Il mito dell’autorealizzazione impedisce di dire e pensare il "sacrificio"
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Pubblichiamo un articolo molto bello e significativo del 2005 tratto da Il Foglio

“E questo sacrifizio, ti chiedo...”, tuona con voce da basso il vecchio Germont padre, rivolgendosi a Violetta nella Traviata: e Violetta accetterà di sacrificarsi – unico modo per riscattare il suo passato di prostituta – per un’altra fanciulla, “pura siccome un angelo”.

Quando Verdi componeva questa musica e quando Dumas, prima, aveva scritto la trama, gli spettatori condividevano la stessa concezione altamente positiva del sacrificio. Chi si sapeva sacrificare per valori più alti del suo interesse individuale era considerato una persona superiore, un essere umano degno di stima e rispetto, e proprio per questo tutti erano educati al sacrificio, fin da bambini.

La scuola era in se stessa una palestra di sacrificio: si cominciava con le aste e poi con le lettere, esercizi per nulla divertenti e gratificanti, finalizzati all’acquisizione della capacità di scrittura solo dopo mesi di noiose ripetizioni. Nessuno si preoccupava se i bambini si stancavano, se si annoiavano. Nessuno si poneva il problema se si sarebbe potuto insegnare a scrivere in un altro modo, perché così li si allenava al sacrificio, all’idea che per ottenere un risultato – come saper scrivere – era indispensabile impegnarsi per un lungo periodo, cioè rinunciare al divertimento e alla soddisfazione immediata.

Sacrificio quindi non era solo rinuncia per sempre a qualche vantaggio in funzione dell’affermarsi di una idea o di un principio superiore – come nel caso di Violetta – ma anche, su scala più modesta, in un’accezione che possiamo chiamare minore, impegnarsi per un lungo periodo senza ottenere gratificazioni. Pure questa forma del sacrificio è del tutto scomparsa: i programmi scolastici, per esempio, cercano di offrire agli studenti immediate compensazioni, se non arrivano addirittura a sostituire materie che richiedono un impegno lungo e di poca soddisfazione nella società attuale – come il latino e il greco – con altre ritenute più attraenti (fotografia, regia, storia del cinema e così via).

Oggi si pensa che i sacrifici non siano più necessari e costituiscano un’abitudine superata. “Abbiamo fatto tanti sacrifici” era invece la frase con la quale, un tempo, molti sintetizzavano la loro vita: sacrifici per comprare la casa o i mobili, per allevare i figli e magari farli studiare. Rinunce quotidiane che diventavano un modo di vita severo, che abituava le persone a dare molto senza aspettarsi che poco in cambio.

In un paese povero come è stato l’Italia fino al boom di metà Novecento, il sacrificio costituiva per molti l’unica possibilità di strappare qualche miglioramento, per sé o per i propri figli.
Ma era anche qualche cosa di più: una pedagogia austera che spesso nobilitava le persone, le allenava all’altruismo e rafforzava il loro carattere.
Qualche volta, invece, la rinuncia induriva in un sordo rancore verso chi aveva ottenuto tutto più facilmente, ma questi non erano i casi più frequenti.

Il miglioramento del tenore di vita, e soprattutto l’affermarsi del consumismo, hanno annullato il senso di questo tipo di sacrificio: perché l’economia funzioni bene, è necessario infatti che tutti consumino, sempre di più. (O forse la possibilità di ridurre il sacrificio, di diminuire quello fisico, ha creato l’illusione che non sia necessario alcun sacrificio… ndr)

Ma non è solo per questo motivo che oggi sacrificarsi è considerato una inutile e dannosa umiliazione: ci sono ragioni più profonde, che coinvolgono tutti gli aspetti della vita, a cominciare da quello affettivo, che portano a screditare il sacrificio. Se la realizzazione individuale viene considerata il sommo bene per tutti, e se questa viene spesso interpretata, semplificando, come realizzazione dei propri desideri, per il sacrificio non c’è più posto. La realizzazione dell’individuo ha infatti preso il posto di tutti i valori generali nei quali si credeva in passato, come l’amor di patria. Ma non ci si sacrifica più neppure per motivi più limitati, come tenere unita la famiglia, o assistere genitori anziani o parenti malati. Davanti a queste prove che la vita impone a tutti, capita invece di sentirsi traditi nelle nostre legittime aspettative di felicità, e si arriva a reagire con rancore e violenza contro gli ostacoli che si presentano, e che ci richiedono sacrificio.

Soprattutto, non viene più considerato positivamente il sacrificio per eccellenza, quello materno, che ha sempre assunto il significato di ogni tipo di sacrificio umano: dare tutta se stessa, per lungo tempo, ai figli, per poi essere abbandonata e messa da parte. La figura materna è sempre stata considerata l’essenza stessa del sacrificio, e proprio dal fatto di essersi sacrificate le madri traevano tutto il loro (immenso) potere. Potere che permetteva loro di essere severe educatrici e severe giudici della vita dei figli.

Oggi la maternità, proprio perché implica sacrificio, è vista con sospetto, temuta e considerata un intralcio alla “realizzazione di sé” nel lavoro, nella società, nei viaggi e nei divertimenti, cioè a quello che sembra l’unico vero obiettivo degno di essere perseguito. E le donne che cercano di fare le madri senza sacrificarsi, senza rinunciare a nulla del loro lavoro, della loro vita, non riescono poi ad avere l’autorevolezza necessaria a educare i figli.

Ma il motivo vero, profondo, per cui il sacrificio non viene più considerato un atto necessario, e per molti aspetti anche positivo, della vita umana, ma solo una ingiustizia, un ostacolo indebito alla realizzazione della nostra felicità, è la scomparsa della dimensione religiosa nelle nostre vite.

Il sacrificio, infatti, costituisce il fondamento di ogni religione perché esso, scrivono Jean Hubert e Marcel Mauss, “stabilisce una comunicazione fra il mondo sacro e il mondo profano attraverso la mediazione di una vittima”. Ma nella società secolarizzata, dove è scomparsa ogni dimensione trascendente, di questa comunicazione non si sente più necessità. Una comunicazione ritenuta indispensabile anche per purificare l’essere umano dal peccato, concetto ormai scomparso, insieme con l’idea che ci possano essere mancanze verso Dio da purgare.

Proprio questa idea, invece, è al centro della tradizione cristiana, fondata sul sacrificio di Cristo offerto per la salvezza eterna degli uomini. Lo scandalo provocato dal film di Gibson (La Passione di Cristo, ndr) si spiega soprattutto con il fatto che esso è stato centrato sulla passione, cioè sul sacrificio di Gesù, e quindi ha messo in assoluta evidenza l’aspetto della religione che si vorrebbe rimuovere.

La religione – anche quella cattolica – oggi viene presentata spesso senza questo aspetto inquietante, e quindi solo come un legame di amore fra gli esseri umani (un amore però parziale, perché non arriva al dono totale di sé, ndr). Al Gesù sofferente sulla croce viene preferito quello sereno delle parabole o della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Avevano cominciato i protestanti, minimizzando la celebrazione eucaristica, a indebolire l’anima sacrificale del cristianesimo, riproposta invece con forza dal concilio di Trento, che definisce la messa un sacrificio incruento, un sacrificio propiziatorio per i vivi e i defunti.

Oggi, che del cristianesimo sembra rimanere solo una debole eco in una morale buonista, superficiale e accomodante, è evidente che il sacrificio non sembra più necessario né significativo, ma una inutile privazione, da evitare il più possibile a sé e agli altri.

Lucetta Scaraffia


Fonte >  Il Foglio


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