lettore della prima ora del vostro sito, tanto da prenderlo come punto di riferimento per conoscere la verità. Ora mi sono ricreduto leggendo le dichiarazioni ‘allineate’ del direttore sull’Iran e non solo. Spero tanto per Lei, direttore, che i trenta denari ricevuti le consentano di dormire sonni tranquilli.
Giorgio M.
»


Non rispondo a un personaggio così, triste esempio della ottusità e barbarie che ci sta degradando. Uno che vuole solo conferme ai suoi schemi mentali ristrettissimi, ed è pronto ad accusare chi glieli disturba di aver preso trenta denari da chissà chi, è proprio una delle cause per cui la civiltà europea muore di bassezza. Rispondo a molti lettori che  meno offensivamente mi accusano di non vedere, in quella iraniana, una delle tante «rivoluzioni colorate» made in USA. E che mi accusano di non tifare abbastanza per Ahmadinejad (come se facesse qualche differenza, tifare o no).

Credono questi lettori che io non contatti da settimane le mie fonti, non scannerizzi tutti i siti alternativi possibili, alla ricerca di prove o almeno indizi forti a favore della ipotesi da loro preferita, ossia che Ahmadinejad è sotto attacco da parte di una trama eterodiretta dall’estero?

Il fatto è che questi indizi - fino ad oggi - non ci sono, o non sono convincenti. Le altre rivoluzioni colorate (ad alcune delle quali ho assistito di persona) non avevano nulla di particolarmente occulto o sofisticato. Ambasciate USA che fornivano ai rivoltosi macchine da stampa e denaro per creare giornali o radio emittenti alternative. Agenzie della CIA con tanto di uffici aperti. Dipendenti regolarmente stipendiati per tradurre nella lingua locale materiale di propaganda e agitazione elaborato a Langley. Manuali di addestramento agli scontri di piazza distribuiti gratis. Pretese organizzazioni non-governative per i «diritti umani» o per la «democrazia», che erano pagate da governi esteri o da entità come la Open Society di Georges Soros e soffiavano apertamente sul fuoco. Addestratori alla guerriglia con la stella di David tatuata sul braccio, eccetera. Insomma, la mano straniera era ben visibile, a chi voleva vederla.

A Teheran, tanto per cominciare, un’ambasciata USA non c’è, il che rende le cose più difficili. Ci sono ONG europee, ma guardate a vista. Se ci fossero ONG sospette già viste all’opera, il regime iraniano sarebbe ben lieto di denunciarle e di mostrare le prove delle loro trame.

E’ vero che gli USA spendono 75 milioni di dollari l’anno per «diffondere la democrazia» in Iran. Questi fondi vanno in massima parte a finanziare - da trent’anni - la Voice of America in farsi e Radio Farda («Domani»), che trasmette dal suolo americano ed è gestita da fuoriusciti seguaci dello Scià, che non hanno basi interne all’Iran. E per di più sono personaggi che «sono diventati dipendenti da questi fondi per guadagnarsi la vita».

A dirlo non sono io, ma Trita Parsi, presidente del NIAC, ossia National Iranian American Council (1). Ossia della fondazione che più dovrebbe, coi soldi americani, essere mobilitata nell’agitazione in corso. Invece, un mese fa, il NIAC e altre organizzazioni di fuoriusciti iraniani hanno firmato un appello al governo degli Stati Uniti chiedendo - udite udite - di non dare fondi al movimento anti-ayatollah, precisamente perchè agli occhi della popolazione il sospetto che la dissidenza sia pagata da Washington ne distrugge la credibilità. «I riformisti iraniani credono che la democrazia non può essere importata», dice la Parsi. Il giornalista Akbar Ganji, il 26 ottobre, ha scritto al Washington Post la stessa cosa: «Per ragioni storiche, gli iraniani che ricevono denaro dall’estero sono screditati agli occhi del popolo. Il movimento democratico (sic) non vuole essere nè apparire dipendente da fuori». Insomma, gli iraniani hanno più spina dorsale dei georgiani o dei polacchi.

Certo, è comprovato che è Israele a gestire ed ampliare gli scambi che avvengono su Twitter. Ma se bastasse il web a innescare una rivolta di grandi dimensioni, allora il sito di Beppe Grillo (e nel suo piccolo, il nostro), ci avrebbe già liberati dalle caste parassitarie che ci opprimono.

Ovviamente, Bush ordinò, pochi mesi prima di decadere, operazioni «nere» all’interno dell’Iran. Ma per operazioni nere, USA, Israele e neocon intendono assassinii mirati, attentati, sangue per incitare le minoranze etniche e religiose o per creare una strategia della tensione; non sono capaci, in quanto terroristi, di provocare manifestazioni di massa. Difatti, pur senza prove, sono incline a ritenere che gli attentati degli ultimi mesi in Iran (eccidii di guardie rivoluzionarie) siano di mano del Mossad.

L’attentato apparentemente kamikaze al mausoleo di Khomeini fa quasi sicuramente parte di una «operazione nera»: io ci vedo la mano di «Al Qaeda», ossia di terroristi wahabiti sunniti - che odiano il regime sciita - pagati dall’Arabia saudita e  gestiti dagli israeliani. Non ci sono iraniani kamikaze, nè presunti «riformisti» nazionali tanto idioti da dissacrare la memoria di Khomeini, con un atto che rivolta almeno i tre quarti della popolazione. Israele, da Stato terrorista, non riesce che a  pensare ed agire in termini di terrorismo: una strategia di una rozzezza, a questo punto, ridicola.

Segnalo un editoriale su «China Daily», l’organo ufficioso del regime di Pechino: «Tentativi di portare la cosiddetta rivoluzione colorata fino al caos può essere molto pericoloso. Un Iran destabilizzato non è nell’interesse di nessuno se si vuole mantenere pace e stabilità nel Medio Oriente, e nel mondo circostante». L’editoriale ammonisce che sono stati «gli interventi tipo guerra fredda in Iran» a peggiorare le relazioni tra Teheran e gli USA, «con presidenti americani che ficcano il naso negli affari interni iraniani». Il potere cinese, che ha motivi suoi per temere le «rivoluzioni colorate», lancia un monito: non conviene a Washington istigare rivolte popolari in un’area del mondo già pronta a esplodere. Ma è più un monito che un’accusa precisa, a sostegno della quale non porta dat precisi.

Quanto ai media, sì,  trattano dell’Iran e delle sue manifestazioni con uno zelo di cui non hanno dato prova durante i massacri giudaici a Gaza; non dicono nulla sulla Georgia, dove manifestazioni contro il regime di Saakashvili proseguono da mesi. Sì, è ovvio, i media fanno il loro mestiere di servi, strillano sui «diritti umani» a senso unico, fanno propaganda al «moderato» Mussawi e al «moderato» Rafsanjani: ma quella propaganda è diretta a noi, non agli iraniani.

Per tutte queste ragioni, fino a prova contraria, tendo a preferire l’ipotesi che gli eventi iraniani siano mossi da logiche interne, autonome, e di notevole forza.

Il lettore incivile di cui sopra, e gli altri lettori meno incivili che obiettano a questa ipotesi, rivelano proprio loro di essere influenzati dalla più grezza propaganda neocon: dall’idea cioè che esista un solo «islamismo fanatico», un blocco monolitico che comprenderebbe Talebani ed Hezbollah, Hamas e Fratelli Musulmani, tikriti iracheni e il regime religioso di Teheran. Tutti  uguali, tutti «terroristi» e tutti unificati sotto il termine - rozzo e propagandistico - di «Islamo-fascismo».

E’ una menzogna israeliana. Esistono tanti Islam, e tanti e diversi fondamentalismi islamici, ciascuno con la sua giustificazione locale per battersi, non riducibili - come farebbe comodo ai giudei - a un unico denominatore.

Agli occhi di lettori avvertiti, dovrebbe apparire chiaro che l’Iran e il suo islamismo è di un genere speciale. Il popolo dell’Iran è speciale per tre ragioni: è sciita e non sunnita, è indo-europeo (ariano, se vogliamo usare un linguaggio proibito) ed è erede di un grande impero-pre musulmano che fu grande e civilizzatore come l’impero romano: l’impero persiano. Una grande cultura (basta pensare al monoteismo di Zoroastro e al culto di Mitra), di cui gli iraniani odierni non disconoscono l’eredità. E’ una bella differenza per esempio, con gli egiziani d’oggi; estranei alla civiltà faraonica (a parte qualche simparico archeologo e numerosi operatori turistici), gli egiziani condividono la visione centrale dell’Islam, secondo cui le civiltà anteriori a Maometto sono oscurità e barbarie, peccato e idolatria.

Cosa vuole dire essere insieme sciita (ossia perseguitato dal grande Islam), di razza ariana, ed erede della Persia? Vuol dire tante cose diverse, che un giorno bisognerà approfondire. Ma almeno un effetto è sotto gli occhi di tutti.

Qualche mese fa, un grande ayatollah, l’ex presidente Kathami, fece visita al Papa. E si rivelò come appassionato studioso di Sant’Agostino. Disse a 30 Giorni, la rivista di CL: «Io ammiro sant’Agostino. Anche San Tommaso d’Aquino è stato grandissimo. Però, se dovessi istituire tra i due un paragone, posso dire che Sant’Agostino è molto più vicino a Platone e ai neoplatonici, mentre San Tommaso è più prossimo ad Aristotele e ad Avicenna. E siccome io considero il misticismo lo spirito della religione, vedo che l’aspetto mistico in Sant’Agostino è molto più forte, è quello che prevale, ed è per questo che mi piace. Di Agostino ho letto De civitate Dei, mentre ho dedicato studi più sporadici alle altre sue opere».

Ali Larijiani, presidente del parlamento e duro negoziatore a favore del nucleare iraniano, è laureato in matematica e scienza dei computer, a cui ha aggiunto un PhD (un master) in filosofia occidentale, con una tesi su Kant. Lo stesso Ahmadinejad, che gli avversari dipingono come un personaggio incolto, ha un PhD in ingegneria dei trasporti a cui tiene molto, e i seguaci lo chiamano «dottor Ahmadinejad». E la Guida Suprema, l’ayatollah Khamenei, da giovane ha studiato in URSS all’università Patrice Lumumba.

Ora, sfido a trovare nel mondo islamico un qualunque imam fondamentalista che ritenga utile studiare Kant, o un docente dell’università Al-Aqsa al Cairo che abbia un interesse per Sant’Agostino o sappia chi siano i neoplatonici. Un fondamentalista islamico è uno che crede che nel Corano ci sia tutto quel che un uomo ha bisogno di sapere, e che non ha nulla da imparare dal pensiero occidentale, che è solo oscurità e barbarie. Evidentemente, i fondamentalisti iraniani sono di un altro genere.

Che cosa significa questo? Che, proprio come gli antichi persiani, partecipano al mondo culturale indo-europeo con cordiale interesse (2). E con una larghezza di vedute che gli indo-europei d’Europa non sanno nemmeno più invidiare. Proprio coloro che sono ai vertici del regime partecipano di due mondi, il loro e il nostro, in una misura che non si può sottovalutare.

Anzi. A ben vedere, è proprio questo stare a cavallo di due mondi, l’Occidente e l’Oriente, a rendere vulnerabile il regime iraniano fondato sulla religione, ad inserire in esso una contraddizione. Il grande ayatollah Khomeini, in quella che è la «costituzione» del regime islamista (Velayat e-fakih, «tutela del giureconsulto»), afferma che la sovranità non appartiene al popolo ma a Dio; che il popolo non ha diritto di emanare leggi perchè Dio gli ha già dato la sola che conta, la shariah; e che sono i «giureconsulti» esperti della shariah i soli legittimati a governare, con «gli stessi poteri che Dio diede al Profeta e all’emiro dei credenti».

D’accordo. Ma dopo aver proclamato che il popolo non ha alcuna sovranità, a che scopo mantenere il diritto di voto, e indire delle elezioni? Khomeini stesso sottopose il suo «Velayat e-fakih» a referendum, ossia al popolo. Allora votò per lui il 98%. Oggi, tre generazioni dopo, un’altra generazione è stata chiamata a dare il suo parere con nuove elezioni. Saranno pure una finzione le elezioni, come dice la propaganda avversa; ma le elezioni non sono Islam, sono Grecia. E contraddicono il principio, solennemente sancito, della sovranità divina diretta.

Spetta agli iraniani, non a noi, dirimere questa contraddizione. Sono sicuro che Ahmadinejad non sia nè sia mai stato un dittatore, che abbia effettivamente un appoggio di massa negli strati poveri e rurali. Questo rende anche più tragica la crisi, perchè rende più concreto lo sbocco della guerra civile, la sola che possa fermare il programma nucleare iraniano (la vittoria di Mussawi su Ahmadinejad non avrebbe cambiato nulla su questo tema).

Se sono vere le voci secondo cui, in alcune parti di Teheran, i soldati hanno rifiutato di sparare sulla folla dei dimostranti, è questo un segno di un’incrinatura fatale. Cui possiamo solo assistere dolorosamente, cercando di capire, tenendo la mente aperta a qualcosa di nuovo che sta avvenendo, e che non rientra negli schemi comodi che abbiamo in mente.

Io, tendo a riconoscere un coraggio indo-europeo nei giovani che manifestano sotto le fucilate. E un po’ di vergogna per quest’altra regione indo-europea, da noi abitata. Perchè qui, ci lasciamo governare senza proteste da emissari di un regime ancor più fondamentalista e ancor più bisognoso di un «regime change», il talmudismo paranoico ed armato di Israele. E gli americani, non si sono lasciati governare senza una protesta da un regime fondamentalista cristianista, quello di Bush, che li ha trascinati in due guerre senza motivo e nella rovina economica? E noi europei, non ci lasciamo governare da eurocrati che non abbiamo eletto, senza nemmeno provare a scendere in piazza?
Abbiamo bisogno tutti di un regime change.

In questi giorni, è ricomparso persino Paul Wolfowitz: ospitato dal Washington Post, ha scritto una colonna per criticare la passività supposta del presidente Obama sull’Iran, e incitarlo a impicciarsi degli affari iraniani (3). Wolfowitz, l’uomo che dovrebbe essere impiccato per colpo di Stato ed alto tradimento, accusa Obama. Dovrebbe essere il contrario: se lo scopo dei neocon era quello di destabilizzare l’Iran, ha fatto più Obama con il suo discorso del Cairo di dieci anni di minacce e aggressioni di Bush e dei suoi burattinai neoconservatori israeliani. E’ la prova che hanno sbagliato ogni analisi; che sono state le loro minacce di guerra a rinforzare il regime, e che è bastata l’apertura tutta verbale di Osama all’Islam per resuscitare aspirazioni interne di rinnovamento e di critica che prima, sotto la pressione nemica, erano taciute. Eppure, ancora danno lezioni loro. I neocon sono sempre lì, pronti a restaurare il potere fondamentalista ebraico-cristianista in USA.

Obama diventa ogni giorno di più somigliante, per destino, ad Ahmadinejad. La sola colpa di Ahmadinejad è stata quella di non essere riuscito a vincere la rivoluzione della eguaglianza e della giustizia economica per cui la gente l’aveva votato. Obama è stato votato dagli americani perchè mettesse la parola fine al regime fondamentalista di Bush, e invece esita, si mostra debole e incerto, si lascia dettare lezioni da un Wolfowitz che dovrebbe far arrestare per il colpo di Stato dell’11 settembre. Così, rischia di essere abbandonato dalla opinione pubblica che lo ha scelto, e che è delusa ogni giorno di più.

Ma non avviene anche da noi? Avevamo votato Berlusconi perchè compisse una rivoluzione: togliere il truogolo alle caste a cominciare dai magistrati, ridurre il parlamento, il parassitismo politico e i «costi della politica». Non l’ha fatto, ed ora soffre il contraccolpo della delusione e della sua stessa usura. Ma i nostri parassiti, come i neocon americani, sono tranquilli: qui, i giovani non scendono in piazza per scaraventarli giù dalle poltrone, nè per rigettare la tele-conduzione israeliana  sui nostri governi nelle questioni internazionali.

In compenso, ci sono lettori che pretedndono da me che gli dica quel che vogliono sentirsi dire: un atteggiamento vile, di gente che scambia i propri sogni con la realtà, e che sperava che Ahmadinejad facesse quello che spetta a noi fare.

Il regime change - anzitutto mentale - serve soprattutto a noi, ma noi non abbiamo nè coraggio, nè una mente abbastanza larga da gettare via gli schemi precostituiti, che servivano nel decennio passato, ed oggi non valgono più a cogliere la realtà. Per citare un grande indo-europeo platonico, Plotino: «Che i vili sian governati dai malvagi, è giusto».




1) Breffni O’Rourke, «Iran: Dissidents Debate Merits Of U.S. Democracy Aid», Stratfor, novembre 2008.
2) Ricordo che Temistocle, l’ateniese che sconfisse i persiani di Serse a Salamina nel 480 avanti Cristo, quando fu esiliato da Atene per ostracismo, trovò rifugio proprio alla corte persiana di Artaserse I, che lo fece governatore della Magnesia. Così ne scrive Cornelio Nepote: «Il re ammirando la grandezza d’animo di costui desiderando conciliarsi un tale uomo diede il perdono.
Quello tutto quel tempo si dedicò alla scrittura ed alla lingua dei Persiani; ed in queste fu così istruito che si dice che davanti al re disse parole molto più appropriate di quanto potevano quelli che erano nati in Persia. Qui avendo promesso molte cose al re e quella cosa molto gradita, che, se volesse servirsi dei suoi consigli, avrebbe assoggettata la Grecia con la guerra, premiato con grandi doni da Artaserse ritornò in Asia e si stabilì il domicilio a Magnesia. Infatti il re gli aveva donato questa città, proprio con queste parole: che gli procurasse il pane - e da quella regione ogni anno provenivano cinquecento talenti -; ricevesse poi Lampsaco, da cui ricavasse il vino; Miunta, da cui avesse il companatico. Di costui rimasero due monumenti fino alla nostra epoca: il sepolcro vicino alla città, in cui fu sepolto; la statua nel foro di Magnesia».
3) John Byrne, «As Post fires liberal columnist, Bush war architect gets ink», Raw Story, 19 giugno 2009.



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