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Israele vieta per legge di ricordare
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Il giorno 15 maggio, i palestinesi che vivono nei (mai definiti) confini di Israele dovranno farsi vedere allegri. Quel giorno, sono infatti tentati di commemorare con atti esterni quella che chiamano la Nakba, la Catastrofe, i giorni del 1948 in cui a centinaia di migliaia furono cacciati dalle loro case e dalle loro terre dalla violenza e dal terrore israeliano, ridotti  allo stato di profughi o di soggetti occupati (che continua 62 anni dopo).

Adesso ogni segno di lutto è stato dichiarato delitto penale da una legge, varata in tutta fretta dalla Knesset, il parlamento dell’unica democrazia del Medio Oriente. In base ad essa, non solo è vietata qualunque commemorazione pubblica o privata dell’olocausto palestinese; qualunque palestinese   «mostri segni di tristezza» in volto, sarà condannato ad una grave ammenda. Ciò in quanto il 15 maggio gli ebrei festeggiano il Giorno dell’indipendenza dì Israele, e dunque ogni atteggiamento di tristezza o dolore da parte degli oppressi sotto occupazione equivale a «negare il carattere ebraico di Israele». (New Israeli Law Forbids Palestinians From Mourning Or “Showing Signs Of Sadness”)

Non mi pare che i nazionalsocialisti siano mai giunti a tanto. Essi perseguivano sì chi osava «negare il carattere ariano della Germania», però non obbligavano gli oppressi ad atteggiare la faccia a giulivo ottimismo. Polacchi ed ebrei avevano il permesso di mostrarsi abbattuti e giù di morale. Probabilmente non era per umanità, ma perchè è difficile giudicare dalla faccia l’intenzione sovversiva: questo slavo, questo ebreuccio, ha l’aria triste perchè non accetta la natura ariana dello Stato tedesco? Oppure perchè gli è morto un parente, non ha mangiato abbastanza (le razioni alimentari insufficienti), o la Gestapo gli ha arrestato un fratello? Le SS non imponevano le espressioni dei volti alle loro vittime.



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Era una falla nel sistema giuridico del Terzo Reich, a cui il Quarto (detto «unica democrazia del Medio Oriente») ha posto rimedio. Finalmente, si possono punire i sentimenti, indovinati dalla faccia che uno fa. Se il 15 maggio un palestinese se ne va in giro con un’aria triste o (YHVH non voglia) adirata, è perchè è un negazionista: in cuor suo nega la natura ebraica dello Stato razziale israeliano.

Come si vede, il delitto di negazionismo – delitto supremo nell’unica religione pubblica rimasta – sta  subendo una estensione semantica e giuridica. Fino ad oggi il delitto di negazionismo consiste nel negare o sminuire, o svalutare in qualsiasi modo la shoah ebraica, ed infatti è un crimine penalmente punito in molti Paesi europei. Oggi, è «negazionismo» anche criticare la natura razziale di Israele, e mica con scritti o con parole; basta non essere ebreo e circolare con una faccia triste il 15 maggio.

Come si vede, ci sono Memorie che è obbligatorio coltivare, e ci sono Ricordi che è obbligatorio dimenticare.



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Per ora, il nuovo diritto perfezionato è applicato solo entro i confini dello Stato ebraico. Il fatto è che quei confini, Israele non ha mai voluto definirli, in quanto tiene per sè il giudizio su quanta terra YHVH abbia promesso alla sua razza eletta.

La Bibbia autorizza un minimo («la terra di Canaan») ed un massimo, descritto nel Genesi 15,18: «In quel giorno il Signore tagliò il patto con Abram in questi termini: ‘Alla tua razza io do questo Paese, dal torrente d’Egitto fino al fiume grande Eufrate: i Keniti, i Kenizziti, i Kadmoniti, gli Hittiti, i Perizziti, i Refaim, gli Amorrei, i Cananei, i Gergesei e i Gebusesi».

I soli autorizzati a interpretare questa promessa sono, ovviamente, i maestri talmudici, che dedicano la loro vita allo studio della Torah. Essi sono per lo più d’accordo sul fatto che i veri confini d’Israele sono l’Eufrate e il Nilo (il torrente), come attesta Genesi 15. A loro spetta anche definire quali sono i popoli che YHVH ha dato in potere della razza di Abramo, elencati nel passo di cui sopra.

Il che è preoccupante. Gli armeni, per esempio, sono stati indentificati dai rabbini come gli Amaleciti biblici, e si sa quel che è successo loro. Nella «Universal Jewish Encyclopedia» di Isaak Markon, pubblicata nel 1939 a New York, alla voce «Armenia» (pagine 482.483) si legge: «Gli armeni sono considerati discendenti degli Amaleciti; tra gli ebrei d’oriente sono chiamati anche Timheh («tu sarai cancellato», come si cancella una macchia, vedi Deuteronomio 25,19).

Il Talmud, Sanhedrin foglio 20b, recita: «E’ stato insegnato così: Rabbi Jose ha detto: tre comandamenti sono stati dati a Israele quando è entrata nella terra: I) scegliere un re, II) sradicare il seme di Amalek, III) costruire per sè la casa eletta».

Sicchè quando i Giovani Turchi (che non erano turchi affatto) fecero il colpo di Stato nel 1909 e cominciarono a massacrare gli armeni, il giornale «Hatzvi» (in lingua ebraica), il 19 maggio 1909, così descrisse l’atteggiamento della comunità ebraica di Salonicco: «Una smorfia sulle labbra appena accennata, un breve sospiro e niente più. Gli armeni non sono ebrei, e secondo la tradizione popolare non sono altro che Amalek. Amalek? E dovremmo aiutarli? Chi, Amalek?! Dio scampi!».

Ora, sempre più numerosi rabbini indicano invece gli amaleciti negli arabi, e a quanto pare lo Stato d’Israele tende a convergere con questa opinione, attivandosi per cancellare le macchie a Gaza e in Cisgiordania, ribattezzate Galilea e Samaria. Per questo motivo, non è il caso di essere troppo sicuri, anche se non si abita tra il Nilo e l’Eufrate. Chissà che uno non scopra in noi un Hittita, un Gebuseo, o perfino un Kenizzita, ossia un legittimo possesso della Stato ebraico?

Il 15 maggio prossimo, sarà prudente che ognuno dei nostri lettori si mostri in giro con una aria lieta e un sorriso giulivo stampato in faccia. Meglio ancora se, in gruppi piccoli o grandi, ci addestreremo quel giorno a cantare in coro la canzone insegnataci da un nostro Nobel per la letteratura:

«Noi sempre allegri dobbiamo stare

chè il nostro piangere fa male al re
».

Il Quarto Reich migliora ogni giorno, come mostra il caso di Mazin Qumsiyeh, un genetista palestinese, scrittore e attivista non-violento, in questo moneto in un giro di conferenze in USA.

Mazin Qumsiyeh
   Mazin Qumsiyeh
Mentre  lui era in viaggio, «l’armata israeliana ha fatto irruzione a casa mia all’1 e 30 di notte» (la famiglia di Mazin Qumsiyeh abita a Beit Sahour, nei Territori Occupati) «svegliando mia madre, mia sorella e mia moglie. Soldati pesantemente armati hanno bloccato tutta la strada durante l’operazione. Quando i miei familiari hanno aperto, essi hanno chiesto di me; è stato risposto loro che ero già partito per gli USA. Dopo molte altre domande, hanno lasciato un foglio che mi ordina di comparire davanti all’ufficiale militare di collegamento  lunedì prossimo. Mia sorella e mia moglie hanno detto loro che non sarei tornato per allora (cosa che) chiaramente sapevano.

Apparentemente sono un uomo ricercato per essermi impegnato in azioni non-violente. Per favore, se qualcuno ha ripreso in video i fatti, mi contatti. Ciò che mi urta non è il mio rischio personale, ogni azione contro l’oppressione è intrapresa con la consapevolezza dei rischi. Ciò che mi urta è che questo colpisce la mia famiglia e le migliaia di miei amici nel mondo... Mia madre di 76 anni mi chiede al telefono di non tornare, che rimanga a lavorare un po’ negli Stati Uniti, consiglio doloroso per una madre anziana al suo unico figlio rimasto. Cerco di dirle che non ho fatto niente di male... Ma lei mi porta molti esempi di persone che non hanno commesso nessuna violenza e sono stati arrestati, incarcerati, e le loro famiglie ridotte a mal partito». (Qumsiyeh: A Human Rights Web)

Probabilmente Qumsiyeh, se non si presenta lunedì, sarà catalogato come «absentee» e non gli sarà permesso di tornare più a casa sua. Appena atterrato all’aeroporto, sarà espulso. Dunque non gli succederà niente di grave, anche se le irruzioni notturne in casa di oppositori  ricordano alquanto le pratiche della Gestapo e del KGB. Deve stare allegro.

Così come altre centinaia di palestinesi che vengono cacciati dal quartiere di al-Bustan in Gerusalemme, perchè macchiano con la loro presenza la natura ebraica dello Stato. L’Agenzia AP dà la notizia così: «Il sindaco di Gerusalemme ha reso noto un piano per demolire decine di case palestinesi onde fare spazio per un centro turistico in uno dei quartieri più esplosivi della città, sollevando critiche da parte dei palestinesi e delle Nazioni Unite». (Jerusalem plan would demolish Palestinian homes)

Ma il New York Times, grazie al suo corrispondente locale Eithan Bronner, dà la notizia così: «Il sindaco di Gerusalemme sta offrendo a 120 famiglie palestinesi che abitano in un blocco di case destinate alla demolizione un accordo che è convinto non possano rifiutare: nuovi appartamenti sopra negozi e ristoranti, un ambulatiorio, hotel sofisticati e un grande parco. Affluiranno turisti e occasioni di reddito; si tratta, come il sindaco ama dire, di una situazione dove tutti vincono e nessuno perde». (Mayor’s Housing Offer Sets Off Row in Jerusalem)

E i palestinesi non se ne vogliono andare: «Gerusalemme non è Zurigo», ha detto un loro avvocato.  Mai contenti del bene che la razza superiore gli fa. E i funzionari dell’ONU li sostengono pure: Hittiti o Kadmoniti, suppongo.

Nir Barkat
   Nir Barkat
Il sindaco di Gerusalemme si chiama Nir Barkat, è un miliardario ed è molto vicino ai coloni ebraici. Oltre al piano benefico per i palestinesi della città (che i Perizziti e gli Amorrei chiamerebbero pulizia etnica e apartheid), Nir Barkat ha annunciato di voler legalizzare retoattivamente le 89 case illegali che i coloni hanno costruito a Silwa, Gerusalemme Est, in mezzo agli abitanti palestinesi, che una decisione tribunalizia ha appunto dichiarato illegali, accogliendo il ricorso di avvocati palestinesi.

Nel nuovo diritto ebraico un sindaco può non solo nullificare una sentenza giudiziaria, ma anche creare una norma retroattiva per giustificare atti illegali. E’ un altro enorme progresso rispetto al Terzo Reich.

Il quartiere di Silwan a Gerusalemme ha questo di particolare, oltre ad essere abitato da arabi che sono una macchia; interessa i cosiddetti archeologi della organizzazione archeologica Elad (pagata da protestanti americani) che sono convinti di trovarci sotto le prove dell’esistenza dell’introvabile tempio di Davide. In due mesi, questi cosiddetti archeologi hanno scavato cinque pozzi di prospezione a Silwan; a loro detta, hanno portato alla luce «una strada del periodo del Secondo Tempio» (non dunque di quello di Salomone: disdetta, esso continua a mancare all’apppello).

Nella operazione scientifica, secondo i palestinesi (ed anche secondo «Rabbis for Human Rights», guidati dal benemerito rabbi Arik Asherman) hanno provocato crepe che minacciano di far crollare le case, per puro caso, arabe. In quest’occasione, la Suprema Corte israeliana ha rigettato la petizione dei palestinesi e dei Rabbis for Human Rights, con la motivazione che «non ci sono prove» che le crepe siano in  relazione coi pozzi. (Jerusalem mayor to retroactively legalize East Jerusalem buildings)

Così, i palestinesi dovranno atteggiare il volto ad euforia e gratitudine, in ossequio alla legge. Devono stare sempre allegri, questi negazionisti.



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