Eurocrisi: tedeschi che non vogliono sborsare
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Un gruppo di economisti ed imprenditori tedeschi di primo piano ha formato un partito – Alternative fuer Deutschland (AfD) – che promuove l’uscita del Paese dall’euro. L’iniziativa è partita nientemeno che dall’ex presidente della Confindustria germanica (BDI), Hans-Olaf Henkel, prima noto per essere un fautore entusiasta dell’euro: «Il peggior errore della mia vita», ha confessato al Telegraph.

Hans-Olaf Henkel
  Hans-Olaf Henkel
Il motivo, lo dicono chiaro gli economisti: la Germania si è impegnata (sulla carta) a contribuire a fior di decine di miliardi al salvataggio dell’euro-zona, facendo prestiti ad interesse ai Paesi in difficoltà. Fino ad ora, era inteso che quegli impegni non avrebbero mai dovuto essere realmente adempiuti, bastando la «garanzia» del gigante tedesco a calmare le acque; e per evitarlo, Berlino ha potuto fino ad oggi imporre ai Paesi in crisi austerità draconiane («Pagate voi i vostri debiti!»). Adesso, dicono i capi di AfD, l’affermazione in Italia di Beppe Grillo, che secondo loro auspica il riduzione del debito estero italiano, li ha resi coscienti «di quanto sia veramente pericolosa la crisi euro», dice uno dei loro leaders, l’economista Bernd Lucke: «Che uno Stato paghi o no il suo debito, dipende dalle scelte elettorali imprevedibili dei loro popoli».

Inaudito, vero?

A questo punto, la grande creditrice Deutschland – dicono loro – non deve più pagare altri salvataggi. Uscire dall’euro e formare una nuova moneta con i satelliti nordici (dall’Austria alla Finlandia) sarebbe un bene anche per il Club Med, che rimarrebbero con l’euro, ma sostanziosamente svalutato e quindi competitivo. (Germany's anti-euro party is a nasty shock for Angela Merkel)

Quanti voti può attrarre AfD, a soli sei mesi dalle elezioni che danno vincente Angela Merkel? Non è dato saperlo. In genere in partiti nuovi e di protesta tedeschi non hanno mai superato lo sbarramento del 5% per entrare in parlamento. D’altra parte, i sondaggi dicono che il 26% dei tedeschi, oggi, voterebbe un partito anti-euro. Ed anche se Alternative fuer Deutschland non superasse lo sbarramento, risucchierebbe abbastanza voti al centro-destra da rendere impossibile o problematico il ritorno dell’attuale governo di coalizione, i cristiano-democratici della Merkel, la CDU bavarese, e i liberisti Free Democrats. Tutti partiti ufficialmente pro-euro, come del resto il grande storico concorrente, i socialdemocratici.

Nonostante la VW annunci trionfale altre migliaia di assunzioni, l’economia tedesca rallenta, subendo il «gelo» dell’austerità e della miseria che ha imposto ai Paesi vicini, con il relativo crollo dei consumi. La produzione industriale a gennaio è stata stagnante, e il settore in crescita appare l’edilizia che ha mascherato statisticamente la vera e propria caduta della produzione di beni industriali e di energia.

La scelta della Merkel di chiudere le centrali nucleari e passare all’energia rinnovabile sta imponendo un pesante tributo alle manifatture e imprese reali: un rincaro del 47% della bolletta elettrica (per pagare gli investimenti solari e ventosi, notoriamente anti-economici) pone in difficoltà diverse imprese. Anche quelle commerciali. La catena di mega-negozi «Intersport» ha dovuto fare grossi investimenti per assicurare che nei suoi grandi spazi di vendita il riscaldamento, l’aria condizionata e la ventilazione non operino simultaneamente.

Altre, specie medie imprese (il tipico nerbo dell’economia reale tedesca) vanno all’estero dove l’energia costa meno. La Worlee-Chemie GmbH, impresa famiglia che prospera da un secolo ad Amburgo producendo resine e tinteggiature, ha aperto una fabbrica di produzione di un nuovo suo indurente a Istanbul. Sono centinaia di posti di lavoro che partono dalla Germania.

C’è di peggio. Un popolo che fu scottato dall’iper-inflazione degli anni ’20 teme anche la tiepida inflazione che vede tornare in tanti settori. Ovviamente, prima di tutto nel settore pubblico: i 765 mila dipendenti delle Regioni hanno spuntato, coi loro sindacati, un aumento dei salari del 5,6% in due anni, al disopra dell’inflazione (2%). Pressioni per aumenti salariali sorgono sempre più spesso, e il salario orario tedesco è già il più alto d’Europa (31 euro l’ora contro 23,5; per non dire che in Bulgaria è 3,7); e premono anche gli altri Paesi della UE perché la Germania stimoli la propria domanda interna concedendo aumenti delle paghe.

Insomma: costi crescenti, spinte inflazioniste, delocalizzazioni, rallentamento dell’economia germanica, ed adesso la prospettiva di nuove crisi dell’eurozona, e quindi di dover aprire il borsellino per rappezzarle; certo è cosa che piace sempre meno ai tedeschi. Non gli è piaciuta nemmeno quando s’è trattato di salvare la minuscola Grecia. Quando si è trattato di sborsare 15 miliardi per Cipro, ha tirato fuori l’idea del prelievo forzoso sui conti correnti ciprioti, con i media a stillare che se non si aiutavano «gli oligarchi russi» del «paradiso fiscale» mediterraneo.

I media germanici hanno ben bene ripetuto che le banche di Cipro pesavano 7 volte il Pil dell’isola – tacendo accuratamente che il vicino, civile e nordico Lussemburgo ha un settore bancario che pesa quasi 22 volte il Pil, ed è un vero autentico paradiso fiscale, nonché Stato fondatore.

Ancor meno i cittadini tedeschi sono informati dei numerosi vantaggi che le crisi successive del Club Med portano a loro: fra cui i capitali in fuga dal Sud, che finiscono a comprare titoli tedeschi, permettendo al Paese di indebitarsi a tassi sottozero; e gli altri interessi che i Paesi in crisi stanno pagando per gli «aiuti» che ricevono dal blocco tedesco, che non è gratis. Berlino e i suoi satelliti, insomma, si indebitano a tasso zero e lucrano sugli altri al 5%. La solidarietà europea – se esistesse – dovrebbe indurre la Germania a ridistribuire questo doppio vantaggio ai Paesi-vittime; ma ovviamente non mancano mai le buone scuse per non farlo.

Figurarsi quali motivi troveranno quando si tratterà di contribuire ad un nuovo salvataggio della Spagna con dieci volte più dei soldi che richiede Cipro, o delle venti volte di più che richiederebbe la povera Italia, che elegge comici e pagliacci, senza governo, senza classe dirigente, affondante nel ciclo perverso di corruzione-sprechi-ignoranza alla sudamericana. Gli eurocrati e le loro occulte lobby di riferimento premono per «il federalismo europeo», «più Europa non meno Europa» per «l’unione dei bilanci» dei vari paesi e via ideologizzando: fingendo di ignorare che l’unione fiscale richiede per la Germania una rivoluzione costituzionale, e significa – a dirla in breve – mettere in comune il grosso borsellino tedesco con le avide casse vuote dei debiti pubblici italiani, greci, portoghesi e spagnoli. E già ora, pare, Berlino suggerisce nei salotti buoni, al riparo di orecchie indiscrete, un prelievo del 40% sui conti correnti italiani per prosciugare il debito pubblico...

E noi italiani, in tutto ciò? Uscire e ripudiare ci converrebbe sempre più, anche se più aspettiamo, più sarà traumatico. Stiamo scivolando, insieme a Spagna ed anche Francia, verso la miseria ottocentesca, se crediamo a questa tabella di JP Morgan, sui tassi di crescita dall’800 ad oggi:


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Questo declino è irreversibile. Lo è finché ci ostiniamo a restare nell’euro. Ma è perfettamente reversibile se ne usciamo. Magari insieme agli altri fratelli latini.

È proprio un filosofo italiano, Giorgio Agamben, ad evocare la «fratellanza latina» contro l’unità eurocratica «astratta, indifferente ai reali legami di cultura, modi di vita e religione». La UE «s’è formata ignorando le parentele culturali concrete che esistono fra le varie nazioni», ma oggi il potere preponderante della Germania «protestante» implica che si chiede «a un greco o a un italiano di vivere come un tedesco»; ciò non solo non ha senso, «ma se fosse possibile, avrebbe come esito la scomparsa di un patrimonio culturale» vivente e inestimabile fattore di creatività: che è proprio quel che vediamo in Italia, fra ignoranza crassa e crescente, passività e senso di sconfitta, che abbiamo chiamato «sudamericanizzazione» : questo degrado, da ultimo, è causato dal «progetto europeo» di Monnet, Delors, Padoa-Schioppa e Monti ed altri Incappucciati. (L’“Impero latino” contro l’egemonia tedesca)

Ma non sarà certo la politica italiana a porsi alla testa dell’unione politica fra «fratelli mediterranei», latini, cattolici (o affini greci-ortodossi). Oggi, i tre partiti che abbiamo fatto uscire dal nostro voto (e dalla nostra pancia) stanno dando il massimo acuto dello spettacolo tipico del parlamentarismo italiota: una colossale lite di condominio dove tutti berciano e nessuno si associa a nessun altro. E da cui il pensiero è per principio escluso, ed ogni riflessione strategica sul come cambiare il sistema, espunta fra gli strilli.

È dunque singolare che sia un italiano, Agamben, a porre il problema alto di un’unione politica dei Paesi latini del Sud, basata sulle affinità profonde, per bilanciare il potere germanico, a noi eterogeneo, che si pone inevitabilmente – ancorché involontariamente – come oppressore dei modi di vita latini. Segno che non manca ancora del tutto la creatività latina; ma quel che manca sono i politici capaci di assumere il progetto, e la decisione che comporta.

Il discorso di Agamben, ovviamente, non viene ascoltato – e nemmeno capito – in Italia dagli irresponsabili pagliacci che abbiamo eletto. Ha trovato qualche orecchio attento in Francia, anche se anche là un Hollande, moscio e piccino nelle scarpe di De Gaulle, non pare proprio in grado di coagulare attorno a sé «l’impero latino». (Un “Empire latin” contre l’hyperpuissance allemande, par Giorgio Agamben)

Però speriamo. Non ci resta altro.


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