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Diseducazione e repressione
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E’ di questi giorni la notizia che il Comune di Roma ha deciso l’installazione di telecamere dedicate al controllo della criminalità e del degrado urbano derivanti dai sempre più frequenti atti di violenza, vandalismo e dal consumo di alcolici nelle zone considerate più a rischio e più animate dalla vita notturna romana.

Insomma, per garantire maggiore sicurezza e tranquillità ai cittadini romani il Comune ha deciso di filmare quanto accade nelle strade della capitale.

L’ennesimo colpo portato alla nostra libertà da parte del Grande Fratello orwelliano, staranno pensando i più apocalittici tra i lettori.

Una constatazione questa tanto vera quanto incompleta. L’aspetto repressivo in questa vicenda è sicuramente il primo che balza agli occhi, ma non per questo deve impedirci di indagare più a fondo.

Filmare quanto avviene per le strade delle nostre città è in effetti l’ennesimo passo compiuto dallo Stato moderno (o da chi per esso) nel suo incedere verso un controllo tentacolare ed invadente sulle vite dei suoi cittadini, le cui attività vengono registrate dopo essere già state spiate dai satelliti ed ascoltate tramite le intercettazioni.

L’obiezione che si potrebbe porre è la seguente: lo Stato, per sua stessa natura, tende a reprimere le devianze, di qualunque tipo, che prendono vita e si manifestano al suo interno. Questa repressione ha caratterizzato tutte le forme di Stato che sono esistite, tanto nelle epoche più moderne quanto in quelle più antiche.

Gendarmi e prigioni fanno parte da sempre della società così come il potere costituito, da che mondo è mondo, detiene il monopolio della violenza, intesa sia verso l’esterno che verso l’interno della società.

Tuttavia la forma capillare ed asfissiante che il controllo da parte del potere sta assumendo in questi ultimi anni non ha precedenti nella storia, sia per il grande supporto fornito da una tecnologia divenuta disumana sia per la portata sempre maggiore della repressione stessa.

Quest’ultima osservazione, ovvero la necessità sempre maggiore che lo Stato ha di reprimere, sia in forma preventiva che punitiva, sono la conseguenza dell’abbandono da parte dello Stato delle sua funzione educativa. Cittadini sempre più «maleducati», ovvero incapaci di rapportarsi al prossimo senza l’intervento delle «forze dell’ordine», non possono che alimentare in maniera sempre crescente questa necessità di repressione e punizione.

Lo Stato potrà reprimere fenomeni come il bullismo, il vandalismo, la violenza sessuale con leggi sempre più dure ed inflessibili, senza riuscire tuttavia ad eliminare questi fenomeni deplorevoli per il semplice fatto che lo stesso Stato ha rinunciato, nel suo rapporto con la cittadinanza, alla fase dell’educazione al cosiddetto «senso civico», che non deve essere inteso alla stregua del conformismo sociale, bensì come il rapportarsi con il prossimo come con qualcuno avente una sua dignità sociale e non come un semplice limite alla possibilità di compiere il nostro comodo sempre e comunque.

Ovviamente questo discorso appare paradossale per diversi aspetti.

Prima di tutto perché le istituzioni, che in un sistema sano dovrebbero rappresentare l’esempio più importante per i cittadini, presentano oggigiorno lo spettacolo disarmante di un classe politica volgare, ignorante, avida ed arrogante, specchio fedelissimo della società che è chiamata a governare.

Il secondo paradosso è di un evidenza sorprendente: nell’era del cosiddetto «Stato minimo», principio cardine della liberal-democrazia moderna, la repressione ed il controllo da parte dello stesso Stato hanno raggiunto dei livelli mai visti prima, segno questo che «l’evoluzione» dello Stato verso la sua dimensione minima non ha significato altro che l’abbandono della sua sfera etica a favore di un moralismo che produce divieti in serie dimenticandosi di abituare i propri cittadini all’onestà, al buongusto ed al rispetto.

A questo punto il cittadino disorientato non può che volgere l’attenzione all’altro importante riferimento sociale ed educativo che gli rimane: la famiglia. Ma che succede quando, per ragioni che possono essere molteplici, la famiglia non è presente o non incarna quell’esempio positivo che dovrebbe? Succede che il cittadino scompare per lasciare il posto al consumatore, creatura ibrida descrivibile esclusivamente in termini economici, totalmente priva di quella «pietas», tanto cara ai nostri antenati romani, che si declina con devozione per il sacro, amore per la propria terra e rispetto per la famiglia.

Del resto come potrebbe essere altrimenti in una società in cui il principale strumento di comunicazione, la televisione, propina quotidianamente degli anti-valori e degli archetipi umani che, presentati come modelli, non incarnano altro che mediocrità e volgarità?

Ma perché preoccuparsene; è molto più facile andare avanti a suon di ordinanze, divieti e telecamere. Perché educare quando si può reprimere?

Probabilmente un popolo più educato e dotato di un fibra morale più resistente sarebbe forse meno funzionale alla disumanità di un consumismo totalizzante e privo, esso sì, di alcuna limitazione e controllo.

La massima liberale secondo cui la libertà di un individuo finisce dove inizia quella di un altro si rivela oggi quanto mai incompleta, poiché nulla ci dice di quelle azioni e di quei gesti che, seppur non recano danno ad altre persone, sono intrinsecamente brutti e sbagliati perché ledono la dimensione umana di chi li compie.

Ma la liberal-democrazia globalizzata non si perderà certo in quisquiglie di questo genere, non è da temere. L’inebetimento e l’incatenamento dei cittadini andrà avanti per il semplice fatto che non è casuale, bensì strumentale.

Fino al giorno in cui, magari con la scusa di contrastare e reprimere la violenza domestica, qualcuno verrà ad installare le telecamere direttamente dentro le nostre case. E, finalmente, avremo tutti il nostro «reality show».

Ferdinando Kustermann Kindelan



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