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Le rotelle di Netanyahu. Di nuovo.
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«Netanyahu non ha più le rotelle a posto»: lo ha detto Shaul Mohfaz, capo del partito Kadima che è stato alleato del Likud di Netanyahu al governo la primavera scorsa) al termine di un colloquio con il premier israeliano. Tema: il famoso attacco all’Iran. Bibi sembrava «confuso, logorato e incerto, e invece di elaborare decisioni meditate e responsabili, crea un senso di guerra imminente», ha spifferato Mohfaz. La reazione del Likud è stata furiosa, come se il politico avesse rivelato un segreto di Stato. Tanto più che Mohfaz ha spifferato le sue valutazioni sulla psiche del premier alla Radio dell’Armata.

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«Il Primo Ministro ha perso la fiducia dei capi della sicurezza, del presidente degli Stati Uniti Obama, del presidente (israeliano) Shimon Peres. Una leadership fallimentare», ha girato il coltello Mohfaz.

Appena prima, il giudice della Corte Suprema sionista, Eliyahu Winograd, aveva definitio Bibi e il suo ministro della guerra Ehud Barak due «irresponsabili» per i loro continui annunci, bisettimanali o giù di lì, dell’attacco al’Iran che poi non arriva. Mofaz ha rincarato: «Non puoi tenere il Paese nella frenesia bellica, c’è una relazione diretta fra il parlare di guerra, la situazione economica e la disperazione della gente».

A stabilire un parallelo tra il degrado della situazione sociale ed economica in Israele e il degrado mentale di Bibi è anche la professoressa Naomi Chazan, direttrice della Scuola di Stato e Società, presitigioso istituto del Collegio accademico di Tel Aviv-Yaffo. La studiosa descrive una società dove «le divisioni settarie (provocate dai fanatici ultra-ortodossi scatenati, ndr.) sono più gravi che mai, la violenza è dovunque nelle strade, negli insediamenti, nelle scuole e nelle case, e la situazione economica peggiora rapidamente: (...) disoccupazione, tasse e costo della vita salgono insieme ad una crescente incertezza ed ansia» nella società. «Il prestigio di Netanyahu non ha potuto che soffrirne. La sua indecisione è più evidente che mai, e rivela una connaturata esitazione che è il contrario di una leadership audace. Il suo acume politico ha subito un vero colpo». (Netanyahu’s curious case of election aversion)

Quattro mesi fa, era stato Yuval Diskin, ex capo della sicurezza interna, a confidare all’ex parlamentare divenuto pacifista Yuval Avnery: «Dirò cose dure: non posso fidarmi di Netanyahu e Barak al timone nel conflitto con l’Iran. Sono ossessionati da sentimenti messianici sull’Iran…». Avnery, dal canto suo, metteva in relazione lo stato psichico di Bibi con la volontà di emulare il padre recentemente scomparso, Benzion Netanyahu (nato Mileikovsky) storico sionista, fanatico del Grande Israele (dal Nilo all’Eufrate) e padre autoritario. Bibi, secondo Avnery, è «un ossessionato da fantasie dell’Olocausto, fuori dalla realtà, che cerca di imitare un padre estremista e rigido; persona pericolosa per dirigere una nazione in una vera crisi». Tanto più col dito sul pulsante di 200 testate atomiche.

Sul personaggio spesseggiano, come si vede, le interpretazioni freudiane (Avnery evoca la «invidia del pene»). Lo stato mentale di Netanyahu è stato più volte chiamato in causa. Nel 2010 il suo psichiatra, che si chiamava Moshe Yatom e l’aveva in cura, sembra, da nove anni, s’è tolto la vita apparentemente per la disperazione di avere un paziente così intrattabile. Non senza lasciare annotazioni sul diario che stilano un ritratto del premier israeliano come di un vero psicopatico, che vive in un mondo di fantasia olocaustica. (Psychiatrist of Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu Commits Suicide)

Ma ci sono più concreti motivi per mettere a dura prova le rotelle di Netanyahu. Pochi giorni fa il generale americano Martin Dempsey (la più alta autorità militare del momento in quanto capo degli Stati maggiori riuniti) ha negato ogni intenzione di unirsi a un attacco all’Iran, dicendo «non voglio essere complice (di Israele) se decide di farlo», e richiesto da Israele di scusarsi per quel linguaggio, s’è duramente rifiutato («Out of question»). A nome palesemente del Pentagono. (Top US soldier: “I don’t want to be complicit” if Israel attacks Iran)

Ed anche di Obama. Evidentemente il presidente ha perso ogni speranza di guadagnare la nota lobby alla causa della sua rielezione (è tutta per Romney), perchè negli ultimi tempi sembra aver preso un minimo di coraggio, ed ha moltiplicato gli sgarbi al limite dell’umiliazione verso il «grande alleato e unica democrazia del Medio Oriente». Un’importante esercitazione militare congiunta che doveva svolgersi in Israele come dimostrazione della infrangibile alleanza e in cui gli americani dovevano garantire la protezione ermetica dei cieli e della terra di Sion in caso di ritorsione iraniana (in vista del famoso attacco), è stata ridotta a livelli ridicoli. Dei 5 mila soldati USA ne saranno inviati 1.200. Le postazioni di missili Patriot saranno inviate come da programma, ma senza il personale per manovrarle. Le due navi antimissile per la difesa dai missili balistici Aegis già annunciate si sono ridotte ad una, anzi a «una, forse».

Senza la protezione americana, l’attacco all’Iran diventa pericoloso per la popolazione israeliana (e dunque per le fortune politiche di Bibi). Aveva sperato che, tenendo alto il clima di tensione bellicista, sarebbe riuscito a ripetere il vecchio trucco di trasmutare il malessere sociale, che Netanyahu non sa come trattare, in energia patriottica. Il vecchio trucco richiede però che si vada presto alla guerra; e infatti dopo il no americano Bibi ha cominciato a parlare di «attacco unilaterale». Ma senza la copertura americana, invece, i comandi israeliani stanno riducendo le marce della retorica guerriera, attuando una sorta di smobilitazione. (After US Rebuke, Israel Scrambles to Climb Down From War Rhetoric)

Altro duro colpo al delirio di onnipotenza messianica di Netanyahu che ha sempre creduto di avere la superpotenza in tasca (e prova di quanto sarebbe facile, con un minimo di coraggio della Casa Bianca, calmare il delirio bellicista giudaico, riportando gli apocalittici alla realtà: realtà di media potenza dipendente, per le sue aggressioni e rodomontate, dalla protezione del Big Boy. Resta, intrattabile e gravissima, la situazione economico-sociale: ai primi d’agosto un reduce di guerra israeliano in sedia a rotelle s’è dato fuoco, morendo pochi giorni dopo. Una sua lettera accusava Netanyahu di «rubare ai poveri per dare ai ricchi». A metà luglio un altro invalido, Moshe Silman, membro di un movimento per abbassare il costo della vita in Israele, s’era dato fuoco per lo stesso motivo. Queste auto-immolazioni, inaudite in Israele, sono avvenute nel quadro di grandi manifestazioni di piazza della classe media, che protesta per il caro-vita. E per le cifre colossali che il governo spende per alloggiare, proteggere e nutrire 700 mila coloni rabbinici fanatici che si sono insediati nel territori occupati, feroci fannulloni mantenuti a vita. (Israeli dies after self-immolation during protest)

Sicchè ha un tono di facile profezia lo studio, commissionato da 16 agenzie di intelligence americane, che sta circolando a Washington: «Preparing for a Post-Israel Middle Est», «Prepararsi un Medio Oriente dopo Israele».

Nelle 82 pagine di questo rapporto si consiglia il governo USA a non appoggiare troppo un regime che non può durare, esattamente come non ha potuto durare il regime sudafricano degli anni ‘80 basato sull’apartheid, per l’identico motivo. Si segnala la profonda «complicità e influenza» che sul governo Netanyahu esercita il movimento dei coloni rabbinici, sempre più violenti e razzisti, e condizionanti per l’immenso potere finanziario di cui dispongono (i soldi della Diaspora vanno a loro); situazione che, secondo il rapporto, porterà a sollevazioni civili interne «nelle quali il governo USA farà bene a non farsi coinvolgere».

Non si tace «l’enorme ingerenza di Israele negli affari interni USA», nè lo spionaggio e il trasfertimento illegale di armi che avviene da decenni. Il rapporto calcola in 7.500 «i funzionari USA che obbediscono a Israele e cercano di intimidire i media e le organizzazioni governative, cosa che non dovrebbe essere tollerata» (si sente che gli estensori hanno letto e meditato il saggio di Walt e Mearsheimer, «The Israeli Lobby»). Infine, si valuta che gli Strati Uniti non hanno più le risorse finanziarie nè l’appoggio dell’opinione pubblica per continuare a finanziare Israele e le sue guerre illegali; un Israele bellicoso, brutale e oppressivo diventa sempre più difficile da difendere. (Obama’s ‘Intelligence’ Agencies Urge Preparing For A ‘Post-Israel Middle East’)

E, fatto inaudito, il testo segnala che è l’Iran il Paese con cui l’America ha un vero interesse a stabilire buone relazioni bilaterali «non condizionate dalla volontà di altri Paesi e dei loro agenti»: decisamente, Walt e Mearsheimer hanno fatto seguaci nelle alte sfere del governo amministrativo USA. Praticamente, lo studio sembra confermare la nota frase di Ahmadinejad, su Israele che un giorno non esisterà più sulla carta geografica, perchè si calcellerà da sola in un mondo post-giudaico.

Il solo fatto che un simile documento possa circolare in America, può bastare a spiegare il crollo psicologico di Bibi Netanyahu. A quanto pare, ancora una volta l’attacco all’Iran sembra rimandato. Causa rotelle.



 

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