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Il pensionamento «volontario» di Toaff
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Un lettore, Massimo P., ci scrive da Gerusalemme per precisare che Ariel Toaff, il controverso autore di «Pasque di sangue», in realtà, non a causa di questo avrebbe «perso il lavoro all’Università Bar Ilan di Tel Aviv, ma, presosi un anno sabbatico (trascorso in Italia), è poi è andato regolarmente in pensione alla fine della carriera accademica. L’informazione proverrebbe da un collega dell’Università ebraica di Gerusalemme».
Seguono saluti dalla città Santa.

Ringraziamo il lettore per l’occasione che ci dà di tornare sul tema e facciamo anzitutto una precisazione: almeno per ciò che ci riguarda, l’unica Gerusalemme, degna davvero del titolo di Città Santa, è la nuova Gerusalemme, scesa dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo: «Udii allora una voce potente che usciva dal trono: ‘Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate’. E Colui che sedeva sul trono disse: ‘Ecco, io faccio nuove tutte le cose’ ».
Siccome immaginiamo che la mail del cortese lettore non provenga dal dominio dell’Eternità, né da luoghi di trascendenza informatica, ma sia stata spedita invece dalla capitale politica dello Stato di Israele, conquistata «manu militari» nel 1967 dall’esercito di Giuda e da allora teatro di continui spargimenti di sangue in tutta la terra di cui essa è capitale (dalla striscia di Gaza fino alla Yeshuva Merkaz HaRavil 6 marzo scorso), ci permetta il lettore di non associarci a definire quella città, (archeologicamente illustre e che pure vide l’uccisione di nostro Signore Gesù Cristo, assistette alla Sua vittoria sulla Morte, mediante la sua gloriosa Resurrezione e vi conserva il Santo Sepolcro) come Città Santa.

«Già e non ancora», casomai, la nuova Gerusalemme, Città Santa, luogo della «shekinà» (della presenza, cioè, di Dio in mezzo al Suo popolo) è la Chiesa cattolica, nuova Gerusalemme e nuovo Israele: e il Tempio è oggi in ogni luogo nel mondo, ove la Santissima Eucaristia manifesta a tutte le genti la Presenza Reale di Cristo.
Come insegna perfino il «nuovo» Catechismo della Chiesa cattolica, «La Chiesa è detta l’edificio di Dio. Il Signore stesso si è paragonato alla pietra che i costruttori hanno rigettata, ma che è divenuta la pietra angolare (Matteo 21,42 par.; At 4,1; 1 Pt 2,7; Sal 118,22). Sopra quel fondamento la Chiesa è stata costruita dagli Apostoli e da esso riceve stabilità e coesione. Questa costruzione viene chiamata in varie maniere: casa di Dio, nella quale abita la sua famiglia, la dimora di Dio nello Spirito, la dimora di Dio con gli uomini, e soprattutto tempio santo, rappresentato da santuari di pietra, che è lodato dai santi Padri e che la liturgia giustamente paragona alla città santa, la nuova Gerusalemme. In essa, infatti, quali pietre viventi, veniamo a formare su questa terra un tempio spirituale. E questa Città santa Giovanni la contempla mentre nel finale rinnovamento del mondo essa scende dal cielo, da presso Dio, ‘preparata come una sposa che si è ornata per il suo sposo’ (Ap 21,1-2). La Chiesa, che è chiamata ‘Gerusalemme che è in alto’ e ‘Madre nostra’ (Gal 4,26); viene pure descritta come l’immacolata Sposa dell’Agnello immacolato, Sposa che Cristo ‘ha amato [...] e per la quale ha dato se stesso, al fine di renderla santa’ (Ef 5,25-26), che si è associata con patto indissolubile e che incessantemente ‘nutre e [...] cura’ (Ef 5,29)» […].

«La Chiesa [...] non avrà il suo compimento se non nella gloria del cielo, al momento del ritorno glorioso di Cristo. Fino a quel giorno, ‘la Chiesa prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio’. Quaggiù si sente in esilio, lontana dal Signore; ‘anela al regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi al suo Re nella gloria’. Il compimento della Chiesa - e per suo mezzo del mondo - nella gloria non avverrà se non attraverso molte prove. Allora soltanto, 'tutti i giusti, a partire da Adamo, ‘dal giusto Abele fino all’ultimo eletto’, saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa universale», cioè cattolica.
Dunque se tra le città della terra ad una va attribuito, in una accezione comunque contingente, il nome di Città Santa, quella è Roma, solo Roma, unicamente Roma, giacchè quella è la sede del Vicario di Cristo, capo della Chiesa, «Novus Israel», non più e non mai, invece, la capitale di quello che una volta veniva definito Stato israeliano ed oggi - non a caso e con implicazioni sempre più inquietanti di natura etnico-religiosa - Stato ebraico.
Ma torniamo a Toaff.

Davvero il lettore crede alla favola dell’abbandono volontario?
Poiché non possiamo pensare alla sua malafede, allora forse non ricorda quello che è successo durante quest’anno.
Se vive a Gerusalemme, forse, egli è impossibilitato a leggere «Repubblica», cui il professor Toaff il 21 febbraio scorso ha rilasciato un’intervista, in cui alla domanda «Quanto le è costata questa polemica?» letteralmente rispondeva: «Ho lasciato di mutuo accordo la cattedra all´università Bar Ilan. So a quali pressioni sono state sottoposte le autorità accademiche. Ci sono state anche cose peggiori, su cui però preferisco sorvolare».
Egli potrà controllare su internet quello che diciamo.
Il lettore forse ignora  le pressioni raccapriccianti cui l’Università Bar Ilan, dove Toaff insegnava, è stata sottoposta.
Basta un breve giro su internet per documentarsi.

All’inizio, come logico, l’Ateneo aveva difeso il proprio docente, poi era scattato il piano di «disinnesco» di Toaff, come lo definì a suo tempo Giorgio Israel, professore ordinario di matematiche complementari all’Università La Sapienza di Roma e persona di pregevole onestà intellettuale (1).
Poi la direzione universitaria aveva cambiato atteggiamento e lo aveva fatto sapere al quotidiano Yediot Ahronot: «Sentiamo collera e grande dispiacere nei confronti del professor Toaff, per la sua mancanza di sensibilità nel pubblicare il suo libro sulle istigazioni di sangue in Italia. Il professor Toaff avrebbe dovuto dimostrare maggiore prudenza nel gestire il libro e la sua pubblicazione, in modo da prevenire le recensioni e le interpretazioni distorte e offensive».
Così è accaduto che «le pressioni per licenziare Toaff, da ebrei ortodossi e da altre comunità americane, sono state decisamente forti, soprattutto nelle ultime ventiquattro ore. Lo stesso Toaff deve aver capito che nessuno per lui avrebbe mosso un dito, dopo la vigorosa cacciata dal ghetto di Roma. Il professore deve avere anche capito che nemmeno in Israele qualcuno si sarebbe mosso per difenderlo. Il che rendeva la situazione molto più complicata di quello che lui stesso aveva immaginato. Alla fine si è trovato un compromesso. Tu, Ariel Toaff, fermi la pubblicazione del libro, in cambio puoi tenerti la cattedra. Per ora, naturalmente. La bufera è passata, i fatti restano.
La credibilità di storico del docente si è incrinata, nessun ateneo o yeshiva probabilmente lo vorrebbe ancora come docente
» (2).
Era il 15 febbraio di un anno fa.

Il giorno dopo l’università di Bar Ilat comunicava: «Vista l’entità del danno provocato al popolo ebraico, ci attendiamo da Toaff che si assuma le responsabilità personali del caso e si adoperi a riparare». Un gesto, insomma. E Toaff lo ha fatto. Ha fermato la pubblicazione e ha deciso di devolvere i proventi del libro alla Anti Defamation League di New York. Ma nessuno può dire se questo sia sufficiente. C’è però chi continua a spingere per licenziare subito Toaff. Si tratta di pressioni esercitate sui dirigenti dell’università da finanziatori privati, soprattutto americani. Loro chiedono sanzioni, in realtà l’obiettivo è di mandare il docente a casa. Il consigliere per le relazioni esterne del presidente della Bar Ilan Moshe Kaveh, Yerah Tal ha detto: ‘Persone che non fanno parte del mondo accademico e docenti di altre università ci hanno chiesto
di licenziare il professor Toaff, ma noi non prendiamo in considerazione questa ipotesi’
».
Le sanzioni, spiega in pratica Yerah Tal, andrebbero contro il principio dell’autonomia accademica. E’ ovvio che Yerah Tal è un diplomatico. L’università deve pensare alle sue casse, i finanziamenti americani ne sono un pilastro, sacrificare con una buona uscita Ariel Toaff, per il bene dell’ateneo, non dovrebbe essere così difficile. A questo si aggiunga che Toaff è a tre anni dalla pensione, dunque tutta la partita si può giocare facilmente (3).

Il «licenziamento consensuale» del professor Toaff è uno di quegli espedienti che spesso si usano nel mondo imprenditoriale per liberarsi di qualche dirigente scomodo: si parla spesso di «scivolo» o di incentivi al pre-pensionamento.
Insomma o uno capisce e se ne va «spontaneamente», o gli rendono la vita talmente impossibile che al primo minimo errore scatta la rappresaglia… e allora peggio per lui.
Un anno sabbatico è stata la resa onorevole che Toaff ha dovuto firmare, insieme con la precisazione che l’omicidio rituale è un mito.
Se ne compiace Anna Foa, nell’intervista concessa ad Achille Scalabrin sul Resto del Carlino del 7 marzo scorso: «Ora lo dice esplicitamente, ed è una affermazione importante perché cambia molto la sua tesi di fondo» (4).

Insomma Toaff si sarebbe sbagliato: in realtà egli non ha detto proprio questo (ne riparleremo!), ma questo è il messaggio che la gente comune, abituata a leggere solo i titoli dei giornali, deve assimilare.
L’omicidio rituale sarebbe nient’altro che una menzogna inventata dai cristiani: è, resta e deve restare «blood libel».
In fondo a Toaff è andata bene.
La preoccupazione di «disinnescare» ad ogni costo la sua opera non è comprensibile, se non si conosce almeno un po’ cosa sia davvero il giudaismo.
L’immagine che passa tra le gente, infatti, è quella della fede religiosa del popolo ebraico, del «popolo vittima innocente», il cui olocausto si è compiuto durante gli anni della Seconda Guerra mondiale nei campi di Auschwitz, Dachau, Buchenwald, Bergen Belsen.
Proprio ad uno degli scampati di Bergen Belsen, lasciamo volentieri la parola.

Si tratta di Israel Shahak, nato a Varsavia nel 1933 e morto il 2 luglio 2001, che ha passato alcuni anni della sua infanzia nel campo di concentramento nazista di Belsen, dove trovarono la morte quasi tutti i suoi familiari.
Giunto in Palestina nel 1945, risiedette in Israele per oltre quarant’anni.
Professore di chimica organica, ha combattuto tutta la vita per i diritti umani, scrivendo in ebraico e in inglese sui vari aspetti del giudaismo.
Gore Vidal, - ebreo anche lui e forse il più famoso romanziere della politica americana, come ha scritto di lui Donata Righetti sul Corriere della Sera del 7/9/2001 - ha definito Shahak «il più recente, se non l’ultimo dei grandi profeti. Ovvio che le sue idee vengano deplorate dalle autorità israeliane, perché - secondo Vidal - sarebbe stata proprio tutta la tradizione rabbinica a determinare quelle spinte fondamentaliste e ultranazionaliste che vorrebbero oggi trasformare lo Stato di Israele in una teocrazia riservata ai soli Ebrei».
E’ quello appunto che sta accadendo nella terra che ha per capitale la sedicente «Città Santa».

Una delle opere più famose di Shahak è «Storia ebraica e Giudaismo - Il peso di tre millenni», un libro che in Italia ha trovato come editore solo il coraggioso Centro Librario Sodalitium di Verrua Savoia e che è disponibile nella libreria EFFEDIEFFE.
Ebbene Shahak narra del giudaismo cose che nessuno ci ha mai raccontato.
«Vi è un passo di Platone - scrive Shahak - contenuto nelle Leggi (942 ab), che venne scelto da Karl Popper per definire l’essenza stessa della società chiusa. La cosa fondamentale è che a nessuno, uomo o donna, sia permesso di sottrarsi al controllo di qualcuno sopra di lui e che nessuno entri nell’ordine d’idee di prendere una decisione, per il bene o per il male, assumendosene individualmente le responsabilità. In pace come in guerra, ciascuno deve tener fisso lo sguardo sul suo superiore […] in una parola, deve abituare la mente a non prendere neppure  in considerazione l'agire individuale o imparare a farlo. Se si sostituisce la parola ‘rabbino’  a quella di ‘superiore’ si ha l’immagine perfetta del ‘Giudaismo classico’ » (5).

La reazione scatenata dalle comunità ebraiche contro Toaff all’indomani della pubblicazione di «Pasque di sangue», ricorda un po’ quella che la comunità ebraica inflisse nel 1656 al celebre filosofo Baruch Spinoza, quando questi fu espulso e maledetto a causa delle «abominevoli eresie che egli ha compiuto e insegnato, nonché [dei] suoi atti mostruosi».
Il documento di «cherem» (bando o scomunica) era inequivocabile: «Che egli sia maledetto di giorno e maledetto di notte, maledetto quando si sdraia e maledetto quando si alza, maledetto quando esce e maledetto quando rientra. Il Signore non lo risparmierà: al contrario, la collera del Signore e la sua gelosia si abbatteranno su quest’uomo, e tutte le maledizioni scritte in questo libro penderanno su di lui, e il Signore cancellerà il suo nome da sotto il cielo».
Era pratica comune presso le comunità giudaiche un controllo totale dei propri membri.

Non amiamo la faziosità, quindi, dal loro punto di vista non abbiamo difficoltà ad ammettere che le condizioni in cui essi vivevano, la necessità di conservare la propria coesione e purezza in una realtà culturalmente e spiritualmente ostile, di far vivere una civiltà senza avere un proprio territorio ove edificarla, rendono comprensibili (anche se moralmente non giustificabili) certi atteggiamenti!
Non dimentichiamo però che, per questa propria scelta di fondo, contraria ad ogni progetto assimilazionista, l’ebreo aveva come unico strumento la segregazione, di cui l’isolamento nel ghetto era spesso una scelta concordata con le società in cui viveva.

Un altro ebreo, Ugo Caffaz, citando Louis Wirth, scrive al riguardo: «Il ghetto non fu il risultato di un progetto, ma piuttosto la involontaria cristallizzazione di bisogni e di pratiche religiose radicate nei costumi e nell’eredità religiosa e temporale degli stessi ebrei. Molto prima che ciò fosse reso obbligatorio, gli ebrei vivevano, di loro iniziativa, in parti separate nelle città dei Paesi occidentali […] ‘l’autogoverno del ghetto in realtà altro non era se non l’autogestione della segregazione: i migliori carcerieri diventavano gli ebrei stessi» (6).

La cosa che qui preme è che si stracci il velo sull’ipocrita, oleografica, mitica, edulcorata, falsa immagine del giudaismo, solitamente veicolata dalla storiografia dominante.
La realtà del giudaismo era ben altra, straordinariamente descritta nel suo svolgersi quotidiano dalla godibilissima prosa di Toaff e così sintetizzata da Shahak: «Sin dalla tarda età imperiale romana, le comunità ebraiche avevano avuto un potere assoluto sui loro membri. Sia che si trattasse di mobilitazioni volontarie contro ogni trasgressione alla legge religiosa, come per esempio il rifiuto collettivo di avere qualsiasi rapporto con gli ebrei scomunicati fino a non autorizzarne neppure la sepoltura, sia che il potere di coercizione ricorresse alla fustigazione, al carcere o all’espulsione, i tribunali rabbinici erano legittimati a perseguire qualsiasi ebreo per qualsiasi reato. In molti Paesi, come in Spagna e Portogallo, il congresso dei rabbini infliggeva anche la pena capitale, talvolta con metodi particolarmente crudeli come la fustigazione fino alla morte. […] Il fatto sociale più importante della presenza storica ebraica prima dell’avvento dello Stato moderno è che l’osservanza delle leggi giudaiche, inculcate nei giovani dall’istruzione rabbinica, era imposta agli ebrei con la coercizione fisica. […] Con l’affermarsi dello Stato moderno, la comunità ebraica perse il suo potere di punire e d’intimidire i singoli ebrei. Furono spezzati i lacci di una delle più chiuse ‘società chiuse’, di una delle società più totalitarie di tutta la storia dell’umanità» (7).

E’ solo con l’Haskalah, l’Illuminismo ebraico, che le condizioni degli ebrei diventano più «normali»: ciò è percepito come un pericolo tale per l’identità giudaica che, per esempio, nei territori dell’Europa orientale rabbini e «mistici» (i Chassidim), fin lì impegnati in uno scontro durissimo per l’egemonia all’interno delle comunità ebraiche, fanno muro comune contro il rischio di questa nuova e sottile opera di assimilazione da parte del mondo esterno.
Scrive Shahak che dalla fine del 1700 «per la prima volta dall’anno 200 dell’era volgare […] gli Ebrei di tutta l’Europa, e successivamente di tante altre nazioni, furono liberi di leggere libri in tutte le lingue moderne, di leggere e scrivere libri in ebraico senza l’approvazione dei rabbini, che prima era necessaria per tutte le pubblicazioni in ebraico e in Yiddish, di mangiare cibi non kosher, d’ignorare gli innumerevoli e assurdi tabù sessuali che i rabbini imponevano, persino la libertà di pensare ‘i pensieri proibiti’ che erano considerati peccato gravissimo» (8).

Nessuno ci ha mai raccontato i giudei come sono davvero.
Del giudaismo non sappiamo nulla e quel po’ che sappiamo è tendenzialmente falso: in realtà «tutte le cosiddette ‘caratteristiche ebraiche’ - quei tratti che i cosiddetti intellettuali dell’Occidente attribuiscono ai loro cosiddetti ‘Ebrei’ - sono caratteristiche moderne, sconosciute nella storia ebraica e apparse quando la comunità totalitaria cominciò a perdere il suo potere di vita e di morte. […] Prima del 1780 in Europa, se si fa eccezione per una cultura strettamente religiosa, degradata e degenerata rispetto ai secoli precedenti, tra gli ebrei dominava un profondo disprezzo e odio per ogni forma di sapere, escluso il Talmud e il misticismo ebraico. Non si dovevano leggere numerose parti del Vecchio Testamento, tutta la poesia ebraica non liturgica, quasi tutti i testi della filosofia ebraica e spesso era considerato anatema persino citarne i titoli. Lo studio di tutte le lingue e quello della matematica e delle scienze era severamente proibito. Sconosciuto era lo studio della storia, della stessa storia ebraica e quello della geografia, compresa la Palestina, che non si sapeva neppure dove fosse. […] Il senso critico, che si suppone caratteristico degli ebrei, era bandito e niente era proibito, temuto e perseguitato più di una modesta innovazione o di una critica innocente. […] Tra quel mondo di oscurantismo fanatico e le ‘caratteristiche’ attribuite agli ebrei dalla cultura occidentale non c’è nulla in comune al di fuori dell’uso arbitrario del nome. […] E’ emblematico che scritti di storia ebraica, anche nel più arido stile cronachistico, non appaiano più a partire dalla fine del primo secolo, dopo Giuseppe Flavio, e solo con il Rinascimento, ma solo in Italia e nei Paesi sotto l’influenza culturale italiana, riappaiono alcuni testi di storia ebraica […] E’ sintomatico che i rabbini avessero più paura della storia ebraica che di quella generale e che il primo libro moderno di storia pubblicato in ebraico nel XVI secolo s’intitolasse Storia dei re di Francia e dei re ottomani. […] Nell’Europa dell’Est, le autorità rabbiniche decretarono che tutti gli studi non talmudici dovessero essere proibiti, anche quando non contenessero qualche specifico oggetto di anatema, perché avrebbero sottratto tempo allo studio del Talmud o all’accumulare il denaro necessario per finanziare poi gli studiosi del Talmud. Restava un’unica scappatoia: il gabinetto, dove anche gli ebrei più pii dovevano inevitabilmente passare un po’ di tempo durante la giornata. In quel luogo impuro, è vietato leggere gli studi sacri, ma era permesso leggere libri di storia, purché fossero scritti in ebraico e non riguardassero questioni religiose, il che voleva dire libri dedicati esclusivamente ad argomenti non ebraici» (9).

A chi poi pensa, ad esempio, che repressione e violenza siano state prerogative della cristianità, sarà bene rammentare che all’ebreo che osava attaccare un giudice del tribunale rabbinico venivano mozzate le mani, gli adulteri erano imprigionati dopo che avevano dovuto attraversare il quartiere ebraico con due file di gente che li bastonava e sputava loro addosso.
Quando c’erano dispute teologiche, ai sospetti eretici veniva mozzata la lingua.
Si capisce, allora, perché Lazare, un altro autore ebreo, addirittura arriva a dire che «questi miserabili ebrei, che il mondo intero tormentava a causa della loro fede, perseguitarono i correligionari più duramente, più accanitamente di quanto fossero mai stati perseguitati», ricordando che «quelli che essi accusavano di indifferenza erano destinati ai supplizi più terribili: ai blasfematori si tagliava la lingua; le donne ebree che avevano rapporti con cristiani erano condannate a essere sfregiate: erano sottoposte all’ablazione del naso [...] La massa degli ebrei era […] caduta interamente sotto il giogo degli oscurantisti; era ormai separata dal mondo, ogni orizzonte era chiuso. [...] Nel Talmùd l’ebreo trovava tutto previsto: vi erano indicati tutti i sentimenti e le emozioni, qualunque fossero, e preghiere e formule già pronte permettevano
di esprimersi. Il libro non lasciava spazio né alla ragione né alla libertà perché insegnandolo praticamente si eliminavano la parte di leggenda e la parte gnomica e si insisteva sulla legislazione e il rituale. Con un’educazione di tal fatta l’ebreo non soltanto perse ogni spontaneità e ogni intellettualità, ma vide anche la sua moralità diminuire e indebolirsi
» (10).
Leggendo il libro di Toaff si scopre, appunto, tutta la durezza di questo mondo, si guarda cioè al giudaismo per ciò che esso realmente è stato ed in parte ancora è.

Un anno fa, recensendo la prima edizione del libro di Toaff, scrivevo che esso «è ammirevole anzitutto per la capacità di farci entrare quasi in presa diretta con i personaggi di quella società, con le loro pratiche di vita quotidiana, le loro vicende, i loro traffici, le loro mercanzie, le loro credenze, i loro riti, i loro problemi, le loro aspirazioni, i loro sentimenti di amore e di odio. Leggendo il libro quasi si annusa l’odore di quei luoghi, le ombre e le luci del ghetto, il tono delle voci nella sinagoga, il tintinnio delle monete sui banchi di credito, il suono dei passi lungo i vicoli stretti di quartieri impregnati di carne e misticismo, di affari e Torah. Non vi compare malgrado ciò la stereotipata figura dell’ebreo avido, untuoso e volpino. Ovvero se talvolta si può scorgere anche questa, le figure degli ebrei sono caratterizzate da una piacevole varietà, che evidenzia un mondo ricco di fermenti e di personalità, nient’affatto marginali rispetto alla vita della maggioranza cristiana, eppure inevitabilmente separati da essa. Un mondo fatto di personaggi strani, eccentrici, spericolati, spregiudicati e - perché no - talvolta feroci, ma vivaddio vivi, virili e fieri della loro irriducibile ebraicità».
E’ un giudizio che confermo e concordo anche su ciò che ha scritto Toaff: «Non si rafforza l’ebraismo dandone un’immagine oleografica. Anzi, il presentare gli ebrei come eterne vittime passive della storia è una forma di antisemitismo».
Mettere in discussione l’immagine stereotipata del giudaismo è un atto di coraggio.

Bruno Gravagnuolo sull’Unità, criticando il lavoro di Toaff si domanda: «Che nesso c’è tra l’accusa del sangue e il fantasma di purezza del sangue, alla base della distruttività antisemita e della stessa Shoah? E’ questo il punto su cui dobbiamo interrogarci, senza timore di ricadere nella ‘psicostoria’ o in ‘elucubrazioni psicoanalitiche’. E una prima risposta è: ebrei capro espiatorio di tutte le angosce di contaminazione dell’occidente cristiano. Ebrei come nazione cosmopolita e indocile a farsi assimilare. Come altro, differenza. Scandalo di una condizione umana che non sa convivere col conflitto e deve sopprimerlo. Anche per questo è ‘unica’ la Shoah. Simbolo di tutti gli orrori che vengono dal quel problema irrisolto».

Per questo «Pasque di sangue» è stato prima disinnescato, poi «normalizzato» e Toaff «volontariamente» autopensionato: mettere in discussione l’immagine oleografica del giudaismo significa mettere in discussione proprio l’immagine degli «ebrei capro espiatorio di tutte le angosce di contaminazione dell’occidente cristiano» e quindi l’immagine espiatoria ed «unica» della Shoah.
Significa «disinnescare» il ruolo del popolo vittima, che in quanto tale, non può essere giudicato da nessuno.
Significa opporsi al fatto che esso possa commettere ogni sorta di abominio e atrocità perché avrebbe già espiato e riscattato con il proprio sangue la propria salvezza: significa revocare in dubbio la prometeica immagine di un popolo Messia di se stesso.
Significa considerare i giudei uomini, solo uomini come noi tutti, bisognosi anch’essi come tutti noi di Salvezza (dell’Unica Salvezza!) ed incapaci, come tutti di noi, di autoredenzione.
Descriverne le crudeltà, significa poterne ammettere la terribile normalità, l’uguaglianza con gli altri popoli.
Significa assimilarli a tutti noi, considerarli uomini come noi.
Ciò che orgogliosamente essi hanno sempre rifiutato e rifiutano.
L’abbiamo sempre pensato: il miglior alleato del giudaismo è l’antisemitismo.
Entrambi non fanno in fondo che condividere l’irriducibile diversità degli ebrei dal resto del genere umano.

Post scriptum: Margot, una gentile lettrice di Roma si rammarica che non scriva più spesso.
La ringrazio, ma ahimè, vivendo del mio lavoro, scrivo quando posso… oramai solo la domenica o di notte.
Intanto a lei ed a tutti i lettori interessati preannuncio che è in stampa il mio libro sull’omicidio rituale.
Tutte queste tematiche le troverete là ampiamente trattate in oltre 400 pagine, insieme a documenti inediti.
Ve ne terremo informati nel corso delle prossime settimane.
Il libro uscirà in un numero limitato di copie.
Chi ne fosse interessato può prenotarlo sin d’ora presso EFFEDIEFFE.

Domenico Savino




1) Confronta. http://www.morasha.it/sangue/israel2.html
2) http://linotype.wordpress.com/2007/02/15/
3) http://linotype.wordpress.com/2007/02/16/
4) www.osservatorioantisemitismo.it/Scheda_del_documento.asp?docid=3565&
5) Israel Shahak «Storia ebraica e Giudaismo - Il peso di tre millenni», Centro Librario Sodalitium, pagina 31.
6) L. Wirth, «Il ghetto», Edizione di Comunità, Milano, 1968, pagina 23, citato in Ugo Caffaz,
«Le nazionalità ebraiche», Vallecchi Editore, 1974, pagina 32. Scrive a sua volta il Puech, a proposito del ghetto: «Questo termine è apparso nella sua accezione specifica solo nel XVI secolo, allorché la Repubblica di Venezia costrinse gli ebrei in essa residenti a rinchiudersi in uno speciale quartiere, detto un tempo il Ghetto Nuovo. Ma, in parecchi luoghi, gli ebrei avevano scelto
di propria volontà, già da tempo, di vivere tra di loro, intuendo istintivamente come questo fosse l’unico modo per preservare la solidarietà reciproca e le tradizioni. Comunque sia, il ghetto, deliberatamente scelto o imposto per costrizione, sarebbe diventato per secoli la più sicura fortezza del giudaismo. Senza dubbio, gli ebrei dovettero subire innumerevoli angherie, vessazioni indegne, penose umiliazioni, costretti a vivere nelle peggiori condizioni materiali. Certamente, questa esistenza al chiuso, questa promiscuità fisica e sociale erano necessariamente destinate ad avere una ripercussione debilitante, degradante sui corpi e sugli spiriti. Tuttavia, è la Kebilla,
la comunità del ghetto, quella che, nonostante tutti questi aspetti negativi, non solo è riuscita
a mantenere desti i valori essenziali del giudaismo, ma ha anche permesso agli ebrei di pervenire, a tratti, ad un notevole livello, sia intellettuale, sia morale».
7) Confronta I. Shahak, opera citata, pagina 36-37.
8) Confronta I. Shahak, opera citata, pagina 39.
9) Confronta I. Shahak, opera citata, pagina 45.
10) Bernard Lazare, «L’antisemitismo», Centro Librario Sodalitum, 2000, pagina 282 e seguenti.



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