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Perché Renato Farina collabora con Fiamma Nirenstein
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Dunque, come ci ha informato il Direttore Blondet, Fiamma Nirenstein, ed alcuni suoi accoliti, si stanno dando da un gran fare, in parlamento, per perorare la chiusura immediata per via amministrativa di quei liberi siti, tra cui EFFEDIEFFE, che praticando una informazione non politicamente corretta sono invisi alla sezione italiana della lobby sionista.

Quella della «giustizia» per via amministrativa era, a suo tempo, la via praticata dagli Stati totalitari: la condanna, spesso a morte, senza processo con semplice atto amministrativo o di Polizia. Chi sta proponendo in Italia questa pratica, ossia la Nirenstein ed accoliti, dimostra di avere una mentalità sostanzialmente totalitaria (oltre che fanaticamente ideologica) e che non gli appartiene per niente quel fondamentale principio liberale, che dovrebbe caratterizzare lo Stato di diritto, esemplificato nel brocardo latino «nullum crimen, nulla poena, sine lege». La «giustizia» per via poliziesca, infatti, è caratterizzata dal fatto che non esiste una precisa, oggettiva e dettagliata codificazione dei comportamenti che sono ritenuti afferenti alla sfera del penale.

Sicché il Torquemada o il Beria di turno possono a loro piacimento, in assenza di una precisa codificazione di ciò che è illecito, stabilire chi è reo e chi no. La nostra democrazia, vista l’audience parlamentare e mediatica che raccoglie la Nirenstein, sembra proprio marciare a tappe forzate verso un neo-totalitarismo.

Un problema che riguarda tutti, perché se oggi se la prendono con siti non graditi ai filo-sionisti domani se la prenderanno, ad esempio, con chiunque metta in discussione la vulgata ufficiale sia essa quella politica, sia essa quella storiografica, sia essa quella scientista. Anche gli storici, gli scienziati, i filosofi ed i giornalisti saranno costretti ad auto-censurarsi e nessun appello alla libertà di ricerca, di parola e di stampa reggerà.

Ben venga, dunque, la risposta del Direttore Blondet, ossia l’invito a pregare per i propri persecutori, a pregare per la conversione della Nirenstein. Una risposta cristiana alla protervia ed all’arroganza di «Fiammetta», che ebbe modo di manifestarsi, perché non possiamo affatto credere che invece di ignoranza trattavasi, diversi anni fa - stiamo citando a memoria - durante una trasmissione televisiva quando, proprio lei che si lamenta dei paralleli, che non sono di Effedieffe ma di studiosi del calibro di George Mosse, israelita, e Giorgio Galli, tra nazismo e sionismo, se ne uscì dicendo, più o meno, che il fatto che Hitler fosse battezzato, e che tali fossero le SS, starebbe a dimostrare la radice cristiana dell’antisemitismo che ha prodotto l’«olocausto».

Cogliamo l’occasione per testimoniare, anche noi, come ha già fatto Domenico Savino, che tra la redazione ed i collaboratori di questo sito intercorrono solo sporadici contatti, che non siano quelli di posta elettronica al momento della trasmissione degli articoli (lo scrivente ha incontrato Blondet, in occasione di convegni, non più di quattro o cinque volte e lo ha sentito al telefono raramente, ha poi incontrato lo stesso Savino solo in una occasione durante un convegno, ha avuto non più di due contatti telefonici con l’editore Fabio de Fina, qualche altro raro contatto telefonico con Stefano Maria Chiari, e nulla con gli altri collaboratori), e che, pertanto, la forza delle argomentazioni da ciascuno di noi autonomamente e liberamente espresse in EFFEDIEFFE (posso testimoniare che mai, neanche una volta, lo scrivente ha subito dal Direttore censura alcuna, anche quando vi era reciproca parziale divergenza di idee) sta soltanto nella loro verità a tutti i livelli, storici, teologici, filosofici, giornalistici.

L’azione di lobbyng in atto nel parlamento italiano, con il supporto dei media, per chiudere i siti internet non graditi perché colpevoli di non tacere sui misfatti dell’attuale politica dello Stato di Israele, mescolando quelli che fanno informazione non approvata dalla nota lobby con quelli effettivamente antisemiti e neo-nazi-pagani, ha tra i suoi promotori, o perlomeno collaboratori, anche Renato Farina, ex agente «Betulla» già al servizio dei sevizi segreti occidentali nella «crociata» bushista anti-islamica.

Renato Farina nasce, giornalisticamente parlando, ne «Il Sabato» che fu negli anni ‘80 l’organo di Comunione e Liberazione, il noto movimento ecclesiale fondato da don Luigi Giussani (don Gius per gli amici) che ha al suo attivo molti ed indiscussi meriti. All’epoca il Farina scriveva cose molto migliori di quelle che scrive adesso, che lavora a Libero. Del resto, all’epoca, tutta CL era altra cosa da quel che è adesso. CL era, negli anni ‘80, un movimento seriamente cattolico capace di smuovere la melma catto-progressista depositatasi nelle sacrestie, richiamando tutti i cattolici alla Tradizione. E lo faceva in modo non passatista, come tanti ambienti tradizionalisti, ma in modo inedito associando Tradizione e post-modernità.

O almeno così sembrava.

L’autore di queste note - è bene precisarlo - non è mai stato ciellino ma di CL ammirava per l’appunto quella capacità di inverare la Tradizione, anche liturgica, nel tempo presente e senza lagne nostalgiche.

Ma, a partire dalla metà degli anni ‘90, qualcosa iniziò a cambiare in CL. Ne abbiamo trattato anche in un capitolo di un nostro libro (1). All’improvviso quella CL che, in piena euforia globale per la caduta del muro di Berlino, aveva avuto il coraggio di proclamare in un editoriale de Il Sabato «tra due materialismi noi cristiani non possiamo scegliere», agostinianamente non allineandosi all’unica superpotenza rimasta, iniziò, dalle pagine della sua nuova rivista «Tempi», a perorare la causa dell’occidente liberista ed americano-centrico.

Il mondo, nel frattempo, era infatti diventato unipolare ed in Italia il sistema politico, caduta la DC, la polarizzazione della politica imponeva a ciascuno di schierarsi con Berlusconi o contro Berlusconi. Ora, CL, nel suo braccio secolare, ovvero la Compagnia delle Opere, aveva da diverso tempo stretto molti rapporti economici con il gruppo imprenditoriale di Berlusconi fino a riuscire ad entrare persino nel mercato statunitense. Questa, sia chiaro, non è affatto una critica moralista. Non è qui in discussione il diritto dei ciellini, come di qualunque cattolico, di operare anche nel mondo economico. Non siamo affatto «puristi» e sappiamo benissimo che l’economia, al suo giusto posto, ha un suo importante ruolo sociale e che anche CL, come del resto tutta la Chiesa, vive nel mondo. Ma, appunto, anche CL, come tutta la Chiesa, non è - non dovrebbe essere - del mondo e pertanto dovrebbe evitare, per quanto possibile, che le legittime attività economiche della Compagnia delle Opere, molte delle quali davvero ispirate a solidarietà e carità, facendo debordare l’economia dal suo giusto ruolo che non è - non dovrebbe essere - mai prioritario, possano influenzare, fino a dettarla, l’agenda anche spirituale e pastorale del movimento.

Ma tutto questo non può spiegare a fondo la trasformazione in senso filo-usraeliano di CL.

Un caro amico, utente di questo sito, mi ha segnalato una famosa intervista di Farina (all’epoca non ancora Betulla) a don Giussani ed apparsa sulla rivista ciellina «Tracce» tre anni prima della sua morte. L’intervista è ora disponibile al recapito http://www.clonline.org/Art_dett.asp?ID=491.

Dobbiamo dire che l’intervista è, in alcune sue parti, molto bella. Giussani, sacerdote della cui grande fede e dignità non dubitiamo affatto, rispondendo alle domande di Farina, coglie un elemento fondamentale della fede cristiana ossia quello per il quale l’Essere è Carità, ovvero, per usare le parole della Prima Lettera di San Giovanni Apostolo, che «Dio è Amore». Seguendo Giussani, in questo suo argomentare teologico, ci si avvia davvero ad una apertura del cuore verso la Trascendenza, verso l’Essere che non è solo il «motore immobile» aristotelico ma è il Dio vivente che si piega sull’uomo ferito ed entra nella storia dell’umanità piagata, per redimere quella creatura, già creata per Amore, che ora, dopo il peccato, è ancora più bisognosa dell’Amore redentivo.

Infatti, la differenza tra l’eccelsa filosofia ellenistica, che resta fondamentale per un sano ragionare cristiano, e la Rivelazione, che a quella filosofia apporta il flusso di una vera vita spirituale, sta proprio in questo rimanere Dio, nella filosofia antica, qualcosa di freddo ed astratto (Aristotele non ancora conosceva il Dio Persona) laddove, con la Rivelazione, questo Dio, senza perdere in alcun modo la propria stabilità ontologica, si mostra Vivo, Misericordioso, Caritatevole ed attento alla sofferenza della creatura fino ad assumere, kenoticamente, pur non rinunciando alla Divinità, la stessa natura umana.

Ma in quell’intervista Giussani, mentre conduce il lettore verso tali altezze mistiche, ad un certo punto introduce una frase che, staccandosi dal contesto, finisce per scuotere l’attenzione altrui, assorta nella contemplazione del Mistero cui lo stesso intervistato l’ha innalzata, e per riportare bruscamente, a questo punto, l’incredulo lettore a terra.

La frase da Giussani, all’improvviso introdotta, è questa: «Non c’è più la fede che diventa principio interpretativo delle cose. E anche fuori dalla comunità cristiana, non si percepisce più l’essenza del cammino religioso umano. Siamo all’assurdo che è autorizzato a parlare di Israele solo chi dia per scontato che questo popolo che resta eletto non possa più radunarsi con i cristiani. Ma è il popolo dell’attesa… Gli ebrei più avvertiti lo sanno: mi è giunto un messaggio dal rabbino di New York che definisce Comunione e liberazione ‘il resto d’Israele’. Io credo che, se non ci sarà prima la fine del mondo, cristiani ed ebrei possano essere una sola cosa nel giro di 60-70 anni».

Osserva, in proposito, quel caro amico, che è ciellino ma un ciellino critico su certe posizioni dell’attuale CL (2):

«Forse in realtà Giussani discute di una cosa (su cui rimane secondo me profeta), e cioè che l’umanità (occidentalizzata, aggiungo io) sta sempre più perdendo il senso del sacro. E forse parlando di ebrei e di Israele parla di quelli (come dice lui ‘più avvertiti’) che si possono ancora considerare (mi vengono in mente i tuoi scritti) come innestati sul famoso olivo di Israele, al quale credo si possano aggiungere tutti gli uomini di buona volontà e che proprio a causa del sacrificio di Cristo e della Sua Nuova Alleanza sono chiamati a fare parte del Nuovo Israele. Quegli ebrei che ancora oggi, per quanto pochi, stanno ancora facendo un autentico ‘cammino religioso umano’ e che prima o poi incontreranno l’Oggetto della loro attesa, e cioè Gesù Cristo. Ciò premesso ti confesso un certo disagio dovuto probabilmente al non trovare riscontro con quella che è la realtà odierna. Giussani parla di ‘popolo che resta eletto’ e di ‘popolo dell’attesa’. Certamente il fatto di essere popolo non dipende dal numero: i dodici apostoli, Maria e qualche decina di discepoli all’inizio erano già il ‘popolo cristiano’. Oggi credo ci siano ancora ebrei che effettivamente questa attesa e questo senso del sacro lo vivono (interessante la testimonianza di Blondet sui Samaritani che accolgono le suore di Madre Teresa nel recinto del sacrificio) anche se realisticamente la setta talmudico-sionista è quella che attualmente sta andando per la maggiore. Ed aggiungo che quel messaggio del rabbino di New York non mi convince. Anche i santi credo possano prendere delle cantonate. Anzi, credo sia da mettere nel conto di una vita cristiana. Valutare tutto e prendere ciò che è buono comporta indubbiamente rischi di valutazione (secondo me Giussani sbaglia valutazione, nell’intervista, nei confronti di Bush, anche se è uno spunto per ricordarci che il vero cristiano ripone la sua salvezza in un Altro, ma dubito che il dio, minuscolo, di Bush sia lo stesso Dio dei cristiani) (3) (…). Bisogna riconoscere d’altro canto che spesso i santi sono coloro che iniziano rapporti di amicizia con persone che istintivamente giudicheremmo assolutamente ‘fuori’. Sintomatica la forte amicizia tra Giussani ed un monaco buddhista giapponese: se fosse stato per la maggior parte dei ciellini (non tutti: chi ha iniziato CL in Giappone è stato quel santo sacerdote di don Francesco Ricci, ora in Cielo, spesso guarda caso osteggiato nel movimento) tale apertura non ci doveva essere. Ma è quel ‘popolo che resta eletto’ che faccio fatica a capire (anche se in effetti non ha detto ‘IL’ popolo eletto). La elezione, mi ricordo diceva Giussani, è il metodo usato da Dio per mandare avanti il Suo progetto di salvezza dell’umanità intera. Insomma è una vocazione ben precisa. Allora mi chiedo: a quali ebrei si riferiva Giussani? Non penso a quelli fondamentalisti. Più giù nell’intervista dice: ‘C’è un istinto che non è ancora distrutto negli uomini, c’è ancora la ragione, essa permette di non ritenere il male come ineluttabile, come se la storia fosse per forza destinata a veder prevalere la visione dei talebani o dei fondamentalisti. Non sono inesorabili le loro vittorie, perché con la ragione si può individuare che quel che affermano non è il Mistero, e non corrisponde all’attesa dell’uomo’. Non voglio illudermi: probabilmente (Giussani) non aveva in mente i sionisti, ma è un fatto che per me ‘quel che (i sionisti) affermano non è il Mistero, e non corrisponde all’attesa dell’uomo’. Da dire che Giussani non aveva la disponibilità dei mezzi che abbiamo oggi con internet di informarsi. Ti confesso che la situazione in Terrasanta fino a pochi anni fa non era assolutamente chiara neanche a me. Ma tornando alla questione di essere ‘eletto’, domando (…): se con Cristo l’alleanza si è estesa a  tutta l’umanità, allora forse (e questo lo avevo già sentito in effetti a Rimini dal gesuita La Potterie) in questo senso l’alleanza con gli ebrei rimane, perché è estesa a tutti gli uomini e quindi anche a loro. Ma mi domando anche: la ‘elezione’ come si pone rispetto all’alleanza diciamo così ‘generica’? Forse una risposta è che tutti gli uomini hanno una loro specifica vocazione, anche i feti non nati, io credo, che quando saranno in Paradiso hanno la vocazione di stare con Cristo e pregare per noi. Credimi Luigi, è difficile per me tirare fuori queste cose (quest’anno sono 40 anni ad agosto, che conosco CL), ma forse il primo ad essere capace di mettersi in discussione era proprio don Giussani. Ma credo che sia anche giusto il senso di rispetto e di cautela, l’attenzione a quando si parla dei santi. Come credo che sia doveroso notare delle cose e dirle. Anche se si è mille volte più lontani da Gesù della persona di cui si parla (…)» (4).

Le domande che, con apprensione, si pone questo caro amico mettono in evidenza quanta confusione è stata ingenerata nella Chiesa per un parlare, ormai cinquantennale, magari teologicamente specialistico ma non altrettanto chiaro, o reso tale, al popolo di Dio che non è fatto soltanto da esperti teologi o dotti esegeti.

Giustamente, osserva quell’amico, se l’«elezione» speciale degli israeliti permane, quasi che nulla di dirompente fosse accaduto il venerdì 7 aprile dell’anno 30 sul colle Golgota a Gerusalemme, come questa elezione si rapporta a quella «generica» del resto dell’umanità?

In effetti, questo modo di presentare la questione, che è il modo prevalente nell’età post-conciliare, richiama troppo da vicino, per essere cristianamente fondato, l’esegesi post-biblica, dell’ebraismo attuale, che distingue tra una alleanza particolare riservata ai figli carnali di Abramo, alleanza che fa degli ebrei un popolo sacerdotale in favore di tutta l’umanità, ed una alleanza generica, quella noachica, conclusa cioè da Dio con Noé dopo il Diluvio, aperta a tutti gli uomini ma di per sé secondaria rispetto a quella riservata agli ebrei.

Non aver immediatamente corretto l’impressione, che poi, mediante una lettura ambigua delle Lettere paoline, è diventata prevalente nel post-concilio, di una permanenza dell’elezione ebraica nei termini suddetti è la grande responsabilità storica del magistero che troppo preso dal tentativo di superare le asprezze, anche teologiche, del passato non si è accorto della grande confusione che andava ingenerandosi nell’ambito teologico e di conseguenza nell’ambito pastorale.

Perché se le cose stessero davvero come vengono dipinte da certa neo-teologia, allora noi cristiani potremmo andare tutti a casa e chiudere bottega scusandoci con l’umanità intera per aver fatto credere che il messia è Cristo e non l’Israele post-biblico.

La questione richiederebbe una approfondita riflessione perché pone problemi molto importanti. Una riflessione che non compete primariamente a noi che parliamo da semplici fedeli senza alcun titolo teologico particolare se non il comune sensus fidei che è assicurato dalla grazia di Cristo a tutti i battezzati e che, invece, sovente è nascosto ai «dotti ed ai sapienti» come rivelatoci da Nostro Signore.

Tuttavia, anche a costo di ripeterci, azzardiamo qualche considerazione.

L’irrevocabilità dell’elezione di Israele è, certamente, testimoniata da San Paolo nella Lettera ai Romani. Di solito, però, si tace su altri passi di Paolo, nella stessa Lettera ed in altre, che chiariscono la cosa.

L'Olivo/Israele, di cui parla San Paolo, è la Fede di Abramo, la Rivelazione, non l’Israele carnale, post-biblico. Infatti se così non fosse non si capirebbe come farebbero gli israeliti, etnicamente appartenenti all’Israele carnale, ad essere, secondo Paolo, attualmente da esso, dall’Olivo/Israele, separati. Se, dunque, gli israeliti sono al momento rami tagliati dall’Olivo, ossia dalla Rivelazione, questo significa che l’ebraismo attuale, il giudaismo post-biblico, non è più nell’alveo della Rivelazione e resta come sospeso da Essa in attesa di esservi reinnestato alla fine dei tempi.

Alla luce di ciò, resta da spiegare in che modo potrebbe parlarsi, in riferimento agli israeliti, di «popolo ancora eletto».

Qui la confusione è somma ed è quella che ha portato Renato Farina, in questo sviato da Giussani, sulle sue attuali posizioni filo-sioniste che lo rendono l’utile noachico delle strategie «inquisitoriali» della Nirenstein e che gli fanno credere che il «nemico secolare» della Cristianità, identificata con l’occidente americano, sia l’islam.

La confusione, in sostanza, è dovuta al fatto che, in ambito cristiano, l’ebraismo attuale viene ritenuto essere lo stesso, o perlomeno l’erede legittimo, di quello che, nella Scrittura veterotestamentaria, annunciava, prima dell’Incarnazione, Cristo Messia.

Da parte ebraica, invece, non sempre si conviene con questa convinzione attuale dei cristiani: il rabbino Neusner, ad esempio, ritiene che tra l’Antico Testamento e Cristo non vi siano connessioni e che Gesù abbia, in sostanza, inventato un’altra religione senza radici nell’ebraismo. Neusner ricalca, in chiave talmudica, gli stessi errori di Marcione.

Giovanni Paolo II, come è noto, in più occasioni ha parlato, con riferimento a quello ebraico, di «popolo dell’Alleanza non revocata».

Qui, data la fonte, vi è un arduo compito esegetico, che umilmente si va a proporre lasciando a ciascuno la libertà di valutare la questione, non certo essendo il nostro un ruolo magisteriale ma soltanto laicale.

E’ noto che quando un Pontefice insiste su un insegnamento apparentemente nuovo quell’insegnamento a lungo andare, se si tratta di esplicitazione di una verità di Fede già implicitamente insita nel Depositum Fidei, finisce per consolidarsi e per accreditarsi a livello di Tradizione. Certamente questo processo richiede molto tempo, sicché bisogna pur domandarsi se quell’insegnamento di Giovanni Paolo II, in quanto ripetuto diverse volte, sia pervenuto a consolidarsi e se dunque esso esprime l’esplicitazione di una verità implicita nella Tradizione.

D’altro canto bisogna anche tener conto che nella persona di ciascun Papa agiscono anche le personali inclinazioni storico-culturali e le proprie esperienze esistenziali che possono persino avere un loro ruolo nell’elaborazione dei documenti del magistero. Però, la funzione magisteriale, come sappiamo, si svolge tutta sotto l’assistenza dello Spirito Santo che assicura l’indefettibilità dell’insegnamento di questo o quel Pontefice. Sicché, in un certo senso, qualunque insegnamento pontificio si oggettivizza, ossia si distacca dalle motivazioni di ordine personale che pur vi hanno contribuito, ed è da questo momento che bisogna valutare se quell’insegnamento contiene una esplicitazione di una precedente verità rivelata oppure se si tratta solo di una temporanea e non magisteriale argomentazione che resta del tutto legata ad un certo contesto storico-culturale o ad una certa e passeggera occasione concreta.

Nel caso di specie, è noto che Giovanni Paolo II portava con sé le personali esperienze della Polonia occupata dai nazisti e della sorte tragica toccata a molti suoi amici sia polacchi che ebrei. E di questo bisogna pur tenere conto, nel senso sopra esposto, riguardo alle inferenze personali dell’uomo Wojtila nella funzione magisteriale di Giovanni Paolo II.

Che l’Antica Alleanza non è revocata è assolutamente vero. Ma lo è soltanto nel senso, l’unico compatibile con la Tradizione apostolica, che Essa è attualmente adempiuta in Cristo, ossia nella Nuova Alleanza.

Anche nella vita civile, il contratto preliminare non viene abolito da quello definitivo che gli sopraggiunge ma viene certamente da quest’ultimo perfezionato, adempiuto e quindi anche superato. Il contratto preliminare contiene in nuce il contratto definitivo ma senza l’intervento di quest’ultimo non potrebbe esplicare tutti i suoi effetti e, d’altro canto, il contratto definitivo non potrebbe sussistere senza che resti vigente anche il contratto preliminare. E’ esattamente quanto sostenevano i Padri: «Novum in Vetere latet, Vetus in Novo patet».

Pertanto, la Nuova Alleanza è il patto definitivo che porta a compimento il patto preliminare della Antica Alleanza, che dunque non viene abolita ma perfezionata e superata.

Si può, allora, dire che il popolo ebreo è «ancora» il popolo di quella non revocata Alleanza ora perfezionata dalla Nuova ad essa sopraggiunta?

L’espressione di Giovanni Paolo II, per essere compatibile con la Tradizione, deve subire quel processo di «oggettivazione» al quale si accennava, ed essere distaccata dalle eventuali motivazioni personali di Karol Wojtila, legate alle sue esperienze storico-culturali ed alla sua formazione.

Solo in tal modo essa, a modesto e del tutto fallibile giudizio dello scrivente, può essere letta in una chiave tradizionale. Deve, in altri termini, essere intesa nel senso che quello ebraico è, sì, il popolo di una Alleanza non revocata ma proprio il fatto che questa Alleanza è stata perfezionata ed adempiuta da una Nuova Alleanza lo rende attualmente il popolo «che è stato», prima di Cristo, il «popolo dell'Alleanza», al quale è ormai subentrato un altro popolo che attende, come da divina promessa, che quel primo popolo voglia, finalmente, fondersi con esso rinunciando ad ogni oggi illegittima pretesa di specialità e separazione. Solo in tal senso, dunque, potrebbe persino comprendersi l’auspicio di Giussani sulla futura fusione di cristiani ed ebrei, nel senso cioè già sperimentato da tutti gli ebrei che nel corso dei secoli hanno abbracciato la fede e l’Amore di Cristo: quello di entrare a far parte della Chiesa, che è il Nuovo e Vero Israele, in tal modo reinnestandosi nell’Olivo/Israele di cui parla l’Apostolo.

In altri termini, se l’Alleanza Antica non è revocata perché adempiuta dalla Nuova, della quale è la necessaria base preliminare, non però è automaticamente possibile dire che il popolo ebreo sia ancora il popolo di quell’Alleanza non revocata se non nel senso che, di Essa, esso lo è stato.

Infatti, ed è quel che mai si dovrebbe dimenticare, il giudaismo post-biblico legge l’Antica Alleanza, compendiata nella Torah, nella Legge mosaica, attraverso le lenti, oggettivamente deformanti, del Talmud (molti rabbini insegnano che la Torah è acqua ed il Talmud è vino), che, piaccia o meno al rabbinato, è documento spurio, circa il quale non vi è nessuna, ripetiamo: nessuna, garanzia di origine divina, benché, nella misura in cui in esso traspare ancora qualcosa della Rivelazione che pretende di mediare, ma in realtà deforma, può contenere anche qualche riflesso di quella Verità che tuttavia non gli appartiene appartenendo invece Essa alla Legge la cui essenza, come ha rivelato Gesù Cristo, è l’Amore di Dio e del prossimo (solo in tal modo può spiegarsi come importanti gruppi ebraici, ad esempio i Neturei Karta, pur esplicitamente talmudici hanno un atteggiamento di apertura tendenzialmente paritetica verso il goym molto simile al paolino «non c’è più greco né giudeo»).

Proprio questa mediazione deformante del Talmud, con la quale gli ebrei si rapportano all’Antica Alleanza, spiega la verità profonda, capace di attraversare i secoli fino alla loro consumazione, dell’insegnamento di San Paolo e che nell’immediato forse sfuggiva anche all’Apostolo. E’ esattamente la mediazione spuria del Talmud, per quanto esso possa inavvertitamente riflettere qualcosa della Verità che però deforma, che rende gli attuali israeliti «rami recisi dall’Olivo Santo di Israele» ossia dall’Alleanza non revocata e che impedisce, ed impedirà loro fino alla restaurazione escatologica di tutto Israele (ovvero all’entrata in massa degli ebrei nella Chiesa), di vedere l’adempimento di quell’Alleanza Antica nella Nuova come Sua naturale conclusione. Quando cadrà questa benda dagli occhi della Sinagoga, secondo la raffigurazione delle cattedrali gotiche medioevali, il popolo ebreo vedrà chiaramente che l’irrevocabilità dell’Alleanza Antica non
sta nel Talmud ma in Nostro Signore Gesù Cristo e nella Nuova e definitiva Alleanza sancita, per tutto il genere umano, nel Suo Sangue dal Sacrificio della Croce.

Molti ebrei nel corso dei secoli hanno già sperimentato questo disvelamento, questa caduta della benda, che per il resto degli israeliti avverrà - è promessa divina - alla fine dei tempi, quando tutti i gentili saranno entrati nell’Alleanza non revocata adempiuta nella Nuova Alleanza di Cristo.

Quanto detto, finora, spiega anche l’espressione paolina sulla «irrevocabilità» della elezione di Israele. Il Vero Israele, anche prima di Cristo, non era quello carnale, etnico, ma quello teologale costruitosi intorno alla vocazione di Abramo e nel quale si entrava a far parte non tanto con la nascita da madre ebrea, per quanto questa fosse considerata, nell’economia dell’Antica Alleanza, un elemento indispensabile, quanto per la circoncisione che era figura della futura «circoncisione del cuore» ossia del battesimo. Dio, dice San Paolo, non ha revocato questa «elezione/vocazione» perché essa continua nella Chiesa, il Nuovo Israele, alla quale, essendo Essa Universale, non si appartiene per etnia, neanche per quella ebraica (non è più necessario nascere da madre ebrea), ma per il battesimo in Cristo che del giudeo e del greco ha fatto una cosa sola.

Da parte di Dio, dunque, l’elezione non è stata revocata, ma si può dire che gli israeliti sono, da parte loro, rimasti fedeli a tale elezione?

L’Elezione resta certamente irrevocata, da parte del Signore, ma appunto continuata nella Chiesa, il Vero Israele. Sicché se si vuole oggi, dopo Cristo, essere o, nel caso degli ebrei, tornare nell’elezione irrevocata bisogna passare per l’appartenenza, non etnica, a Cristo.

La grandissima confusione che attualmente sussiste nella Chiesa, su questo cruciale argomento, è molta ed innegabilmente è dovuta all’impressione che sugli ecclesiastici e sui teologi ha fatto l’orrore di Auschwitz.

La persecuzione nazista da evidente fatto storico, che piuttosto dovrebbe essere letto in chiave cristiana come preannuncio della futura conversione degli ebrei quando le loro attuali speranze messianiche intra-mondane, oggi mal riposte nello Stato di Israele, saranno del tutto infrante (ed una figura come quella di Eugenio Israel Zolli è diventata, in quel contesto della Seconda Guerra Mondiale, davvero in tal senso «profetica»), è assurto, nel comune sentire dell’occidente post-cristiano, ad un culto sostitutivo del Sacrificio della Croce: l’«olocausto» (cristianamente, invece, la sofferenza dell’ebreo ad Auschwitz, come, senza distinzioni, quella del palestinese a Gaza, è soltanto umana partecipazione alla Sofferenza di Cristo).

Qui, però, il nodo teologico viene inevitabilmente al pettine: se è l’Israele post-biblico ad essere la vittima olocaustica, e non Cristo, vuol dire che è vera la teologia dell’ebraismo post-biblico e che il Cristianesimo è stato solo una grande bimillenaria truffa.

Giussani non ha compreso questo cruciale problema, ma non è stato il solo.

Renato Farina, ma anche altri, per altri versi apprezzabili, giornalisti cattolici come Antonio Socci, seguono in questa errata prospettiva il loro pur rispettabile maestro di fede. Farina, però, porta tale errata prospettiva fino alle estreme conseguenze mettendosi al servizio della prassi «inquisitoriale» della Nirenstein, emulando al di qua dell’Oceano i cristiano-sionisti protestanti americani che si considerano gli adepti noachici di Israele che, nella loro folle prospettiva millenaristica, assurge per essi ad agente messianico alla cui testa Cristo si ergerà, dopo la finale battaglia di Armageddon, per governare come re politico di una teocrazia planetaria, assicurando la preminente gloria di Israele su tutte le nazioni del mondo.

Prima o poi nella Chiesa, nella quale come ha detto di recente il Santo Padre il buon grano e la cattiva zizzania sempre convivranno fino alla fine dei tempi, ci sarà - ne siamo sicuri - un generale rinsavimento. Sarà forse necessaria una qualche catastrofe storica o teologica (come mere ipotesi indichiamo qui la possibilità di una guerra nel Medio Oriente, che scateni la follia ideologica sionista, oppure la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme con la trionfalistica proclamazione ufficiale da parte ebraica del, presunto, fallimento messianico di Cristo).

Per il momento non ci resta che pregare Maria. E’, il nostro, il tempo della Donna Vestita di Sole che viene a salvare la Chiesa in questi tempi di apocalittico sviamento. Non è un caso, proprio quando l’Israele post-biblico si sente ormai vincente, nella battaglia esegetica, sul Cristianesimo in difficoltà e crede, oggi più che mai che in passato, all’adempimento prossimo delle profezie messianiche come esso le legge, ossia a-cristologicamente, che le Apparizioni di Maria si siano moltiplicate negli ultimi tempi.

Ci rattrista, però, che sacerdoti come padre Livio Fanzaga, pur così attenti ai segni dei tempi, non abbiano ancora capito da dove viene il pericolo maggiore e, come è oggi facile moda tra i cristiani, se la prendano con il mondo islamico che, perlomeno, a differenza di quanto, fino a poco tempo fa, e nelle sue componenti ultraortodosse ancora oggi, succedeva in ambito ebraico, non considera Cristo alla stregua di un impostore ma lo crede almeno Profeta e Verbo di Allah nato da Miriam Sempre Vergine.

Se è vero che la devozione alla Madonna, come sosteneva ad esempio San Luigi Maria Grignon de Montfort, è segno di predestinazione, forse molti cristiani, troppo infatuati da un Occidente che è a base civile protestante, dovrebbero riflettere e meditare un po’ sulla visione di Santa Caterina relativa ai cristiani ed agli islamici che, salvi, entravano, in due fila separate, nel Costato di Cristo Trafitto dalla Lancia sul Golgota.

Una visione alla quale bisogna aggiungere la promessa divina della finale conversione escatologica anche degli ebrei per quindi lodare Dio per il, futuro e sicuro, finale adempimento salvifico della vicenda umana in Gesù Cristo Nostro Signore, Re dell’Universo e della Storia.

Luigi Copertino



1) Confronta L. Copertino «Spaghetticons - la deriva neoconservatrice della destra cattolica italiana», Il Cerchio, Rimini, 2008.
2) Del resto non bisogna neanche credere che l’attuale CL sia una sorte di monolite. Se infatti intorno alla rivista «Tempi», diretta da Luigi Amicone, ed al gruppo lombardo-milanese, espressione politica del governatore Roberto Formigoni, garante dei buoni affari che la Compagnia delle Opere si assicura nella gestione dei fondi pubblici relativi alla formazione professionale, si è organizzata l’ala che potremmo definire «teocon» del movimento fondato da Giussani, diverso è il riferimento spirituale ed il ruolo che ha assunto il gruppo romano, che fa capo alla rivista «30Giorni nella Chiesa e nel mondo», diretta da Giulio Andreotti (del quale si può pensare quel che si vuole ma non va mai dimenticato che è sempre stato inviso agli u-sraeliani per le sue posizioni giudicate troppo favorevoli alla causa palestinese), rivista che in alcune preziosi occasioni ha anche dato spazio al Direttore Blondet con interviste e recensioni dei suoi libri. La rivista 30Giorni è sempre molto aperta al confronto con il mondo islamico e molto attenta alla presenza secolare dei cristiani in terra islamica, con particolare attenzione ai problemi dei cristiani palestinesi. A tale rivista fa riferimento anche don Giacomo Tantardini, allievo di Giussani, ed oggi docente di teologia, il quale è un grande esperto di Agostino, in totale sintonia con una concezione agostiniana, dunque non «cristianista», della Chiesa fatta propria anche dal regnante Pontefice.
3) Il riferimento di Giussani a Bush nell’intervista in questione è il seguente: «Una di queste mattine, guardando i giornali, pensavo a Bush di fronte a quei suoi ragazzi mandati in Afghanistan. Chissà come si sarà sentito alla notizia che ogni tanto gli giunge di caduti. Avrà pensato forse: ‘E’ colpa mia se sono morti, sono io che guido l’esercito. Ma devo agire così contro i talebani per salvare la nazione’. Vorrei dirgli: non la salvi tu la nazione. La salva Colui, quella Realtà, quell’Essere, quel livello dell’Essere a cui tu, Bush, dici: ti riconosco e faccio quello che posso per salvare la nazione, così che questo Mistero-Carità possa essere riconosciuto. Questa è la differenza tra Bush, in quanto riconosce la sua appartenenza a una storia cristiana, e i talebani». Qui è evidente che, pur con  l’intenzione di richiamare il fatto che la salvezza, anche quella della nazione, è per i cristiani un dono dall’Alto e non un progetto meramente politico, Giussani si mostra fortemente influenzato dal clima da «guerra di civiltà» preponderante nel momento in cui rilasciava l’intervista. Un clima, artefatto, che con la fede cristiana nulla aveva, ed ha, a che fare e che serviva solo per sedurre i cattolici con le sirene storiche del «secolare Nemico della Cristianità». In realtà, Giussani non capiva che la Cristianità non esiste più e che essa non è stata uccisa dal «secolare Nemico» islamico, con il quale, anzi, nei secoli medioevali e premoderni ha molto spesso intrecciato tolleranti rapporti culturali ed economici, ma dal protestantesimo, nato certamente nella Germania luterana ma impiantatosi stabilmente nel mondo anglossassone, inglese prima ed americano poi. Sicché dire che Bush «appartiene ad una storia cristiana» è possibile solo a patto di rinunciare a distinguere tra il vero Cristianesimo, che è solo quello che può vantare base apostolica, e la sua parodia dissolutoria, che è appunto il protestantesimo del tutto mancante di quella base apostolica, ormai sfibrato dal soggettivismo teologico ed esegetico e che sta tentando, con il fondamentalismo cristiano-sionista (Bush appartiene proprio a questo alveo fondamentalista che lo accomuna ai suoi nemici talebani), di recuperare il terreno perso a causa della secolarizzazione facendosi religione civile e giustificazione teologica della missione globale di «civiltà» degli USA. Resta il fatto, che sfuggiva a Giussani, che mentre per i settori più integralisti dell’ebraismo post-biblico Cristo è un «impostore», l’islam ha un ben diverso, per quanto imperfetto e deficitario, approccio a Nostro Signore, considerato coranicamente parlando superiore allo stesso Maometto, ed alla Sua Immacolatissima Madre.
4) Dalla mail inviata dal citato amico e che lo stesso ci ha autorizzato a pubblicare.



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