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E le tendenze di lungo periodo?
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Si è costretti a «torcere il bastone nell’altro senso» per il fastidio che si prova nel constatare l’incapacità - la vera e propria cecità dovuta ad un sovraccarico di ideologia che ottunde la mente - di considerare i lunghi periodi.
Tutti i «sinistri» (in particolare quelli che si ritengono, contemporaneamente, comunisti; un vero controsenso perché la sinistra è sempre stata la «bestia nera» degli effettivi comunisti) non sanno far altro che concentrare l’attenzione su singole congiunture; e quando queste non sono negative, non sono piene zeppe di quelle catastrofi provocate dal capitalismo che essi predicono un giorno si e l’altro pure, allora restringono lo sguardo a singole aree in cui si sono prodotti eventi funesti
(e se non sono proprio tali, si troverà sempre una «sperduta» statistica adatta a pronosticare fame e miseria, o altri accidenti).

Basterebbe ampliare la prospettiva a uno o due secoli (il capitalismo è in fondo una società del tutto recente in termini storici, ma non proprio formatasi ieri) e ci si accorgerà che il tenore di vita - certo materiale, ma la fame e miseria, o le distruzioni ambientali, gli inquinamenti, i buchi dell’ozono e quant’altro, previsti dai catastrofisti, sono fatti materiali, non spirituali - è aumentato quasi dappertutto, pur se in misura fortemente differenziata.

Se in cent’anni la popolazione si è triplicata o forse più, se la media della vita è aumentata di non so quanti anni (comunque a due cifre), vuol dire che, tutto sommato, in mezzo a guerre, massacri, malattie, fame, bestiali sfruttamenti, ecc. qualche miglioramento deve pur esserci stato in generale. E non solo per infime minoranze (per queste c’è stato l’enorme e senza dubbio scandaloso arricchimento), bensì per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale.

Serve a ben poco parlare solo dei milioni di bambini morti in date aree, perché - lo ripeto - il fatto è che la popolazione si è comunque triplicata o giù di lì e la media della vita si è alzata di molto; possibile che si veda solo il negativo e non quel positivo che evidentemente è stato ancora superire?
D’altra parte, dove muoiono milioni di bambini?
Nelle aree a scarso sviluppo, quelle che non riescono a produrre il buon cibo naturale (non geneticamente modificato) prediletto dai catastrofismi.
Naturalmente, penso che anche la differenza di ricchezza e di livello di reddito sia altrettanto enormemente cresciuta; ciò non deve però far dimenticare il rovescio della medaglia. Lo sviluppo capitalistico è senz’altro figlio della schiavitù (dei neri soprattutto) e, più in generale, di uno sfrut-tamento bestiale (come minimo quello descritto da Zola in Germinal), che continua tuttora in vaste parti del mondo.

Soprattutto, ci sono state guerre e continui massacri a punteggiare la storia degli ultimi secoli (e decenni), esattamente come quella dei secoli precedenti. E’ aumentata a dismisura la capacità d struttiva delle nuove armi, ma la ferocia è la stessa di sempre. Eppure incredibilmente, e malgrado queste carneficine, la popolazione è nettamente aumentata e la vita media si è allungata.

Come ultimo esempio, prendiamo lo sviluppo cinese a due cifre, uno dei più alti ritmi verificatisi in tutti i tempi. E’ stato a lungo fondato su salari assai bassi, su orari di lavoro non regolamentati, su un inquinamento pazzesco dell’ambiente. Solo in questi ultimi mesi, si è rilevato che i salari cinesi sono in aumento, che i ritmi di lavoro cominciano ad essere contrattati con maggior forza, che è aumentata la sensibilità per l’inquinamento. Alcuni si rallegrano perché i prodotti cinesi saranno meno competitivi sui mercati mondiali; altri, che non vogliono ammettere possibilità di miglioramenti per il «popolo lavoratore sfruttato», ricordano che questi salari faticano a tenere dietro all’inflazione, il cui tasso è in Cina in fase
di accrescimento.

In realtà, si può ben prevedere che, come per l’Occidente, anche in Asia (e in Sud America, ecc.), fra 50 anni ci si troverà con un «tenore di vita medio sociale» nettamente più alto, con uno sfruttamento (non nel senso scientifico dell’estrazione di pluslavoro/plusvalore, bensì come «sangue e sudore») diminuito, ma con certamente un accresciuto divario tra i redditi più alti e quelli più bassi (che saranno anche laggiù, come dappertutto, la maggioranza).
Già immagino cosa diranno i poveri delusi dalle «rivoluzioni comuniste» se dovesse aggravarsi la crisi al momento ancora incipiente, ma i cui sintomi si vanno facendo via via più preoccupanti. Vorrei invece ricordare agli smemorati la grande crisi del ‘29, che produsse povertà vera e fame perfino nel più avanzato dei Paesi capitalistici, gli Stati Uniti (anche allora i più colpiti dalla crisi,
a parte la Germania).

Chi sa quanti conoscono la letteratura e soprattutto i film americani di quel periodo; alcuni scacciapensieri, come sempre, ma i migliori invece pieni di cupi presagi per il futuro dell’intera società. Perfino dopo il New Deal, che diede impulso a ventate di ottimismo, rimase in generale una notevole insicurezza. Un regista come Ford (fra i più grandi ma anche un bel conservatore se non peggio) trovò accenti almeno populisti nel capolavoro «Furore», tratto dal buon romanzo di Steinbeck (quando ancora non era diventato reazionario). Il film considerato natalizio per eccellenza, «La vita è meravigliosa» di Capra, è in realtà cupo, con un lieto fine appiccicaticcio e un ottimismo piuttosto di facciata.

Se andiamo alla «scienza», certi keynesiani - penso ad Hansen e altri, ad esempio - estendono al lungo periodo le tesi del Maestro, parlando di tendenza alla stagnazione. Perfino Schumpeter, lo studioso che pose in primo piano la funzione propulsiva dell’imprenditore innovatore, immaginò che ormai tale impulso creativo sarebbe andato spegnendosi a causa della burocratizzazione della grande impresa. Ancora nel dopoguerra, i keynesian-marxisti alla Baran e Sweezy, riprendendo Josef Steindl («Maturità e ristagno nel capitalismo americano»), parleranno di intrinseco galleggiamento dell’economia americana, salvata soltanto dalle spese militari, che però avrebbero semplicemente rinviato la sua inesorabile crisi, tanto peggiore quanto più veniva allontanata.

Essi scrissero il «Capitalismo monopolistico», libro tanto osannato nel ‘68 quanto zeppo di previsioni errate; un testo di notevole valore, da ogni rigo del quale, tuttavia, trasuda un sovraccarico di ideologia, abilmente mascherata da teoria scientifica (condita, come al solito, con dati statistici «i-noppugnabili»). Bisogna che gli smaniosi di cambiare l’iniqua società si «calmino», la smettano con le predizioni del tutto sballate in cui sono maestri.

Vorrei essere chiaro. Sono d’accordo con Althusser che sostenne non esservi mai una lettura asettica e oggettiva dei «fatti». Questi sono «rilevati» seguendo particolari sistemi di ipotesi che contengono in sé una ideologia, nel senso positivo del termine, in quanto insieme di valori e di credenze maturati nel corso della lunga evoluzione storica (socio-culturale) di quella determinata formazione sociale, in cui sono inseriti gli scienziati che vanno costruendo il suddetto sistema di ipotesi.

Tuttavia, ci sono ideologie che durano ben oltre la loro funzione attiva (e sostanzialmente positiva) nella costruzione delle ipotesi teoriche in questione; ideologie che dunque marciscono e annebbiano il cervello di chi si ostina a riproporle, cosicché questi si riduce a fedele seguace di sette esaltate e rissose, sempre pronte a darsi addosso, a dividersi in nome di principi dogmatici ormai totalmente avulsi dai nuovi processi in corso nella formazione sociale.

Questa è la fine che hanno fatto gli anarchici ottocenteschi; questa è quella che hanno fatto i comunisti novecenteschi, in continua agitazione poiché non si sono ancora accorti di essere divenuti dei meri reperti archeologici. Quando ciò accade, alcuni provano ad uscire dalla sclerosi della vecchia ideologia; solo che, nella maggioranza dei casi, ne escono in modo prettamente rea-zionario, cioè semplicemente rinnegandola e tornando ad abbracciare i sistemi di valori delle classi dominanti che sono in generale ancora più vecchi. Altri - talvolta in buona fede e trovandosi co-munque a disagio nell’attuale società - si voltano indietro e riscoprono vecchissime e ormai morte ideologie, che essi però riverniciano e presentano in nuove forme, perché il tempo è pur sempre passato e la «foggia del vestire» è troppo cambiata per indossare pari pari i vecchi abiti dei damerini di un tempo.

Chi conosce almeno un po’ la storia del pensiero non si fa ingannare; certi ex-comunisti, che oggi aborriscono perfino tale termine e nemmeno riconoscono più la grandezza del passato comunista, sono nient’altro che sismondiani o proudhoniani (certuni rispolverano perfino Dühring), mimetizzati mediante l’uso delle nuove forme del pensiero alla moda in un’epoca di declino della cultura «occidentale».
A me sembra ovvio che tale declino ci sia; ed è molto più grave, e di lungo periodo, rispetto alla crisi finanziaria che potrà verificarsi nei prossimi mesi.

Quest’ultima non sarà la fine del capitalismo nemmeno se raggiungesse - il che non è molto probabile - l’acutezza di quella del 1929 (anche se darebbe, come allora, la stura a tutte le teorie crolliste, o almeno stagnazioniste, possibili e immaginabili). Più grave mi sembra invece il declino culturale, che è fenomeno di lunga lena; pure in tal caso, non accetterei comunque le ideologie del «tramonto dell’Occidente», già annunciate più volte. E’ tuttavia necessaria una precisazione.

Non è lecito semplicemente proiettare nel futuro quanto del passato è stato «conosciuto» in base ad una serie di ipotesi (applicate alla ricerca storica). A rigor di logica, quindi, nessuno può escludere in assoluto che una prossima crisi implichi alla fin fine il trapasso a realtà sociali radicalmente differenti da quelle in cui si sta vivendo da quando si è formata la società capitalistica. Non è però consentito trasformare il «può essere» in qualcosa che sicuramente, inesorabilmente, accadrà, in base alla brutta abitudine di valutare in modo catastrofico tutto ciò che si manifesta durante le fasi negative dell’evoluzione capitalistica. Potrebbe essere l’ultima, ma la ragione ci suggerisce la sussi-stenza di ben maggiori probabilità che se ne esca con una trasformazione, più o meno radicale, den-tro il capitale.

In ogni caso, le fasi negative - sia che investano gran parte del mondo o siano invece localizzate in date aree; sia che riguardino l’economia e provochino un impoverimento di buona parte delle popolazioni, sia che investano altri aspetti del vivere sociale - sono momenti di fragilità del sistema; in particolare nei famosi «anelli deboli», poiché le crisi (economiche, sociali, belliche, culturali, ecc.) hanno effetti diversi, e di ben diversa intensità, in differenti parti della formazione mondiale.

Nelle fasi in questione, è dunque indispensabile agire comunque; in un certo senso, possiamo usare l’espressione: bisogna approfittare delle crisi. Per approfittarne, tuttavia, dobbiamo tenere conto che siamo in piena epoca di trasformazione e ci si deve dotare di lenti nuove per leggere quanto sta ac-cadendo. Non ci si può quindi esimere dal liberarci del passato. Certo, è necessario conoscerlo, ma proprio per liberarcene e, come ho già rilevato sopra, per non farci imbrogliare da coloro che criticano la società odierna, e anche certi tentativi di suo rivoluzionamento attuati in passato, semplicemente tornando o alle vecchie ideologie mistificatorie delle classi dominanti (ad esempio, in campo economico, si tratta del neoliberismo e del neokeynesismo che si combattono in perfetta sintonia antitetico-polare) o alle idee dei socialisti premarxisti di tipo «romantico» e reazionario.

Solo per questo, è utile la conoscenza del passato; poi bisogna procedere effettivamente oltre producendo novità teoriche che non sono però puro frutto di cervelli individuali (di «geni» che «scoprono» l’insondabile), poiché devono invece verificarsi tumultuosi processi di decantazione di una realtà sociale in confuso movimento, così come lo è quella odierna. Non invito a stare fermi; si difendano intanto soprattutto quelli che sembrano maggiormente in difficoltà nelle critiche contingenze del presente (in varie parti del mondo).

Nel mentre si fa questo, è però indispensabile «stare in ascolto» della realtà in movimento e approntare progressivamente, tramite un lavoro che non sarà breve (visto che non dipende solo dagli sforzi individuali di chicchessia), nuovi apparecchi «uditivi» (nuove teorie). Soprattutto, basta con i facili catastrofismi, che non conducono da nessuna parte, salvo che a influenzare negati-vamente certe quote di popolazione spaventate, che si muovono a casaccio, per disperazione, come tanti branchi di animali presi nelle reti di una evoluzione mondiale sempre più caotica e drammatica, caratteristica delle epoche in cui ci si avvia allo scontro policentrico.

Stanno crescendo le sette degli adoratori di questo o di quello; crescono i guaritori e i maghi, gli stregoni di certe (non tutte, per carità) medicine alternative; crescono gli spettacoli detti d’evasione che sono una passerella di nevrotici e narcisisti; cresce però anche (ed è positivo) l’insofferenza per la politica, ma non invece la consapevolezza di chi veramente la muove e la rende sempre più inetta e squallida (e non solo in Italia). Vogliamo solo approfittare dell’ignoranza e in-consapevolezza di massa o intendiamo sforzarci di dare un senso alla apparente «insensatezza» del tutto?

Le catastrofi non ci servono. Non perché non ce ne siano; e ce ne saranno sempre di più.
Semplicemente, dobbiamo comportarci da esseri razionali e aprire, senza frettolosità e superficialità, prospettive di avanzamento. Ecco perché dobbiamo situarci dentro la fase (senza fughe millenaristiche o comunque anche solo generaliste) e, nello stesso tempo, cercare di tener conto dei trend, non delle semplici congiunture. Certamente, so che è più facile a dirsi che a farsi; ma intanto diciamolo, non sfruttiamo la dabbe-naggine e l’impreparazione della «gente» per inebriarci di profezie lugubri e di inviti a ritornare all’indietro.

Professor Gianfranco La Grassa
www.lagrassagianfranco.com



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