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Siria: ecco chi viola i diritti umani
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Un’immagine passata una sola volta alla TV siriana: una famiglia di Baba Amro – centro di aspri combattimenti nelle settimane scorse – presso la tavola apparecchiata, sterminata. Tutti, bambini, zii, parenti. Sul muro, gli assassini hanno scritto col sangue delle vittime: «Da Misurata (Libia, ndr) siamo venuti a liberare la Siria».

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A denunciarlo è la dottoressa Nadia Khost, siriana, scrittrice di molte opere sulla conservazione del patrimonio culturale della civiltà araba. Ora che il regime siriano inferisce gli ultimi colpi alla «resistenza», e gli arrestati cominciano a confessare, ne esce un quadro alquanto diverso dalla narrativa mediatica occidentale. Gente costretta ad assistere all’esecuzione di un giovane sconosciuto, portato legato in una piazza pubblica a Douma, sobborgo di Damasco. Un arrestato, Ayman et Fahd Arbini, ha raccontato di aver sparato un RPG sulla chiesa cristiana di Arbin, altro sobborgo di Damasco, «su ordine di Zaher Qweider di Al Qaeda», un tale venuto dall’Iraq.

I ribelli avevano liste di persone da eliminare. Sulla base di queste liste, hanno ammazzato ad Aleppo il campione di boxe Ghiath Tayfur, ad Homs hanno sequestrato e fatto sparire il politico Mosbar Al Chaar; il numero degli eliminati meno famosi è ancora incerto.

«Hanno assassinato uomini d’affari e professori d’università. Ora sappiamo che ciascuno di noi può morire in caso di attacco delle bande armate se il suo nome figura in quelle liste», dice Nadia Khost.

Ora che sul terreno la situazione si volge sempre più a favore del regime e delle sue forze armate, la «narrativa» dei media diventa sempre più inverosimile. Emerge che l’esercito di Assad ha risposto a gravissime provocazioni, ed è spesso intervenuto per proteggere la popolazione.

Via via che la gente normale viene liberata dall’incubo dei «liberatori», racconta com’era la vita nei territori «liberati»:

«Nei quartieri che controllavano, le bande armate hanno impedito ai bambini di andare a scuola, hanno ucciso operai che si recavano al lavoro, hanno vietato ai contadini di andare a seminare sulla propria terra e alle centrali elettriche di rifornirsi; hanno rubato ambulanze, si sono impadroniti di automezzi di privati e delle municipalità. Hanno distrutto la vita dovunque si sono installati».

AD Homs,un cittadino ha raccontato come un cecchino abbia tenuto nel terrore un certo numero di strade, che controllava da una terrazza: fra gli uccisi, un bambino di 11 anni, di nome Malek El Akta. Uno dei ribelli arrestati a Baba Amra ha ammesso, senza batter ciglio, d’aver assassinato almeno cinquanta persone e violentato decine di donne. Si considera un buon musulmano, perché (racconta la Khost) «degli sheik wahabiti dell’Arabia Saudita, così come lo sheik di Al-Jazira Kardawi, pronunciano delle fatwah che legalizzano l’assassinio di alauiti, cristiani, drusi oltrechè dei sunniti favorevoli al governo» siriano. «Le bande siriane che eseguono queste fatwah ricevono fondi dal Katar e dall’Arabia Saudita, insieme alle droghe, che l’armata regolare siriana confisca in quantità insieme alle armi».

L’armamento trovato ai ribelli sconfitti merita un capitolo a parte: «obici, mitragliatori di ogni genere, bombe assordanti, obici anti-carro, visori notturni, giubbotti anti-proiettile, materiale di trasmissione sofisticato», insieme a «valute occidentali e israeliane, diversi passaporti». Fra questi, un notevole «passaporto per il paradiso» emesso dagli sceicchi sauditi. «Questi sceicchi non conoscono la raccomandazione fatta, all’inizio dell’Islam, dal califfo Omar bin el Khattab: ‘Non uccidete donne né bambini né vecchi, non tagliate alberi, e lasciate i monaci nei loro conventi».

In che progetto si iscrive questa violenza di massa indiscriminata, questo terrorismo pagato dall’estero e che si vale di guerriglieri stranieri, chi è colpevole di questi delitti? Perché questa non è una strategia di «liberazione» di un popolo oppresso, ma di «conquista» e di terra bruciata.

«L’obbiettivo di questo terrorismo», scrive Nadia Khost, «è frantumare la società siriana, infliggere perdite all’esercito, fare a pezzi la Siria, paralizzare la produzione agricola, industriale, artigianale. Distruggere la struttura dello Stato». (Qui est responsable des crimes en Syrie?)

Madre Agnes-Mariam de la Croix
  Madre Agnes-Mariam de la Croix
È un’analisi che coincide con l’allarme che da mesi lancia Madre Agnes-Mariam de la Croix, carmelitana, superiore del convento di San Giacomo l’Interciso, su tutti i mezzi cattolici specialmente francesi, inascoltata. La stessa Madre Agnes-Mariam ha riferito ai ricercatori di una commissione francese (ne riparleremo) che nella orribile giornata del 6 dicembre, ad Homs «liberata», più di cento persone «sono state ammazzate in combattimenti interconfessionali… ci sono state scene spaventose, donne violate, seni tagliati, persone trucidate e troncate a pezzi. Un commerciante è stato ucciso per aver venduto qualcosa a un polizotto. Un giovane sposo cristiano è stato assassinato perché rifiutava di manifestare a fianco degli insorti».

Facile ritenerle voci isolate di minoranze che hanno tutto l’interesse alla stabilità del regime siriano, da cui sono protette e garantite; o a pura propaganda del regime. Ma va segnalato che tre sperimentati giornalisti di Al Jazeera, praticamente tutto l’ufficio di Beirut, si sono dimessi denunciando le falsificazioni dell’emittente sulla tragedia siriana, la censura ai loro reportages che documentavano ciò che non andava documentato, e le pressioni subite dal proprietario, l’emiro del Katar. Non capita spesso in Occidente che tre grandi firme si licenzino, giocandosi la carriera e il prestigio di lavorare per una catena internazionale, per difendere la verità e la dignità professionale. È strano che i loro colleghi in Occidente non abbiano dato rilievo alla loro decisione, anzi l’abbiano nascosta.

Diamo almeno i nomi: Ali Gashem, inviato speciale da Beirut in Siria, il direttore dell’ufficio Hassan Shaaban, e il produttore, quest’ultimo in protesta perché Al Jazeera «ha totalmente ignorato il referendum tenuto in Siria per la riforma costituzionale, che ha visto alle urne il 57% degli aventi diritto e il 90% dei voti a favore del cambiamento». (Al Jazeera exodus: Channel losing staff over ‘bias’)

Accuse di reportages falsi e video «fabbricati» sulla Siria, allo scopo di screditare il regime, sono venute da più parti, non solo contro Al Jazeera, ma contro la CNN e la BBC. Molte scene di bombardamento della città-martire di Homs da parte dell’esercito siriano sono state messe in dubbio dal giornalista investigativo Rafik Lotf, che ha esaminato i video: in molti casi, le nubi di fumo nero che si elevano dai palazzi sarebbero pneumatici incendiati sui terrazzi… (Wag the dog: How to cook-up Syrian drama) | (Hollywood in Homs and Idlib?)

Notizia parimenti censurata dai media occidentali: tre dirigenti del blocco anti-Assad, o Consiglio Nazionale Siriano, se ne sono andati sbattendo la porta. Si tratta di Haitham al-Maleh, Kamal al-Labwani e l’attivista dei diritti civili, la cristiana Catherine al-Telli. Labwani ha spiegato che «non vogliamo essere complici del massacro del popolo siariano», accusando il Consiglio di «essere legato a progetti stranieri che puntano a prolungare la battaglia in attesa che il Paese sia trascinato nella guerra civile».

La Lega araba, egemonizzata dai sauditi e dal Katar, ha come si sa condannato subito il regime siriano, chiedendogli di accettare l’ispezione sul terreno di una Commissione di osservatori arabi: Damasco ha accettato – probabilmente contro le speranze dei sauditi, che dal rifiuto avrebbero tratto altri argomenti di propaganda antisiriana – e la Commissione, una volta sul terreno, ha dovuto ascoltare il grido di dolore dei siriani che denunciavano le atrocità dei ribelli. Nel suo rapporto, ha dunque riferito di tali atrocità delle bande armate, tenute nascoste dai media e ignorate dalle capitali occidentali e dalle retrive monarchie arabe. Risultato: la Lega Araba ha gettato via il rapporto ed ha preteso le dimissioni del capo-missione il generale sudanese Mohaed Ahmed Mustafa Al-Dabi, colpevole di aver turbato la «narrativa» corrente.

Infine, una fonte insospettabile il «Centre Français de Recherche sur le Renseignement», un gruppo d’intelligence privato allestito da vecchi dirigenti del DST, insieme al Centre International de Recherche et d’Études sur le Terrorisme & l’Aide aux Victimes du Terrorisme», hanno condotto una inchiesta sul terreno. Il titolo del loro rapporto: «Siria, una libanizzazione artificiale», già dice molto di quel che hanno appurato. Ma il testo merita una lettura integrale. Si può trovare qui: www.cf2r.org

Senza lesinare critiche al regime siriano e alla sua gestione della crisi, non senza sottolineare la crisi sociale di un Paese dove la disoccupazione giovanile è altissima (e il 75% della popolazione ha meno di 24 anni) e la vita è tragicamente rincarata nell’ultimo anno (condizioni comuni alle altre «primavere arabe») il rapporto francese denuncia «la falsificazione orchestrata degli eventi, il gioco degli attori stranieri che perseguono, attraverso il loro sostegno agli oppositori, obbiettivi di politica estera che nulla hanno a che vedere con la situazione interna del paese».

Gli ex agenti dei servizi di Parigi inquadrano la rivolta nella nuova politica americana in Medio Oriente, politica che è stata battezzata come «instabilità costruttiva». Tale strategia, dicono, «posa su tre principii: creare e gestire conflitti a bassa intensità – favorire lo spezzettamento politico e territoriale – e promuovere il settarismo, se non la pulizia etnico-confessionale».

Robert Satloff
  Robert Satloff
Il concetto e la tecnica di «instabilità costruttiva» sono stati elaborati, dicono i francesi, dai centri neoconservatori americani. E citano al proposito una analisi condotta da Robert Satloff, l’ebraico direttore del WINEP, Washington Institute for Near East Policy (un braccio molto influente della lobby israeliana), datato 15 marzo 2005. Dove Satloff scriveva che «gli americani non hanno interesse alla sopravvivenza del regime di Assad, regime minoritario che si regge sull’intimidazione»: nel 2005, al contrario, persino la presidenza Bush jr. riteneva necessario puntellare il regime, a scanso di esplosioni incontrollabili nell’area.

Ma Satloff, previdente, già consigliava tre tipi di azione:

1) raccogliere un massimo d’informazioni sulle dinamiche sociali ed etniche interne alla Siria;

2) Agitare una campagna su temi come la democrazia, i diritti umani e lo Stato di diritto;

3) «non offrire al regime siriano alcuna uscita di sicurezza, a meno che il presidente Bashar Assad non sia disposto ad andare in Israele nel quadro di una iniziativa di pace o se espelle dal territorio siriano tutte le organizzazioni anti-israeliane, e rinunci alla violenza «lotta armata o resistenza nazionale, come detta il gergo locale».

Questa politica americana (chiamiamola americana), dicono gli agenti francesi, «è stata largamente influenzata da una direttiva di Oded Yinon, alto funzionario del ministero degli Esteri israeliano, datata febbraio 1982, dove si delinea il progetto geostrategico di frammentare l’insieme medio-orientale in unità le più minuscole possibile, fino allo smantellamento puro e semplice degli Stati vicini ad Israele».

Si tratta dell’articolo apparso sulla rivista ebraica «Kivunim», stampata dal Dipartimento propaganda della Organizzazione Sionista Mondiale, che i nostri lettori già conoscono. Il rapporto francese ne cita un passo:

«La decomposizione del Libano in cinque provincie prefigura la sorte che attende l’intero mondo arabo, compreso Egitto, Siria, Iraq e la penisola araba… La disintegrazione della Siria e dell’Iraq in provincie omogenee dal punto di vista etnico e religioso, è l’obbiettivo prioritario di Israele a lungo termine; a breve, l’obbiettivo è la dissoluzione militare di questi Stati. La Siria si dividerà in più Stati secondo le linea di frattura delle comunità etniche, sicchè la costa diverrà uno Stato alauita sciita; la regione di Aleppo, uno Stato sunnita; a Damasco, un altro Stato sunnita ostile al suo vicino (…). I drusi costituiranno il proprio Stato, che si estenderà sul nostro Golan: questo Stato garantirà la pace e la sicurezza della regione (…). È un obbiettivo fin d’ora alla nostra portata».

Per ora il piano ha avuto una battuta d’arresto. Le bande armate sono state sconfitte, e con esse i loro manovratori internazionali. L’Iran ha affiancato efficacemente il regime siriano (1). Russia e Cina hanno detto con chiarezza che considereranno un intervento militare esterno contro Damasco una minaccia alla propria sicurezza nazionale.

La specifica ancorchè fragile «unità» del Paese, unica nel quadro del Medio Oriente – espressa nella frase «siamo tutti siriani, qualunque sia la nostra religione» – ha tenuto; le atrocità commesse dai ribelli e dalle bande terroriste islamiste appunto per eccitare agli scontri religiosi e settari, hanno prodotto una revulsione della maggioranza silenziosa che, se non appoggia il regime, ancor più teme la libanizzazione, o la riduzione della Siria al caos libico e iracheno. Il 40% della popolazione appartiene a qualche minoranza, ha dunque solo da perdere dalla radicalizzazione eccitata da fuori.

«C’è più tolleranza e libertà religiosa in Siria che in qualunque altro Paese arabo», dice il patriarca melchita Gregorios III.

La Costituzione approvata dal 90% dei siriani – chiamati al voto in quella situazione – vieta i partiti fondati su base etnica e religiosa, e garantisce il rispetto delle libertà personali. È stata oggetto di un vasto dibattito nazionale nelle università, in TV, nei centri culturali.

Quel che vogliono distruggere, dice Nadia Khost, è «un Paese che si distingue per un tessuto sociale dove le religioni, le confessioni e le etnie si mescolano in una unità nazionale. Un Paese che traduce le opere della letteratura mondiale, che ascolta la musica classica e la musica locale, e dove le donne partecipano alla vita produttiva e pubblica».

Nulla sarà più come prima, dicono però molte altre voci consapevoli. Anche il Libano era un modello di convivenza, prima che «la sicurezza di Israele» diventasse la priorità a cui tutto si deve sacrificare, vite umane, civiltà, verità.

Perché, naturalmente, la strategia del terrore continua. Il 16 marzo due auto-bomba piazzate davanti alle sedi dell’intelligence della forza aerea siriana e della Polizia a Damasco hanno fatto 27 morti e 97 feriti; immediatamente dopo, una bomba è esplosa in un autobus che portava membri dell’Armata di Liberazione palestinese, una entità di palestinesi filo-Iran, nel sobborgo Al Yarmouk di Damasco. Attentati-stragi «tipo Al Qaeda» in cui persino il sito ebraico DEBKA Files indica la mano «dell’Arabia Saudita e del Katar per ravvivare la rivolta anti-Assad, dopo che il regime ha schiacciato l’ultima ribellione armata ad Idlib». Il vile gesto di rabbia dei regimi dove non si traducono libri della letteratura mondiale, e dove alle donne non è permesso nemmmeno guidare l’auto – e tuttavia godono del favore della Casa Bianca come promotori della «democrazia». (At least 27 dead in Damascus bombings. Russians man Syrian air defenses )





1) Secondo DEBKA Files, Teheran ha addirittura messo in opera un ponte aereo, «il più grande che l’Iran abbia mai organizzato», per far giungere armi, munizioni ed esperti militari ad Assad. Il ponte aereo è stato reso possibile «dal permesso di Baghdad agli iraniani di sorvolare l’Iraq direttamente. Il presidente Barak Obama ha cercato di intercedere con il primo ministro iracheno Nuri Al Maliki, solo per riceverne un rifiuto». Anche Mosca ha dato un sostegno diretto, fornendo le batterie di intercezione anti-aerea 50 Pantsyr S1, quasi certamente operate da tecnici russi. È a queste batterie, secondo DEBKA, che si deve l’ammissione del generale Martin Dempsey, capo degli Stati Maggiori USA, che «la difesa aerea siriana è cinque volte più sofisticata di quella che c’era in Libia, rendendo degli attacchi aerei più rischiosi e più complicati»: insomma, l’intervento umanitario è rimandato. Insomma questa fase del conflitto segna una netta sconfitta dei poteri occidentalisti i quali – è documentato – dal canto loro avevano spedito elementi delle forze speciali francesi e inglesi a fianco dei terroristi ribelli. Azione, è il caso di ricordarlo, contraria alla legalità internazionale.



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