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Fini e lo Spirito della Storia
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Quello che penso di Gianfranco Fini l’ho già scritto quasi tre anni fa. Non merita che mi ripeta. («Comprereste un’auto usata da quest’uomo?»)

L’uomo ha un solo obiettivo: il potere personale e perciò la smania di essere ammesso definitivamente a sedere nel salotto buono dei poteri forti, ma non pensate che in quella follia non ci sia del metodo.

Fini è un animale a sangue freddo: attende gli errori degli altri per rimbeccarli subito dopo, ruba la scia dei battistrada per infilarli alla prima staccata e cerca gelidamente la carezza dei potenti dopo aver freddato i suoi.

Forse per questo non è mai riuscito ad andare troppo lontano, ad essere un leader vero, è sempre stato secondo: il delfino di Almirante, il vice di Berlusconi, la terza carica istituzionale.

Ci fu un attimo in cui nel 1996 avrebbe potuto fare di AN il cuore della coalizione di centro-destra: ma questo avrebbe significato assumere un’identità propria e definita, cercare l’incontro con la gente e continuare a faticare. Fu lì che Fini gettò la maschera: scelse Mario Segni e Taradash, l’ebreo amico di Pannella, precipitò nei consensi e da allora non è più riuscito a risalire la china, è rimasto «l’alleato».

Di recente di fronte al prendere o lasciare di Berlusconi dopo il discorso del predellino a San Babila, s’è tuffato nel PDL, infilandosi nel pertugio lasciato aperto dal Cavaliere e, sfruttando la rendita di posizione, s’è fatto piazzare alla presidenza della Camera, da dove si può permettere senza rischi di giocare in proprio: di là infatti, se Berlusconi vince, continuerà a fare la mosca cocchiera, rivendicando ogni giorno qualcosa di più. Se perde potrà rivendicare il ruolo di leader del Centro-destra e proseguire nella sua lunga marcia.

Della sua gente se n’è sempre infischiato, ha deciso motu proprio la linea, sapendo che il sistema istituzionale, messo in piedi con il maggioritario spurio, gli dava mano libera nell’annientare politicamente chi gli sbarrasse la strada. I colonnelli perciò si sono ammutoliti e sono divenuti caporali: Storace se n’è andato. Ora che è lassù e pontifica, Fini si sente inattaccabile e lo è, perché in un sistema blindato come questo, s’è messo in una posizione dove, fin che dura, può solo salire.

Se oggi è dov’è, lo deve al Cavaliere, ma se ci sarà l’opportunità, non ci penserà due volte a tradirlo. Ha già messo la freccia e sorpassa a sinistra. Ha rotto completamente con quella parte della Destra cattolica che lo aveva sostenuto, ha gettato alle spalle l’immagine della Destra fatta di «legge e ordine», si è ripulito dell’odore della Destra sociale, per imboccare dritto dritto la direzione di una Destra tecnocratica. Da questo punto di vista egli sviluppa nient’altro che una matrice di pensiero «modernizzatrice ed elitaria» già presente nel Fascismo, che voleva realizzare il compimento degli ideali risorgimentali, che era nazionalista, ma anglofila, che non affondò col Fascismo, ma si agglutinò intorno al gruppo di potere che avrebbe dato vita a quel fenomeno, più culturale in realtà che politico, che fu il Partito d’Azione e poi il Partito Repubblicano. Ciò che egli sta facendo, lo ha già fatto in Francia Giscard d’Estaing, che rappresenta oltralpe quella stessa visione elitaria e «di loggia»: non occorre essere affiliati, basta condividere un certo «spirito».

Detto questo, non è dell’uomo in sè che interessa parlare, ma del fatto che Fini è l’epifenomeno di un mondo, quello della Destra fascista e post-fascista, di cui Pietro Vassallo ha toccato di recente un nervo scoperto nel suo - come al solito - eccellente, anche se arduo articolo «Parabola della neodestra, da Armando Plebe a Gianfranco Fini». La problematicità, cioè, dell’eredità post-fascista rispetto al Cattolicesimo tradizionale viene spesso taciuta, ma è un tema che meriterebbe di essere molto approfondito, giacché quell’eredità non è meno in contrasto con la Tradizione cattolica di quanto lo siano il pensiero e l’esperienza liberale o socialista.

Se il Sillabo avesse visto la luce nel 20° secolo, anziché nel XIX, il Fascismo, la sua dottrina, le sue derivazioni sarebbero certamente stati inclusi all’interno dei «principali errori dell’età nostra». Non foss’altro per quella concezione secondo cui «lo Stato è un assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo, in virtù della quale tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato». Quest’idea propria del Fascismo incarna per l’appunto uno degli errori additati dal Sillabo a proposito della società civile, considerata in sé come nelle sue relazioni con la Chiesa e cioè che lo Stato, inteso come origine e fonte di tutti i diritti, gode un certo suo diritto del tutto illimitato.

Anche lo «spiritualismo» fascista ben poco ha a che fare con la natura trascendente della spiritualità cristiana e se il Fascismo si dice portatore di «una concezione religiosa, in cui l’uomo è veduto nel suo immanente rapporto con una legge superiore, con una Volontà obiettiva che trascende l’individuo particolare e lo eleva a membro consapevole di una società spirituale», la legge superiore non si può dire coincida con quella del decalogo, la Volontà obiettiva non è quella del Dio della rivelazione cristiana, la società spirituale a cui l’uomo è elevato per divenirne membro non è la Chiesa, ma lo Stato Fascista.

Anche la mistica fascista poco o nulla ha a che vedere con quella cristiana e se è vero che «nella politica religiosa del regime fascista non ci si può fermare a considerazioni di mera opportunità», perchè nel Fascismo un certo spiritualismo è implicito e ne diviene un sistema di pensiero, il suo carattere immanente lo rende non meno distante dalla Fede che il deismo illuminista, di cui in fondo ne costituisce solo la versione termidoriana. Già nella simbologia del fascio littorio vi è l’evidenza di un radicamento in alcune correnti giacobine, il richiamo a forme di spiritualismo arcaico e pagano, ad un ritorno alla classicità che ebbe nell’ermetismo la propria modalità di transizione fino al riemergere nella storia a partire dal Rinascimento.

Non si obietti che il Fascismo è contro tutte le astrazioni individualistiche, a base materialistica ed è contro tutte le utopie e le innovazioni giacobine, perché non crede possibile la «felicità» sulla terra e la sistemazione definitiva del genere umano come fu nel desiderio della letteratura economicistica del ‘700. E’ vero che il Fascismo politicamente vuol essere una dottrina realistica, che aspira a risolvere solo i problemi che si pongono storicamente, ma nel fare ciò e nel suo porsi in contrasto con ogni concezione meramente individualistica o collettivistica, la concezione fascista «è per lo Stato; ed è per l’individuo in quanto esso coincide con lo Stato, coscienza e volontà universale dell’uomo nella sua esistenza storica».

C’è qui tutto il portato del pensiero moderno, l’hegelismo di Destra, l’immanentismo di fondo, cui si unirannno via via le correnti di pensiero che da questa matrice germineranno, tutte irrimediabilmente unite dalla volontà di affrancamento dal passato della Tradizione cristiana e dal superamento o nella migliore delle ipotesi dal riassorbimento della concezione cattolica.
Positivismo, nazionalismo, darwinismo sociale, razzismo, socialismo e sindacalismo rivoluzionario, futurismo, nazionalismo, attualismo, idealismo magico, tutto converge nel Fascismo e tutto viene in un qualche modo metabolizzato, portato a sintesi superiore nello Stato, inteso come sintesi assoluta della razionalità dei singoli, che riconoscono in esso il luogo della piena realizzazione della libertà, all’interno di quella dialettica che realizza il divenire storico: l’essere tesi ed antitesi insieme, riunite in una sintesi superiore, è per il Fascismo non già idelogia, ma il metodo con cui realizzare il progresso della storia. Lo spiega Mussolini dicendo proprio che il Fascismo è un metodo, non un fine, «una autocrazia sulla via della democrazia» come ebbe a chiarire in una intervista al Sunday Pictorial di Londra il 12 novembre 1926. E a ben vedere, proprio per questo all’atto della fondazione dei Fasci di Combattimento, aveva detto: «Noi ci permettiamo di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalisti e illegalisti a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente».

Nessuno stupore, dunque, se il Fascismo nacque repubblicano, visse monarchico e morì repubblicano; nacque socialista, visse capitalista (seppure dirigista) e morì socialista; nacque anticlericale, visse concordatario e si scontrò con l’Azione Cattolica, nacque rivoluzionario, visse borghese e morì ribelle.

Il Fascismo fu l’espressione bonapartista di un’idea rivoluzionaria in cui il potere politico affranca se stesso da ogni trascendenza, idea questa che è alla base della moderna idea di Stato, idea in gestazione da secoli, a mano a mano che il potere mondano si affrancava dal controllo e dalla legittimazione della Chiesa: l’assolutismo monarchico, che altro non sarebbe stato secondo la dottrina tradizionale cattolica che dispotismo imparruccato, degno di un sano tirannicidio, genererà tale risentimento che troverà nel mito della sovranità popolare il proprio verbo, nella Rivoluzione delle teste rotonde il proprio esordio, in quella americana il proprio consolidamento, in quella francese il proprio compimento, nel terrore giacobino il proprio culmine, in termidoro il suo appagamento, nel bonapartismo la sua coerente antitesi e l’inevitabile sbocco.

Allo stesso modo lungo tutto il secolo XIX l’idea romantica di identità dei popoli, alla base delle insurrezioni liberal-costituzionali prima e rivoluzionarie poi (si pensi agli eventi che portarono al ‘48) faranno sì che il patriottismo degeneri nel giro di qualche decennio nel nazionalismo aggressivo e l’egualitarismo si muti in socialismo prima e nel comunismo e nel sindacalismo rivoluzionario poi.

Il mito della «dea ragione» e della scienza saranno alla base di quelle altre teorie scientiste, evoluzioniste e positiviste, che vedranno pensatori di vario calibro impegnati a ricavare da quelle osservazioni teorie sociologiche naturalistiche, deduzioni darwiniste e razziste, cui ben prima del fascismo e del nazismo varie correnti di pensiero a destra e a sinistra attingeranno a piene mani.
Quando con la Prima Guerra Mondiale la nevrosi nazionalista fungerà da combustibile per incendiare e annichilire il vecchio continente in quella che il Pontefice allora regnante chiamerà l’inutile strage, demolendo per sempre le vestigia ultime di un Impero che si era sforzato lungo i secoli per un attimo almeno di essere cattolico, le varie forme di nuovo superomismo e aggressivo futurismo, fin lì cantate liricamente da filosofi impazziti e da poeti da bell’epoque, troveranno nella temperie della guerra, nell’acciaio degli obici, nel fango delle trincee, nello sterminio e nell’omicidio di massa il brodo di cultura per la nascita dell’«uomo nuovo».

A quello socialista, forgiato dalla rivoluzione russa, risponderanno sul continente le rivoluzioni nazionali. Per entrambe l’uomo vecchio, uscito dai secoli passati, dovrà lasciare il posto all’uomo nuovo forgiato dall’idea rivoluzionaria: la folle idea giacobina di sostituire all’uomo in carne ed ossa il cittadino maieuticamente uscito dal grembo rivoluzionario, unisce paradossalmente ma non troppo gli immortali ideali dell’‘89, quelli bolscevichi del ‘17, la marcia su Roma delle camicie nere e la conquista di Berlino da parte di Hitler e Goebbels.

Poi in tutto ciò la fortuna del Fascismo, rispetto agli altri totalitarismi, fu quello di nascere nella stessa terra in cui c’era il Papa ed il suo merito fu quello di lasciarsi - fino ad un certo punto - guidare assai più dal realismo e dal buon senso che dall’ottenebramento dell’ideologia. Portando a sintesi le molte anime moderne ed antiche che lo pervadevano, il Fascismo riuscì per un certo periodo ad apparire un autoritarismo temperato. Il suo merito fu quello di raggiungere attraverso la prassi politica dell’esercizio del potere pragmaticamente utilizzato una sintesi a suo modo mirabile di varie istanze presenti nella società italiana, di comporle in un quadro organico, spesso innovativo, ove le contraddizioni, tra cui la compressione della libertà individuale, venivano superate e ricomposte all’interno dell’idea di Stato, inteso come sintesi della razionalità dei singoli e luogo della piena realizzazione della libertà.

Ciò potè accadere ad un tratto perfino con la Chiesa cattolica, ma qui il superamento dell’antitesi non poteva compiersi se non tatticamente: così come con il liberalismo o il marxismo, non è dato alla Chiesa di assumere dialetticamente in sé l’errore e lasciarsi assorbire in alcuna sintesi superiore, giacchè essa è portatrice di una Verità non storica, ma metastorica. Non è la Sua una Verità che esprime lo spirito della Storia in un determinato momento, suscettibile di essere superato in un momento successivo, essendo il nucleo essenziale della Verità che la Chiesa proclama immutabile ed irriducibile, perché rivelato da Dio, incarnato nella storia e nel tempo, ma non immanente ad essi, né tale da poter essere da essi plasmato, modificato, adattato, addizionato, aggiornato o in qualche modo ricondotto ad un «logos della storia» che si determina lungo il tempo da se medesimo.

Ciò fece sì che la Conciliazione  del ‘29 fosse un’encomiabile e realistica operazione politica, in cui Stato e Chiesa trovavano un accomodamento ed una qualche forma di legittimazione reciproca, ma in cui è impossibile dire che il Fascismo si ecclesializzò o che la Chiesa si fascistizzò: le ben note vicende che videro contrapporsi il Regime e l’Azione cattolica ne furono una incontrovertibile testimonianza.

Se Franchismo e Salazarismo poterono magari apparire forme tardive di autocrazia a matrice in qualche modo cattolica, ciò non vale per il Fascismo: la conciliazione con la Chiesa cattolica non fu l’assunzione da parte del Fascismo «entro di sé» dei principi essenziali della fede cattolica, ma la pragmatica constatazione della coincidenza di determinati valori del Cattolicesimo con quelli riconosciuti dal Fascismo, oltrechè la constatazione che la base unificante del popolo era allora costituita dal Cattolicesimo: governare contro la Chiesa sarebbe stato impossibile. Nel suo pragmatismo adattivo, nella sua straordinaria modernità, nell’attualismo della sua essenza il Fascismo potè allora «farsi cattolico», così come oggi si farebbe modernamente agnostico e spiritualista ad un tempo.

Nella pancia del Fascismo ci stanno gli dei, più che Dio ed il Fato assai più che la Provvidenza. Roma, cui la retorica Fascista si richiamava, non era quella dei Papi, ma di Cesare e la «riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma» porta i segni della volontà e della potenza del Littorio romano, non quello della croce di Cristo.

Il Fascismo fu plastico, fu antico e modernissimo e proprio per questo, se fosse sopravvissuto alla guerra, avrebbe adattato se stesso allo «Spirito della storia». Nel Fascismo ci stavano Gentile e Bottai, D’annunzio e Pirandello, Ugo spirito e Gioacchino Volpe, storico, Giuseppe Ungaretti e Papini e ci poterono stare Evola e Interlandi. Ci stava il concordato e il neopaganesimo, la devozionalità popolare e la mistica fascista, il conservatorismo e lo spirito della Rivoluzione. Se nella vulgata postbellica esso è stato tramandato nelle sue forme obsolete, ciò fu la conseguenza di un sentimentalismo nostalgico, dovuto anche alle modalità della morte del suo capo: il «martirio» di Mussolini contribuì ad immobilizzare il post-fascismo all’interno della forma storica che il Fascismo aveva incarnato nel Ventennio, a dargli una immobilità ed una fissità che esso in realtà non ebbe mai.

L’ideale fascista paradossalmente e impropriamente si incarnò e si irrigidì nella salma di Mussolini, senza contare che dialetticamente Mussolini i suoi ideali, per continuare con l’esercizio del potere a scrivere la Storia, li cambiò continuamente.

Alla fine Mussolini fu tradito, probabilmente prima di «tradire» ancora una volta. Prima aveva tradito il socialismo, aveva tradito l’idea repubblicana, aveva tradito il suo anticlericalismo: era contro la Germania e si alleò con essa, quando gli parve che quello sarebbe stato il modo migliore per guadagnare spazio in Europa. E tuttavia, quando le sorti della guerra mutarono, pare stesse puntando ad una pace separata con gli inglesi. Se nel 1921 aveva detto che occorreva vigilare sulla razza, perché è con la razza che si fa la storia, nel 1934 rivendicava il fatto che «trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine di oltr’Alpe, sostenute da progenie di gente che ignorava la scrittura nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio, Augusto». Ciò non gli impedì nel 1938 di promulgare le leggi razziali. Il «martirio» di Mussulini fu la sua fortuna postuma, contribuì ad accreditare il mito del tradimento contro di lui, alimentò attorno a lui l’aura della leggenda, facendo dimenticare i molti voltagabbana ideologici che Mussolini per primo fece e la spregiudicatezza delle sue posizioni.

Fini (seppure tra i due il paragone per statura non è proponibile) in fondo è cresciuto a questa scuola. Anche lui a modo suo si conforma all’hegeliana razionalità della storia. Non penso che in Fini ci sia la capacità teoretica per elaborare una dottrina politica ispirata a qualche concezione astratta: da animale a sangue freddo annusa l’aria. Così non penso che egli sia in grado di operare una sintesi compiuta delle varie latenze di Destra presenti in Italia, ma di certo il suo fiuto gli rende ben presente che il consolidamento del potere passa attraverso una serie di mutazioni genetiche della Destra, che la rendano compatibile con quei poteri forti e talvolta occulti che impongono i valori in Europa ed in Italia e di conformarla all’état d’esprit dominante.

E’ bene avvertire, però, che se oggi Fini porta a compimento un progetto, che è quello di strappare la Destra non solo dalla sua origine nostalgica e crepuscolare, ma anche da un «sentire» popolare, di cui essa è stata imbevuta per decenni, il percorso che egli persegue viene da lontano e comincia a manifestrasi con pienezza nel 2002. E’ da quel momento infatti che Fini si riposiziona non solo sul versante politico, ma anche da un punto di vista culturale e spirituale. Quella che era parsa una scelta di campo (e cioè la difesa dei valori cristiani) appare da quel momento con definitiva chiarezza una scelta tattica, non vincolante, da superare.

Citando in modo estemporaneo al Congresso del 2000 un pensatore problematico, ma certo originale, Alain De Benoist, teorico della Nuova Destra francese, Fini affermava «Nella società italiana c’è una quota di elettori di destra assai più ampia del nostro 12% dei voti. E’ la destra diffusa di cui parla Gennaro Malgieri. La possiamo e la dobbiamo rappresentare. Con i nostri valori, nella realistica consapevolezza di quanto scrive Alain de Benoist: ‘Ogni politica di destra si caratterizza innanzitutto per la sua gradualità. Implica il perseguimento di obiettivi limitati’ ».

Alain De Benoist è il teorico probabilmente più brillante che la Destra europea abbia partorito negli ultimi decenni, ma è stato da sempre uno dei punti di riferimento all’interno dell’MSI della corrente rautiana.

Sentirlo citare da Fini, che rappresentava invece l’ala almirantiana e politica del partito, fa un certo effetto. I «gramsciani di destra» all’interno dell’MSI (come talvolta venivano definiti i rautiani) erano visti da sempre come dei fastidiosi e presuntuosi compagni di strada. A quei tempi l’esponente di spicco dei rautiani, quello che contese a Fini la segreteria del Fronte della Gioventù era un brillante e giovane intellettuale, Marco Tarchi. Come ricordò Giano Accame «Marco Tarchi divenne anarchico per offesa ricevuta. Vinse il congresso giovanile e Almirante fece segretario nazionale Fini che era arrivato quarto».

Tarchi abbandonerà la politica e tra l’altro fonderà una rivista di nicchia e raffinatissima: Trasgressioni, ispirata proprio alle riflessioni della Nuova Destra francese. Tra i collaboratori c’è anche Alessandro Campi.

Dalla trincea della Roccia di Erec (la cooperativa che cura le pubblicazioni di Tarchi), Campi passa nel 2001 alla Fondazione Ideazione, di cui diviene dal settembre 2001 segretario generale. Da lì  transita a quella di Fare Futuro (fondazione vicina a Gianfranco Fini), di cui è oggi direttore scientifico e membro del Consiglio di Fondazione. E’ lui che in  questi giorni alza il fuoco di sbarramento per difendere il presidente di AN nella sua polemica con Berlusconi. Sul Riformista dell’8 settembre scrive: «L’idea che sostiene tutti questi attacchi è, all’ingrosso, quella di soffocare o delegittimare ogni pensiero critico nei confronti del Cavaliere, di costruirgli intorno una cintura di sicurezza, di creare un nuovo ordine a partire dal caos generalizzato. La divisione del lavoro appare chiara: il Giornale crocifigge gli avversari, reali o supposti, interni o esterni, a mezzo stampa, insultando e denigrando, la Lega mette a disposizione le truppe, in Parlamento e nelle piazze, Ghedini si occupa dei contenziosi in Tribunale a colpi di carte bollate».

E’ lui, secondo taluni, che avrebbe lasciato intravedere a Fini la straordinaria plasticità del pensiero di De Benoist. Come ha sinteticamente scritto Francesco Germinaro, recensendo in un piccolo volume il pensiero del teorico della Nuova Destra francese, lo schema di fondo del ragionamento di De Benoist è che «essere di destra significa esaltare la diversità del mondo, accettare la realtà per quella che è; essere di sinistra vuol dire esaltare l’egualitarismo che tutto appiattisce, vuol dire essere universalistici e postulare un agire normativo. Destra è considerare le diversità come un bene e dunque coltivarle; mentre la sinistra vedrebbe in ogni diseguaglianza un’ingiustizia, a partire ovviamente dal demone egualitaristico che la possiede (...). La distinzione destra/sinistra è ricalcata su quella paganesimo/cristianesimo. Anzi, di più: tutti i totalitarismi vengono dal monoteismo. Comunismo, fascismo, nazismo, liberalismo - per il pensatore francese - traducono tutti in campo politico il pensiero monoteistico-giudaico-cristiano, imperniato su un principio di esclusione dell’altro».

La Destra di Fini si affranca dall’esperienza del Fascismo, oggi superato e impresentabile. Per fare questo non solo rinnega l’esperienza storica del Ventennio e strumentalmente si genuflette ad ogni kippà che incontra, ma recupera un proprio sommerso filone anticattolico e condivide con il laicismo di matrice sinarchica e giudeo-massonica l’idea che il Cattolicesimo sia intollerante e che si debba emendare dal proprio esclusivismo. Per dirla col libro di Germinaro, la destra di Fini diventa  «la destra degli Dei».

Sia chiaro: dubito che l’uomo abbia la capacità sistemica e teorica per elaborare a tavolino tale strategia, ma egli ha fiuto e poi… «lo spirito della storia» è al lavoro.

Fini è un freddo utilitarista, capace di servirsi di ogni mezzo per liberarsi da ogni tipo di vincolo ideale, che gli impedisca di scalare il potere, ma questa «immoralità» lo rende straordinariamente adatto all’attualismo del pensiero, alla sua autoctisi (termine coniato da Gentile e derivato dal greco autos , «se stesso», e ktizein , «fondare», «creare»). Tale pensiero non dipende da presupposto alcuno, nulla lo precede, nè lo trascende: è atto puro e assoluta immanenza del pensiero. Fini in fondo è - anche involontariamente - simile alle plastiche radici da cui proviene, che concepivano il pensiero pensante, in quanto attività, non come un oggetto, perchè si troverebbe fissato e irrigidito e non sarebbe più in atto, ma come pura attività, che è solo in quanto «si viene facendo».

Apparirà a questo punto meno difficile capire anche l’improvviso  smarcamento dall’immagine «confessionale» del partito  realizzata dal leader di AN in uno degli incontri tenuti al «Forum delle Idee» nel 2007, quando lancia la scelta «politeista», dichiarando: «L’Italia è da sempre crocevia di genti e di storie, di lingue e di costumi», l’«humus della civiltà italiana è ricco e fecondo in quanto, fin dalle sue origini, ibrido, meticcio, contaminato», specificando che oltre che «culla del cristianesimo e quindi del cattolicesimo» l’Italia «è però anche erede di un’antropologia intimamente ‘politeista’».

Per concludere la destra post-fascista dell’MSI, prigioniera della salma di Mussolini, è stata nel lungo dopoguerra italiano occasionalmente regressiva, nostalgica, conservatrice, reazionaria, finchè l’hegeliano spirito della Storia non le ha dato l’occasione oggi di divenire progressista. Scandalizzarsi non serve, occorre capire e capire alla luce del pensiero e della Tradizione cattolica. La destra di Fini semplicemente si permette - per dirla con Mussolini - «di essere aristocratica e democratica, conservatrice e progressista, reazionaria e rivoluzionaria, legalista e illegalista a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente».

Questa è la matrice fascista della Destra. Solo i seguaci di un Fascismo immaginario possono pensare il contrario e illudersi che la Destra sia ancora Dio, Patria e Famiglia: questa Destra certo non lo è.

Peraltro da sempre convivono a Destra linee di pensiero profondamente antitetiche rispetto alla dottrina cattolica. Oltre a Pareto e all’attualismo gentiliano, la Destra porta nella pancia tutto il filone neopagano legato al pensiero di Evola e di Guenon, pensatori di riferimento per generazioni di giovani. A ciò si è venuto innestando a partire dalla fine degli anni ‘70 l’elaborazione teorica della Nouvelle Droite e il pensiero di Alain De Benoist.

Questo altro non è che la forma aggiornata della modernità fascista, la sua autoctisi attuale, quella capace di non farsi archiviare con l’orbace ed il fez, ma di riguadagnare visibilità e presentabilità, ponendosi addirittura all’avanguardia del pensiero moderno, all’avanguardia della rivendicazione di sovranità dell’individuo sul proprio destino e sulla morale, ponendosi all’avanguardia del moderno neo-prometeismo, con strumenti ben più formidabili delle consunte ideologie «liberali o antagoniste», in una nuova forma identitaria, non più angustamente particolarista, razzista o nazionalista, certo no-global ma universale e sopranazionale, anche se non internazionale.

La nuova Destra ha compreso cioè che l’idea di nazione, confessione, esclusione appartengono ad un’epoca non globale e che l’attualizzazione della matrice che generò il Fascismo passa attraverso il molteplice ed il multipolare, ma non nella forma «sinistra» e obsoleta del «melting pot» ma casomai in quella identitaria del mixed salad. Fini attinge ed usa, probabilmente senza capire fino in fondo, ma capendo abbastanza, che la rivendicazione di sovranità dell’individuo e di nuove libertà conseguenti corrisponde all’état d’esprit dominante.

Per chi è cattolico il contrasto tra questi presupposti totalmente mondani (cioè del Mondo, pur se talvolta rivestiti di idealismo ed idealità) e la Fede sono evidenti, specie ora che il capo della nuova Destra ha gettato la maschera.

Sia chiaro: si può anche decidere di esprimere elettoralmente la propria preferenza per questa Destra, ben sapendo però che oramai ciò che la tratteneva dal conformarsi alla mentalità corrente è venuto definitivamente meno e che quindi essa diventerà sempre più simmetrica rispetto alla Sinistra. Oggi in Italia la Destra, quale ci era apparsa nei decenni passati, quella etnica e populista, è assai più incarnata nella Lega.

Anche qui invito però i lettori a stare attenti, perché ogni politica, anche se non appare, sottende una teologia ed il Dio della Fede cattolica è stato battezzato nelle acque del Giordano, non alle sorgenti del Monviso.

Sono cose che i cattolici tradizionali è bene non dimentichino, per evitare, magari senza accorgersene, di servire due padroni e di anteporre preoccupazioni mondane a quelle della Fede. Essendo lo zoccolo duro del tradizionalismo nostrano sovente legato - specie al Nord -  politicamente alla Lega, è bene di queste cose non scordarsene. Poi votare Lega è meglio che votare Fini, ma sempre nella consapevolezza che il nostro capo è Cristo, non Bossi, né Borghezio o Calderoli.

Insomma è bene evitare di scimmiottare altri: con totale stoltezza il popolo della Sinistra plaude a Fini, celebrandolo come paladino della democrazia. E’ evidente quanto siano ormai del tutto privi di strumenti ermeneutici adeguati ed è altrettanto evidente quanto questa Destra e questa Sinistra oramai in realtà si somiglino molto.

Incapace di trascinare gli ex seguaci di PCI e DC ad una autentica modernizzazione, la cultura dei poteri forti ha assegnato a Fini (che non ha nella pancia remore morali a recitare il ruolo che la «ragione della Storia» gli assegna) il compito di costruire il vecchio sogno del «Partito d’Azione di massa».

Pazienza se lo seguiranno i suoi, credendo che egli sia la vecchia Destra. Quel popolo - si sa - ha per lo più fatto politica all’ingrosso, gli basta vedere la Fiamma, per quanto ridotta, per credere di scaldarsi allo stesso fuoco di un tempo. Non sa, non riesce a capire che mentre le cose visibili restano identiche, quelle invisibili cambiano.

L’ironia sarà quando toccherà all’insipienza del popolo di Sinistra fare di Fini un padre della Patria. Tanto peggio per loro.

Domenico Savino




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