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Martin Schulz è un kapò. Della Nuova Europa
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«Quelli che hanno fatto di tutto per avere l’aiuto della Banca Centrale Europea, adesso dicono che non lo vogliono. La speculazione giocherà su questa contraddizione»: così Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere della Sera.

Questo giornalista, già universalmente ammirato per il suo coraggio, non l’ha scritto sul Corriere, ma su twitter: in ogni caso, ha detto una verità. Strana. Il piano Draghi di acquisto di titoli italiani e spagnoli a tre anni? «Non ne abbiamo bisogno», assicura Monti. Quanto a Mariano Rajoy, Goldman Sachs – l’alma mater di Draghi – «prevede» (ossia esige) che la Spagna chiederà il salvagente della BCE entro una settimana. Ma il premier ispanico non vuole chiedere l’aiuto fino ai primi di ottobre, quando ci sono delle elezioni in Galizia. Intanto, i due Paesi godono del calo dello spread che è dovuto all’annuncio di Draghi. Ma la BCE non ha ancora fatto niente, non ha ancora cominciato – sia chiaro – a comprare i buoni; aspetta ed esige la richiesta formale dei due Stati, e la loro sottomissione alle «severe condizioni» – che non vengono nemmeno specificate. Quanto durerà l’effetto-annuncio? E la Spagna, di soldi ha bisogno eccome.

Ma «gli spagnoli temono di diventare un’altra Grecia, di doversi tagliare il braccio destro in cambio di una trasfusione di sangue», ha detto Mark Cliffe, chief economist della banca olandese ING.

Lo spettro della Grecia non si agita a caso. Pochi giorni fa Martin Schulz, il noto presidente del parlamento europeo – quello a cui Berlusconi, nel 2003, diede del kapò, suscitando una tempesta diplomatica – ha proposto la creazione di «Zone Economiche Speciali» in Grecia, ossia zone franche attrattive per investitori stranieri a cui si offrono agevolazioni fiscali o esenzioni totali, regimi doganali favorevoli, soprattutto lavoro a basso costo e massima «flessibilità». Zone sottratte al governo locale, e gestite da tecnici della UE col potere d’imporre riforme allo Stato (non basta infatti che il salario greco sia stato già tagliato da 751 a 586 euro mensili lordi), che Schulz chiama orwellianamente «agenzia di crescita». Il ministro dell’Economia tedesco Philipp Roesler s’è subito unito alla proposta, raccomandando al governo greco di rivolgersi alla Commissione per la rapoida attuazione delle zone economiche speciali.

Ma Schulz fa più specie, perchè è un esponente del Partito socialdemocratico SPD, e membro di prestigio dell’Internazionale Socialista: quella che unisce il francese Hollande, il greco Papandreu, e il nostro Bersani con tutto il PD. Se queste sono le «sinistre» europeiste, dopotutto, a malincuore, bisogna ammettere che Berlusconi aveva indovinato a chiamare Schulz un kapò. (Le président du parlement européen réclame des zones économiques spéciales en Grèce)

Le Zone Economiche Speciali sono infatti tipiche realtà per attrarre capitali in Paesi che hanno poco altro da offrire che manodopera a basso costo, magari da poco usciti dal comunismo, come Cina e Vietnam; mai sono state istituite in un Paese europeo, tranne che in Polonia nel 1990 – ma ha dovuto rinunciarci quando è entrata nell’Unione Europea, perchè il regime fiscale di quelle zone configurerebbe una concorrenza sleale. Adesso invece cambia tutto. Il settimanale Spiegel ha rivelato il 25 maggio 2012 che questa delle zone speciali è parte di un piano in sei punti, concepito a Berlino a porte chiuse, estendibile a tutti gli altri Paesi «periferici» dell’unione monetaria messi a dura prova dalla crisi. Il piano comprende la vendita forata di beni pubblici attraverso fondi di privatizzazione ricalcati sulla Treuhand, l’istituzione fiduciaria che liquidò i beni della Germania ex-comunista, la riduzione delle leggi di protezione del lavoro, l’introduzione di contratti di lavoro gravati da minori imposizioni previdenziali e sociali (e dunque minori prestazioni). Il che andrebbe persino bene, se tutto ciò non fosse gestito da Berlino con la delicatezza ben nota. Il governo greco è stato costretto ad accettare; il ministro Roesler volerà ad Atene, spinto da folti gruppi imprenditoriali germanici desiderosi di approfittare delle favorevoli nuove condizioni in Grecia.

Nelle Zone Economiche Speciali mancherà solo il cancello con la scritta Arbeit macht Frei per rendere chiaro, finalmente, cosa vuol essere l’Europa Federale a cui Monti ci conduce a marce forzate, fra gli applausi dei nostri politici e dei nostri media. E si capisce meglio come mai Mario Monti, nel solito convegno dei miliardari, banchieri e speculatori a Cernobbio, abbia annunciato «un vertice UE contro i populismi anti-europei»: è il segnale di una campagna repressiva contro la temuta rivolta popolare nella «prigione dei popoli» chiamata eurozona, specialmente quando gli effetti delle «condizionalità» imposte dalla BCE colpiranno la gente in termini di iper-tassazione, recessione, de-pauperamento e perdita di libertà. Prima che la reazione possa organizzarsi politicamente, essa va stroncata (lo scandalo montato a freddo contro Beppe Grillo ne è probabilmente un assaggio). È una «guerra» come la «guerra agli evasori», termine che Monti usa sempre più spesso, per giustificarne la spietatezza delle operazioni che è stato mandato ad eseguire.

Quale posto sia assegnato all’Italia nel nuovo ordine germanico, può essere indicato da uno studio della Deutsche Bank, che pretende di analizzare «oggettivamente» l’intreccio dei «vantaggi competitivi» nel mondo post-globale.

 
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Il diagramma è abbastanza esplicito. Ma spieghiamolo un po’.

Per «Technology Rich Countries» o Paesi tecnologicamente favoriti, Deutsche Bank intende quelli che «generano esportazioni avanzate e dispongono di imprese che organizzano i processi produttivi globali». Nella selezione, l’ufficio-studi della banca ha tenuto conto dell’alto livello di istruzione, del numero di brevetti, della qualità delle istituzioni (Stato di diritto, corruzione, tutela della proprietà), diffusione di internet, eccetera.

«Labour Rich Countries», o Paesi ricchi di forza-lavoro sono quelli che hanno abbondanza di manodopera a basso costo, anche solo in relazione ai Paesi circostanti: per questo, come si vede, vengono indicate come «labour rich» anche Ungheria, Cekia, Slovacchia, Polonia, insomma i Paesi dell’Est che – per coincidenza fortunata – sono satelliti della potenza economica tedesca, o che la Germania attrae nella sua sfera d’influenza.

«Commodity rich Countries» sono ovviamente quelli che esportano materie prime (commodities), dall’Arabia Saudita alla Russia.

A parte, a sinistra, isolate nel loro cerchio, sono «i Paesi senza particolari vantaggi competitivi»: come per caso, sono i Paesi mediterranei che la Germania considera «cicale» colpevoli del loro alto indebitamento, più l’Argentina, altro Paese latino. Difatti, spiega Deutsche Bank: questi Paesi «non sono forti in nessuna delle tre categorie» (tecnologie, manodopera a basso costo, materie prime) e hanno faticato ad accrescere il loro export nellultimo decennio; se hanno preso parte nel commercio globale, lhanno fatto accrescendo il loro indebitamento».

A rincarare la dose, Deutsche Bank pubblica quest’altro schema: Paese per Paese, indica il rapprto fra competitività delle economie in rapporto alle paghe. S’intende che paghe più alte sono più giustificate dove la competitività è maggiore. Gli Stati al disotto della curva sono quelli che risultano più competitivi, ed appetibili per investirvi, rispetto al costo del lavoro locale. Al di sopra della curva sono i Paesi dove il lavoro costa «troppo» rispetto alla loro competitività, debole.


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Come si vede, ancora una volta la Grecia è quella messa peggio, ma Spagna, Italia, Portogallo (e Slovacchia, Argentina e Irlanda) sono alti nella graduatoria dei buoni a nulla che devono ancora fare molti compiti a casa per diventare almeno un poco competitivi. Se poi vi incuriosisce sapere i motivi di questa condizione, vi aiuta la tabella seguente:


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Potrete constatare che l’Italia va peggio della stessa Spagna quanto a «spesa pubblica sprecata», «peso della regolamentazione burocratica di Stato» ed efficienza dei consigli dì amministrazione. Essenzialmente, viene identificata la nostra palla al piede: è il macigno del parassitismo pubblico, inadempiente e incompetente.

È un quadro apparentemente oggettivo (e per l’Italia, purtroppo, coglie nel segno). In realtà è il contrario: tutto lo studio della Deutsche Bank mira a «comprovare» il fatale errore di analisi che domina in Germania a proposito della crisi. Un errore molto interessato, che interpreta l’attuale crisi come una crisi dei debiti sovrani (da trattare con austerità brutali e rientri del debito) anzichè per quella che è: una crisi della competitività relativa di economie troppo divergenti messe nella gabbia di una moneta unica per giunta «forte»; divaricazioni di produttività accumulatisi negli anni dal 2000, per l’impossiblità di compensarli con svalutazioni.

In altre parole, «è il divaricarsi delle competitività che ha provocato la crisi del debito, e non viceversa» (Jacques Sapir).

Come già detto, l’analisi tedesca è verosimile solo per l’Italia, la cui classe politica ha voluto entrare nell’euro già con un debito pubblico del 103% sul PIL, fatto di puro spreco. Ma la Spagna aveva fino a ieri un debito del 60%. Irlanda e Portogallo erano fino a ieri esaltati dagli eurocrati come allievi-modello. E che dire della Slovenia, l’ultimo Paese entrato in situazione di bancarotta, al punto da aver bisogno di un «salvataggio» da parte della BCE di mezzo miliardo di euro entro fine anno, altrimenti cesserà i pagamenti? La Slovenia, questo Paese di 2 milioni di abitanti, è entrato nell’euro solo nel 2007, salutato da un Prodi entusiasta che, nel suo discorso di benvenuto a Lubiana, sottolineò la sanità delle finanze pubbliche slovene. Ancor oggi, il debito pubblico sloveno è sul 47% del PIL. Ma a farlo fallire sono state le sue banche (di Stato), che si sono riempite di crediti cattivi perchè a loro volta gonfiate di fiumi di liquidità offerti dalle banche austriache e tedesche. Le quali, non sapendo più dove investire i giganteschi surplus depositati in banca dalle imprese nordiche «più competitive», hanno offerto un eccesso di credito a basso costo, spropositato per una popolazione di soli 2 milioni. Sicchè la Slovenia, che entrò nell’euro in crescita, nel 2009 ha visto crollare il suo PIL a -8%, ed è in recessione un’altra volta. Ultimo della fila dei Paesi prosperi, che l’euro ha ridotto alla miseria, allo smantellamento delle protezioni sociali, al troncamento dei salari. E alla bancarotta.

È fin troppo evidente che la causa di queste disgrazie a catena è l’euro; che è il divaricarsi della competitività nella gabbia dell’euro ad aver provocato la crisi dei debiti pubblici, e non il contrario; evidentissimo che l’unica politica nazionale sana, per un leader leale con il suo popolo, è uscirne al più presto, prima che l’economia dei Paesi «marginali» sia completamente desertificata dalle iper-tassazioni imposte dalle banche internazionali tramite i suoi fiduciari, alla Mario Monti o Mario Draghi, il duo Goldman Sachs.

Ma non è certo la soluzione che i «tecnici» sono disposti ad adottare. La prova s’è avuta qualche giorno fa, quando il premier Samaras, greco, ha chiesto «un po’ di respiro» prima di applicare le nuove e crudeli austerità volute dalla «troika». Ciò ha provocato in Germania varie minacce di espellere la Grecia dall’euro; voci che però si sono subito taciute. Perchè?

Perché le banche internazionali ormai hanno conteggiato le conseguenze di una simile espulsione, e sono incalcolabili: l’uscita della Grecia produrrebbe la svalutazione degli attivi della Grecia (di cui è piena la banca Centrale Europea, fra l’altro) e l’immediata corsa alle banche dei Paesi secondi sull’orlo della crisi, come Italia, Spagna e Portogallo. Risultato finale, un disastro non più controllabile, distruttivo per le strutture finanziarie mondiali.

È per evitare questo che a Berlino s’è elaborata la «soluzione» di creare Zone Economiche Speciali in Grecia, ossia zone gestite dai creditori esteri, essenzialmente tedeschi, e dove i diritti del lavoro sono sospesi. Ma avverrà solo in Grecia? Lo studio sopra citato della Deutsche Bank mette anche Italia, Spagna e Portogallo nella lista dei Paesi «senza uno specifico vantaggio competitivo»: sottinteso, senza vantaggi per le banche germaniche e la finanza internazionale.

È un catalogo che rievoca sinistramente il concetto di «bocche inutili», che nel Terzo Reich condusse all’eliminazione dei malati mentali: dimostrazione che cambiano i regimi, ma i popoli non cambiano mai. Cosa fare delle nazioni «non particolarmente competitive»? Rieducarle col lavoro in zone economiche speciali. Arbeit Macht Frei.

L’analisi tedesca è come ho detto un errore interessato, perchè consente a Berlino di avvantaggiarsi (sottraendo quote ai Paesi in crisi competitiva che non possono salvarsi svalutando), e nello stesso tempo di rifiutare i trasferimenti verso il Sud richiesti dalla «solidarietà» europea: trasferimenti in ogni caso astronomici, se si pensa che Lombardia, Veneto e Piemonte trasferiscono alle regioni criminali del Meridione 50 miliardi l’anno, un’altra «tassa» esosissima senza frutto, un’altra palla al piede del Nord produttivo.

Attenzione: proprio la situazione italiana ci dice che l’analisi tedesca, anche se è purtroppo valida per l’Italia, vale solo per metà: precisamente, per la metà meridionale, orgia da mezzo secolo di spese parassitarie e sprechi pubblici, di inefficienze invincibili, di gestione della criminalità organizzata e della sua – contigua – criminalità politica. L’accusa di essere «cicale» non vale certo per il Nord produttivo: basta dire che la Lombardia, se diventasse indipendente, sarebbe uno Stato dieci volte più popoloso della Slovenia e soprattutto più competitivo della stessa Baviera.

Tenere questo Nord ultra-produttivo nella lista di basso rango delle «bocche inutili» da rieducare fa enormemente comodo all’industria tedesca: si può dire che mantenere l’Italia «unita» (nell’euro) sia oggi il suo maggior interesse. E se si arrivasse al punto di creare «Zone Economiche Speciali» in Italia, dove credete che le metterebbero? Forse in Calabria dove i lavoratori di Gioia Tauro hanno preferito la cassa integrazione piuttosto che impegnarsi a ridurre il proprio assenteismo del 25%? Nella Calabria dove comanda la Ndrangheta, nella Sicilia dove la mafia è il potere stesso, nella Campania della Camorra? Dove il territorio è distrutto e reso inservibile al turismo dalla «cultura dell’abusivismo»? Dove se le tue politiche non sono gradite, ti sparano a lupara?

No: per gli eurocrati sotto ideologia tedesca, meglio fare Zone Speciali a Brescia, Vicenza o Mantova. Lì sì che gli industriali tedeschi scenderebbero a frotte ad investire, godendo delle agevolazioni fiscali e dei tagli al costo del lavoro, con l’enorme vantaggio aggiuntivo di controllare direttamente il più temibile concorrente potenziale, godendo dei suoi vantaggi competitivi a beneficio tedesco!

Ecco perchè l’Europa federale di domani si delinea così: un lager i cui mandanti sono le banche internazionali e il Draghi-Goldman Sachs, ma i kapò sono i Martin Schulz, o se si vuole altri socialdemocratici che «si preparano a governare», come ha detto Bersani.

Chi si fa convincere che la cura alla crisi di miseria sia «più federalismo» europeo, come strillano tutte le sinistre (Renzi compreso, ahimé), farà bene a leggersi le obiezioni di William Pfaff qui a fianco. In che cosa di grazia, chiede Pfaff, più Europa risolverebbe la crisi da chiusura del credito ai Paesi sfavoriti, originata da Wall Street?

«È il grado di federazione già esistente ad aver avuto la parte fondamentale nella crisi. È l’aver legato nell’eurozona 17 nazioni economicamente disparate... grandi parti della popolazione in Grecia, Spagna e Portogallo sono state obligate alla miseria, le economie di tutti i 17 membri sono state gravemente danneggiate, i governi dei Paesi deboli sono stati privati della loro autonomia politica (...), stranieri impongono loro programmi d’austerità uguali per tutti, molto discutibili, e per questo non funzionanti». Eccetera.

Un pezzo tutto da leggere.



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