Ebraismo e cristianesimo (parte III)
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Pietro per primo aprì ai gentili

Quale sia stato il ruolo di Pietro nello sviluppo del Cristianesimo è possibile ricostruirlo sulla base dei Vangeli, degli Atti degli apostoli e della tradizione. Per fare questo ci rifacciamo agli studi di Fabrizio Fabbrini, ordinario di Storia Romana e studioso del Cristianesimo antico, al quale dobbiamo quanto segue (1). Secondo il Fabbrini, la personalità di Pietro è stata troppo trascurata dagli storici a favore di quella di Paolo. Quest’ultimo sembra essere diventato per taluni il vero fondatore del Cristianesimo primitivo. Un documento come la Seconda Lettera di Pietro non è ritenuta dell’Apostolo perché, si afferma, è troppo stilisticamente raffinata. In realtà diversi indizi, afferma Fabbrini, ci portano oggi a credere verosimile che Pietro l’abbia dettata a uno scriba di buon livello. Lo aveva già fatto, del resto, per la sua Prima Lettera, dettata all’ottimo scriba Silvano (1Pietro 5,12). Anche Paolo era solito affidare a uno scriba la stesura delle lettere. Non si può neanche escludere, secondo Fabbrini, che Pietro abbia scritto in greco di suo pugno, perché il contesto storico-geografico in cui è nato rende la cosa probabile (2).

Le scoperte di Fabbrini sono molto interessanti non solo perché ci dicono molte cose a proposito del ruolo di Pietro ma anche a riguardo di certe esegesi anti-romane. E’ oggi possibile ricostruire con una certa ipotetica attendibilità la mappa degli spostamenti di Pietro nella sua azione missionaria. Secondo la tradizione Pietro sarebbe rimasto per sette anni in Antiochia ad iniziare dal quarto anno dopo la Passione. Sicché si calcolava che il settennato fosse iniziato nel 37, perché si riteneva la Passione avvenuta nel 33. Questo finiva per non collimare perfettamente con la data della persecuzione di Erode e dell’arresto di Pietro a Gerusalemme nel 41. Oggi però la Passione è stata con ragionevole certezza datata nell’anno 30. Questo pone l’inizio della settennale permanenza di Pietro ad Antiochia nel 34 o nel 33 e la sua fine al 41 o al 40. Questo ci dice, in conformità con la Tradizione e con quanto tramandano gli Atti, che l’azione missionaria di Pietro si svolse da subito in ambiente extra-ebraico o perlomeno extra-palestinese. Antiochia era la provincia orientale più importante dell’Impero e Pietro presumibilmente si spostava da questa città per far visita alle varie comunità da lui fondate. Questa rilettura cronologica degli spostamenti di Pietro ci permette anche di meglio interpretare il riferimento che egli fa quando dice, nelle sue lettere, di trovarsi in Babilonia. Finora con questa indicazione si pensava che Pietro intendesse indicare, in chiave simbolica, Roma. Ma, secondo Fabbrini, questa è una lettura priva di fondamento perché prima della grande guerra giudaica (66-70) non è attestata tale identificazione tra Roma e Babilonia ed è da escludersi che un tale parallelo fosse presente in quella cultura profondamente ellenizzata, data la forte simpatia verso Roma. Secondo Fabbrini, se proprio si vuole vedere in Babilonia una terminologia simbolica si dovrebbe piuttosto pensare a Babilonia come termine riferibile a tutto lo scacchiere orientale siro-mesopotamico. Babilonia sarebbe dunque tutto il territorio che è fuori di Israele, a Oriente, nella Galilea delle genti e che, nel linguaggio biblico, si oppone al vero Israele. Nulla ci porta a ritenere che Pietro alludesse a Roma dal momento che comunemente per Babilonia si intendeva quella immensa regione che, appunto, da Antiochia arrivava fino alla Babilonia mesopotamica. Se si ammette questa eventualità Pietro avrebbe scritto la sua Prima Lettera nel corso del suo settennato antiocheno tra il 33 e il 40. Tuttavia Fabbrini non esclude un’interpretazione non simbolica del testo e ritiene che Pietro abbia scritto la lettera da una vera e propria Babilonia, la Babilonia d’Egitto, che era un centro militare importante dell’Egitto romano. Marco, discepolo di Pietro (e Marco è menzionato da Pietro nella lettera: «Marco mio figlio»: 1Pietro 5,13), aveva rapporti stabili con l’Egitto romano.

Questo apre ad un’altra scoperta: Pietro, dopo l’arresto e la liberazione, avvenuti nel 41, partendo dalla Palestina, è giunto a Roma nel 42 passando proprio dall’Egitto. Da lì avrebbe potuto scrivere la sua lettera alle comunità dell’Asia. Poi è partito alla volta di Roma, muovendo dal porto di Alessandria. Che l’Egitto sia stata terra di evangelizzazione apostolica ce lo confermano gli Atti degli apostoli: è a Gaza (la via per l’Egitto) che avviene la conversione del ministro etiope (Atti 8,26); la diffusione della fede cristiana ad Antiochia avviene ad opera di persone provenienti da Cipro e da Cirene; quest’ultima città, Cirene, dove si trovavano i figli del Cireneo, Alessandro e Rufo, menzionati nel Vangelo, si trova in territorio libico strettamente legato all’Egitto ed ha conosciuto assai presto la presenza cristiana. Dall’Egitto proviene il massimo predicatore dei primissimi tempi cristiani, Apollo, citato ampiamente negli Atti e nelle lettere paoline. Filone Alessandrino, egiziano, è messo dalla tradizione cristiana in rapporto con Pietro. La notevole mobilità di Pietro, sottolineata anche dagli Atti, tra il 30 ed il 41, nell’area ricompresa tra Gerusalemme, Antiochia ed Alessandria, testimonia dell’intensa attività apostolica di Pietro. Tanto che questa notoria mobilità, è, secondo Fabbrini, uno dei segni del suo primato, come di chi abbia ricevuto una responsabilità su tutto l’orizzonte cristiano. Anche il viaggio di Pietro in Samaria, descritto nei capitoli 9 e 10 degli Atti, durante il quale avviene il battesimo del centurione Cornelio e l’apertura di Pietro alla conversione dei pagani non può essere datato dopo l’arresto e la miracolosa liberazione di Pietro dal carcere, che è del 41. La missione di Pietro in Samaria, descritta negli Atti, precede quell’evento e si svolge in un contesto di tranquillità favorevole alla predicazione.

«La Chiesa» dice il testo «era in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria» (Atti 9,31). Samaria e Giudea erano regioni amministrativamente unite. Il prefetto romano risiedeva a Cesarea, in Samaria, ma controllava anche la Giudea. Se in una di quelle regioni ci fosse stata una persecuzione anche l’altra ne sarebbe rimasta coinvolta. Il fatto che gli Atti attestino che in quelle regioni, quando vi si recò Pietro, vi fosse tranquillità esclude anche che il viaggio apostolico sia successivo alla persecuzione iniziata con il martirio di Stefano comunemente datata al 34. È quindi più ragionevole porre il viaggio di Pietro in Samaria in un momento antecedente al 34, ossia quando gli apostoli si trovavano ancora tutti a Gerusalemme. Questo testimonia, per Fabbrini, che l’azione missionaria di Pietro verso i gentili è iniziata già nei primissimi anni dopo la resurrezione di Gesù, ed addirittura prima ancora del soggiorno petrino ad Antiochia. Con quel viaggio in Samaria inizia l’estensione del Vangelo ai pagani, sicché le prime conversioni di pagani non sono opera di Paolo ma di Pietro, come, appunto, attestano gli Atti degli Apostoli. E’ dunque un errore contrapporre, come generalmente si fa, una linea petrina a una paolina, nei primi anni di diffusione del Cristianesimo, quale differenziazione tra una Chiesa giudaica e una Chiesa aperta ai Gentili.

L’impostazione teologica di Pietro, come trapela dalle sue bellissime lettere, è caratterizzata dallo stesso universalismo di Paolo, la sua azione missionaria è altrettanto intensa ed ampia. E’, dunque, Pietro che per primo apre ai Gentili. La conversione del centurione Cornelio è precedente all’azione missionaria di Paolo. Gli Atti testimoniano dell’appassionata difesa che Pietro fa a Gerusalemme, contrariando altri apostoli, della necessità, come imperativo stesso del Signore, di convertire i pagani (Atti 11,1- 18). Pietro, prima e forse più di Paolo, è stato l’Apostolo delle genti.

Roma pagana e Roma cristiana

Le considerazioni circa la non anti-romanità dell’azione missionaria di Pietro e di Paolo ci portano ora ad alcune osservazioni per sfatare un luogo comune, rimarcato a causa della Riforma protestante, fondato su una cattiva esegesi che intravvede nella Roma pagana la Bestia dell’Apocalisse. Lutero si agganciò a tale cattiva esegesi per fondare la sua polemica antipapale nella quale Roma cattolica diventava la Babilonia, la Prostituta dell’Anticristo. In questo Lutero riprendeva l’esegesi giudaica post-biblica che, per avversione anticristiana, aveva individuato Roma cristiana, erede di quella pagana, come il biblico Edom, ossia il nemico di Israele.

Nella profezia messianica nel secondo capitolo del Libro di Daniele, si parla di un piccolo sasso che, rotolando, distrugge una statua quadriforme che simboleggia, come del resto è espressamente detto nel testo, i quattro imperi che avrebbero preceduto il regno del Messia. Secondo una interpretazione quegli imperi sono il neobabilonese, il medo, il persiano ed il greco. Una variante esegetica riunisce i regni medo e persiano in uno solo ed identifica il quarto regno nell’impero romano. La riunione dell’impero medo e persiano in un’unica entità - si badi - storicamente non è affatto arbitraria perché in effetti si trattò di due realtà statuali strettamente connesse nello sviluppo del dominio persiano pre-ellenistico. Nel passo profetico di Daniele ritorna l’antica denuncia ebraica della vanità di ogni pretesa di dominio universale che non sia quella di Dio stesso. Nell’immagine catastrofica della Torre di Babele, che storicamente si identifica con le grandi costruzione templari ammirate dagli ebrei deportati in Babilonia, la Bibbia denuncia la pretesa prometeica dell’uomo che, sedotto dalla propria volontà di potenza, si arroga il diritto, che è solo di Dio, di riunificare tutte le genti nel Culto Universale a Lui dovuto. La confusione delle lingue che biblicamente scaturì da quella pretesa è immagine del divieto/punizione di Dio verso l’arroganza auto-deificatoria umana. Immagine analoga a quella dell’angelo posto, dopo il peccato, ad impedire ad Adamo di tornare nell’Eden. Solo con la Pentecoste, nel dono delle lingue, quella confusione babelica sarà gratuitamente sanata per i meriti del Sacrificio d’Amore di Cristo ed a fronte dell’umiltà dell’uomo che Lo adora.

In Daniele «La pietra, che aveva colpito la statua, divenne un gran monte che riempì tutta la terra» perché «il Dio del cielo susciterà un regno che non sarà distrutto in eterno e la cui sovranità non passerà ad altro popolo. Stritolerà ed annienterà tutti quei regni, ma esso sussisterà in perpetuo».

La Tradizione cristiana ha identificato la piccola pietra, che distrugge la statua e diventa un monte capace di riempire tutta la terra, in Cristo e il regno perpetuo, che non sarà distrutto e che distruggerà ogni altra pretesa di universalità, fondata sull’orgoglio prometeico della volontà di potenza, nella Chiesa. In effetti storicamente parlando, il Cristianesimo inizia nell’oscurità di una sperduta provincia dell’Orbe romano ed è oggi diventato universale, essendo stata la fede predicata in tutto il mondo (segno questo indicato da Cristo come escatologico: «Ma prima è necessario che il Vangelo sia proclamato a tutte le genti», Marco 13,10; «Frattanto questo Vangelo del regno sarà annunziato in tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti, e allora verrà la fine», Matteo 24,14). La Roma pagana, tra i quattro regni predetti da Daniele, gioca però un ruolo ambivalente. Se da un lato anch’essa è una potenza mondana che si oppone a Cristo – ed in tal senso volge quell’esegesi dell’Apocalisse che identifica in Nerone persecutore la Bestia o, perlomeno, una delle sue incarnazioni – dall’altro assume un ruolo preparatorio per la diffusione della fede in quanto Roma è chiamata a riunire le genti per accogliere il Messia che infatti nasce sotto la legge ebraica e, contemporaneamente, sotto l’egemonia romana in Palestina, ossia al tempo nel quale Israele ha perso lo scettro del quale si parla nel capitolo 49 del Genesi quando Giacobbe morente profetizza ai figli «Lo scettro non sarà tolto da Giuda, né il bastone del comando di tra i suoi piedi, finché non venga Colui al quale appartiene e a Lui andrà lobbedienza dei popoli». Storicamente, lo scettro del comando fu tolto da Giuda proprio nei tempi in cui apparve Gesù Cristo. Erode il grande, quello della strage degli innocenti, sarà l’ultimo re di Israele ed alla sua morte il territorio del regno verrà smembrato per passare sotto il diretto governo di Roma (3).

Ogni parvenza di autonomia cessa, fino al 1948 ossia alla nascita dell’odierno Stato israeliano. Gli ebrei aspettavano un Messia che li liberasse dai romani, che sconfiggesse il potere della Roma pagana per instaurare quello di Israele sulle genti. Invece giunse un Messia che ha promesso un regno non di questo mondo, ha annunciato la sua sovranità sui cuori e non sui troni, che lodava la fede del centurione - ossia di un pagano - dicendo che in Israele non ne aveva trovato una più grande, che nacque nel I secolo - tempo di attesa spasmodica perché indicato dalla profezia delle settanta settimane come quello della comparsa del Messia venturo - quando, però, come recita la Kalenda ossia l’antico testo liturgico con il quale ancora oggi si annuncia la nascita di Gesù nella notte di Natale, il mondo era tutto in pace, perché riunito provvidenzialmente nell’universalismo romano (4). Il destino romano della fede cristiana era dunque annunciato, come lasciò intendere a Paolo il sogno nel quale un macedone, ovvero un abitante delle terre ad occidente della Palestina, lo invitava a «passare da noi» per portare la fede (Atti 16, 9-10).

In effetti, se si studiano i percorsi di Pietro e Paolo, come descritti negli Atti degli Apostoli, appare evidente che i due apostoli, senza esserselo preordinato né averlo programmato, sono sospinti da una misteriosa provvidenza, tra diversi pericoli (si pensi al naufragio di Paolo), verso la capitale dell’Impero. Qui essi trovano il martirio per Cristo. Laddove Romolo e Remo, nel mito, sono i fondatori della Roma pagana, che aveva fatto il suo tempo, Pietro e Paolo assurgono nella storia a fondatori di una nuova Roma, la Roma cristiana, quella che Dante cantava come la «Roma onde Cristo è romano». La fede in Cristo, debellato il paganesimo e recuperato quanto in esso vi era di naturalmente preordinato alla salvezza delle genti, ha donato un più alto significato, spirituale ed escatologico, all’universalismo romano. Quest’ultimo, in tal modo, mentre moriva in termini temporali con la fine dell’impero, veniva assunto mediante la Chiesa nell’Eternità: «… romanum imperiumquod nondum cessavit sed est commutatum (nella Chiesa) de temporali in spirituale» afferma Bernardo nel suo commento a Piconio nella Epistula Beati Pauli Triplex Exposita.

Roma è da sempre una città universale. C’è qualcosa di universale che si respira in Roma, qualcosa senza la quale si mancherebbe della giusta prospettiva nel guardare al resto del mondo. L’Orbe si comprende meglio se vista dall’Urbe. Ecco perché la Provvidenza ha posto in Roma la Sede di Pietro. Il primo Papa ha soggiornato durante la sua vita in molti posti, Antiochia, Gerusalemme, Babilonia d’Egitto. Ma è a Roma che egli ha reso testimonianza a Cristo. Questo ha reso universale la Sua Cattedra Apostolica. La Chiesa romana non è una fazione, una parte della Chiesa Universale, ma si è sempre concepita come la Chiesa nella sua integrità, il cuore della Cattolicità. I fatti storici si sono incaricati di dimostrare il senso sovra-storico di questa vocazione della Sede di Pietro che, anche quando perse il potere temporale nel 1870, non venne meno, a garanzia dell’Eternità del Sacerdozio al modo di Melchisedek che, in Cristo, essa incarna.

E Paolo?


Abbiamo detto di Pietro. Ma l’altro grande apostolo, fu Paolo. Il fiero Saulo di Tarso, zelante fariseo, persecutore dei primi cristiani, coinvolto probabilmente nell’episodio della morte di Stefano, andava, però, orgoglioso anche della sua cittadinanza romana, che all’epoca significava pieno riconoscimento dei diritti e doveri civili. Forse Saulo, il fariseo, acquisì la cittadinanza romana per un provvidenziale volere più Alto. Quanto segue servirà certamente a tutti coloro che ritengono che quello del Vecchio e quello del Nuovo Testamento non sia lo stesso Dio. Ci ispiriamo ad un piccolo ma denso saggio, disponibile in rete (5), che illustra le radici farisaiche di Paolo. Approfondendo queste radici farisaiche dell’apostolo è possibile comprendere quanto il Cristianesimo sia interno al vero ebraismo, perché ne è l’adempimento ed il perfezionamento, e quanto di novità il Cristianesimo, proprio perché adempimento e perfezionamento dell’ebraismo, porti con sé. In particolare l’universalismo ossia l’estensione universale della Torah, della Legge - della quale Cristo ha detto che non cadrà neanche uno iota fino alla fine del mondo - a tutte le genti, le quali in Cristo, e non nell’Israele post-biblico, sono così entrate nell’Alleanza stipulata da Dio con Abramo per l’intera umanità. Che poi gli ebrei post-biblici, come dice San Paolo, sono attualmente rami recisi dall’Olivo di Israele, ossia dalla Fede di Abramo, è cosa indiscutibile ed è da qui che nasce il messianismo spurio del giudaismo post-biblico che ha infine generato il sionismo razzista.

Nell’ebraismo del I secolo sussistevano due grandi scuole che si contendevano l’egemonia in ambito farisaico. La prima faceva capo a rabbi Shammai e la seconda a rabbi Hillel. Si noti, per chi vuole prestarvi fede, che, secondo certe rivelazioni private, il Gesù dodicenne assistette nel Tempio ad una discussione tra questi due caposcuola, ed i loro discepoli, circa la giusta interpretazione dei passi profetici riferiti al Messia e che la Sua Sapienza, quando espose a quei dottori il significato della Scrittura, fu lodata soprattutto da Hillel. Quest’ultimo era il maestro di rabbi Gamaliel che gli Atti degli Apostoli (22,3) indicano come maestro di San Paolo. I due eminenti rabbi svolsero il loro magistero in un periodo compreso tra il 34 ed il 4 avanti  Cristo, sotto il regno dell’idumeo Erode. Pertanto non è affatto inverosimile ritenere che il Gamaliel che diverse fonti rabbiniche indicano come figlio di Hillel sia lo stesso che gli Atti ci riferiscono essere stato il maestro di Paolo, dal momento che quest’ultimo, nel periodo anzidetto, era giovanissimo.  Molte delle discussioni che si ritrovano nei Vangeli, come quelle a proposito dell’osservanza del sabato e delle norme di purità come anche della relazione da intrattenere con i non ebrei, sono l’eco delle diatribe che dividevano le due predette scuole farisaiche. Pare che Hillel discendesse dalla casa di Davide mentre Gamaliel, che doveva avere con lui rapporti di parentela, fosse della tribù di Beniamino, nel cui territorio era il Tempio di Gerusalemme. Le tribù di Giuda e di Beniamino furono le uniche che, nel 931 avanti Cristo, quando il regno di Davide si frantumò nei due regni di Giuda ed Israele, rimasero fedeli al casato davidico ossia ad un rigido monoteismo. San Paolo rivendica per sé la propria ebraicità dicendosi appartenente alla tribù di Beniamino (Romani 11,1). Egli in tal modo mette in rilievo il suo essere discendente di un popolo che era rimasto assolutamente fedele al Dio di Abramo. Paolo esibisce queste credenziali per far fronte alle accuse che gli venivano mosse dai suoi ex correligionari i quali lo sospettavano di dubbia ebraicità.

Certamente altrove Paolo afferma di aver lasciato «tutte queste cose», ossia il fariseismo nativo, che dice di considerare ormai «spazzatura» avendo incontrato in Cristo la vera fede ebraica (Fil 3,8). Resta, tuttavia, il fatto che non è possibile comprendere l’itinerario di Paolo verso Cristo senza tenere in debito conto il suo discepolato presso Gamaliel e la sua appartenenza alla stirpe di Beniamino. Gameliel, del resto, negli Atti appare come un saggio ebreo capace di umiltà di fronte a Dio. E’, infatti, proprio lui ad intercedere a favore degli Apostoli facendo osservare ai sinedriti, scandalizzati per le sue parole (e fra essi uno sbigottito Saulo), che se quegli uomini, gli Apostoli, stavano facendo la volontà di Dio nessuno avrebbe potuto impedire loro di agire, mentre se erano solo degli esaltati si sarebbero dispersi da soli e sarebbero presto stati dimenticati. Saggezza grande di un grande saggio. La risposta noi oggi la conosciamo. L’opera di quegli uomini è andata avanti e non si è dispersa né è stata dimenticata: segno che essa proveniva da Dio (6).

«Hillel e Shammaj – afferma l’autore del testo citato – sono segnalati dalla Mishnah come la quinta e ultima delle coppie (zugot) storiche di presidenti e vice-presidenti del Sinedrio di Gerusalemme. La figura di Hillel, che fu pressappoco contemporaneo di Gesù (se ne data la morte attorno al 10 dopo Cristo), acquistò ben presto un valore quasi paradigmatico, anche per il fatto che dopo il 70, a Javne (o Jamnia), furono i discepoli di Hillel a conquistare la leadership del movimento farisaico: per tale ragione le fonti di cui disponiamo sono generalmente assai poco galanti nei confronti di Shammaj. Questo conduce molti studiosi, ancora oggi, a presentare approssimativamente Hillel come un maestro indulgente, illuminato, di tendenze moderate, e a fare di Shammaj un interprete rigorista della Legge. Certamente le due Case, … , si distinsero luna per la propria apertura al mondo non ebraico, laltra per la tendenza esclusivista: è unimmagine che ci viene trasmessa dalle stesse fonti, anche allindomani del fantomatico concilio di Javne, quando si sarebbe deciso di conformare la halakhah (ossia linterpretazione della Legge) alle coordinate della scuola di Hillel. (…). Ecco un esempio: «I nostri maestri hanno insegnato: un uomo dovrebbe sempre essere umile e dolce come Hillel, e non dovrebbe mai essere intransigente e impaziente come Shammaj …  Avvenne un giorno che un pagano (goy) si presentò da Shammaj e gli domandò: «Quante Torot avete?». Gli rispose: «Due: la Torah scritta e la Torah orale». Egli disse: «Per quanto riguarda la Torah scritta, ti credo; ma quanto alla Torah orale, non ti credo. Fa di me un proselito, a condizione di non insegnarmi che la Torah scritta». Ma Shammaj sinfuriò contro di lui e lo cacciò via con ira. Il pagano si presentò allora ad Hillel, e questi fece di lui un proselito. Il primo giorno Hillel gli insegnò: «Aleph, bet, gimel, dalet» (le prime lettere dell’alfabeto ebraico). Lindomani gliele presentò nellordine inverso. Il pagano gli disse: «Ma ieri non mi hai detto questo!». Hillel allora gli disse: «Non hai dunque fiducia in me? Fammi fiducia anche per quanto concerne la Torah orale». Avvenne di nuovo che un pagano si presentò da Shammaj e gli disse: «Fa di me un proselito, a condizioni di insegnarmi tutta la Torah mentre sto in piedi su una gamba sola». Ma Shammaj lo cacciò via con un bastone da geometra che teneva in mano. Si presentò davanti a Hillel, e questi fece di lui un proselito. Hillel gli disse: «Ciò che è odioso a te, non farlo al tuo prossimo: questa è tutta la Torah, e il resto non è che commento; va e studia». Qualche tempo dopo, questi pagani divenuti proseliti si incontrarono in uno stesso luogo e dissero: «Limpaziente intransigenza di Shammaj ha voluto cacciarci dal mondo, ma lumile pazienza di Hillel ci ha avvicinati e ci ha condotti sotto le ali della Presenza Divina (shekhinah)» (TB Shab. 30b-31a )».

In questi racconti si ritrovano, anticipati nel magistero di Hillel, elementi tipici della fede cristiana come appunto l’apertura ai non ebrei e persino uno tra i più importanti insegnamenti di Gesù «Ciò che volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Luca 6,31). Ma, come è evidente, alla continuità si affianca anche una certa discontinuità che è, però, una nuovo senso, un approfondimento, un compimento definitivo. Mentre Hillel insegna al negativo, «non fare al prossimo ciò che non vuoi sia fatto a te», Cristo insegna al positivo, « fai agli altri ciò che vuoi sia fatto a te».

Continua il testo in questione:

«Il nome di Hillel, oltre che alla singolare formulazione della cosiddetta regola doro che troviamo nel brano citato più sopraCiò che è odioso agli altri, non farlo a te»), è associato ad altre sentenze, alcune dinnegabile fascino. Ne riportiamo alcune, fra le più significative: «Hillel dice: ‘Sii dei discepoli di Aronne, uno che ama la pace e persegue la pace, che ama le creature e le avvicina alla Torah’ ». Egli soleva dire: «Chi si fa un nome perde il suo nome, e chi non accresce diminuisce. Chi non studia merita la morte, e chi si serve della corona (ossia: chi accumula denaro attraverso linsegnamento della Legge) perisce». Era solito anche dire: «Se non sono io per me, chi è per me? E quandanche io fossi per me, che cosa sono io? E se non ora, quando?» (…). Hillel dice: «Non separarti dalla comunità, non fidarti di te stesso fino al giorno della tua morte, e non giudicare il tuo prossimo finché non ti sei messo al posto suo. Non dire che una cosa non si può capire, perché infine sarà capita; e non dire: Studierò quando avrò tempo, perché forse non ne avrai mai tempo». Egli soleva dire: «Un incolto non teme il peccato, e un popolano (‘am ha-aretz) non può essere santo. Il vergognoso non impara, liracondo non insegna, e chi si dà troppo al commercio non diventa sapiente. Dove non ci sono uomini, sforzati di essere un uomo» (M. Avot 1,12-14; 2,5-6). Gli amei ha-aretz nominati nel brano (letteralmente «uomini della terra», nome col quale sindicavano probabilmente i contadini e gli uomini privi distruzione o di peso sociale), saranno tra i principali destinatari delle beatitudini di Gesù. Le fonti attribuiscono a Hillel anche disposizioni di carattere giuridico, come il prosbul (una misura che regolava la cancellazione dei debiti durante lanno sabbatico, dal greco prosbolē), … Il principio che anima tutta letica di Hillel è lamore per la Torah: un curioso aneddoto, tramandatoci sempre dalla Mishnah, ce lo descrive povero, ma talmente zelante nello studio da spendere metà del proprio salario per accedere al bet ha-midrash (la casa di studio). La volta in cui si trovò squattrinato, e il custode non gli permise di entrare, Hillel «si aggrappò alla finestra e si sedette fuori per ascoltare le parole del Dio vivente spiegate da Shemajah e Abtalion. Narra la tradizione che quel giorno era una vigilia di Shabbat, nel cuore dellinverno, e la neve cadeva abbondantemente. Allo spuntare dellalba Shemajah disse ad Abtalion: ‘Collega, di solito la stanza è chiara, ma oggi è buia; forse è nuvolo’. Alzarono gli occhi alla finestra e videro una forma umana. Uscirono e lo trovarono coperto di tre cubiti di neve. Lo tolsero da quella posizione, lo lavarono e gli fecero frizioni, e lo misero davanti al fuoco, dicendo: ‘Questuomo merita che per lui si profani il Shabbat’ » (M Jom. 35b)».

Anche qui ricorrono alcuni elementi che ritroviamo nella predicazione di Gesù dal «non giudicare il prossimo» («Perché guardi la pagliuzza che è nellocchio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo?» Luca 6,41) al «sabato per luomo e non luomo per il sabato». Ma anche qui il senso che Cristo dà a questi insegnamenti è ben più profondo. Cristo porta a compimento tali insegnamenti svelandone l’essenza più intima, quella davvero salvifica, ed indicando nell’Amore di Dio e del prossimo il cuore stesso, e l’adempimento per Grazia, della Legge.

«Che linsegnamento di Hillel – continua il nostro testo – fosse improntato a una certa indulgenza, mentre quello di Shammaj a unintransigenza rigorosa, lo si evince dal trattamento chessi riservarono, secondo le fonti, ai proseliti. Davanti al problema delloccupazione romana e della convivenza con i «pagani», ad esempio, Hillel si dimostra sempre acquiescente, disponibile al dialogo (…). Il senso di moderazione dimostrato da Hillel nei confronti degli esterni, tuttavia, nella scuola di Shammaj appare spesso rivolto agli «interni». Semplicemente considerando i casi riportati da Frédéric Manns …, lindulgenza che Shammaj rivela di fronte alle classi sociali del mondo antico svantaggiate per eccellenza i poveri le e donne - supera di gran lunga quella di Hillel. Ai passi in cui Shammaj e i suoi discepoli prendono le difese dei meno abbienti per esesmpio quando sostengono che i beni abbandonati devono essere destinati a costoro, e non spartiti indistintamente, come sosteneva Hillel - andrebbero quindi affiancate tutte le disposizioni a favore delle donne. Il senso di giustizia di Shammaj, del resto, è comprovato dalla sua opposizione al matrimonio coatto delle fanciulle (confronta 1Corinti 7,25!): «È ben nota scrive F. Manns la ferma presa di posizione di Shammaj a proposito del divorzio: se la donna non è colpevole di cattiva condotta, il marito non la può ripudiare senza il suo consenso; Hillel accetta invece il divorzio anche per un motivo così futile come una pietanza bruciata (M Gitt. 9,10)… Nelle discussioni su questioni matrimoniali con esponenti della scuola di Hillel, Shammaj e i suoi discepoli prendono sempre le parti della donna». Sono tutti elementi, questi, che gli esegeti e gli storici non mancano mai di considerare, affrontando i passaggi delle lettere in cui lapostolo (Paolo) riflette sulla disciplina delle relazioni matrimoniali (come nel capitolo settimo della prima lettera ai Corinzi)».

E’, qui, ancora necessario rimarcare la continuità/novità tra l’ebraismo del I secolo e la fede cristiana. Se, dunque, Hillel era aperto al mondo non ebraico, Shammaj invece era più indulgente verso i poveri e le donne. Elementi, questi – l’apertura ai non ebrei, l’amore verso i poveri e la valorizzazione delle donne -, che ritroviamo anche nella predicazione di Cristo. Ma – ecco la straordinaria novità cristiana! – non più separatamente e quasi in contraddizione, secondo le tendenze di ciascuna scuola, ma omnicomprensivamente, tutti insieme in una unità vitale, fondata sulla Grazia, che li lega inscindibilmente.

Nel comandamento nuovo «Amatevi gli uni gli altri» (Giovanni 15,17) è tutto compreso, dall’amore verso i non ebrei all’amore per i poveri e tra uomini e donne. Perché nessuno può dire di amare Dio se non ama il prossimo suo.

Luigi Copertino


Fine terza parte (di sei)

Ebraismo e cristianesimo (parte I)

Ebraismo e cristianesimo (parte II)
Ebraismo e cristianesimo (parte IV)




1
)
Confronta l’intervista di Giovanni Ricciardi a Fabrizio Fabbrini apparsa in 30 giorni, aprile 2003.
2
)  Fabbrini, nella predetta intervista, ricorda che: «Pietro era di Betsaida, che al tempo di Gesù apparteneva al territorio della Gaulanitide, governato da Filippo, sovrano anche dellIturea e della Traconitide, e si trovava in una zona di forte presenza greca: la regione era chiamata nella Bibbia «Galilea delle genti», espressione che indica un territorio abitato prevalentemente da pagani, da greci. Era in effetti una zona quasi totalmente ellenizzata, a partire dalla dominazione ellenistica sulla Palestina, con i Tolomei prima, con i Seleucidi poi. In quel territorio la lingua dominante era il greco. Inoltre il greco era in uso negli scambi commerciali e nelle transazioni scritte, che non potevano essere assenti tra persone che vivevano di pesca e sulla pesca avevano impostato aziende commerciali. Inoltre il nome originario di Pietro, Simone, lascia trapelare un contesto culturale ellenizzato: si tratta di nome greco, non aramaico, già attestato nelle Nuvole di Aristofane; il nome Simeone, ad esso affine, è traslitterazione aramaica di Simone. Ed è greco anche il nome degli apostoli Andrea, fratello di Pietro, e Filippo, anchessi di Betsaida. Perché allora meravigliarsi del fatto che Pietro, oltre alla lingua materna, laramaico, potesse conoscere il greco? Del resto anche le comunità ebraiche sparse nel territorio dellImpero, cui la prima predicazione cristiana si rivolgeva, erano formate in prevalenza da persone che parlavano greco».
3
) C’è chi, in proposito, ha obiettato che anche durante l’esilio babilonese la regalità di Giuda fu spazzata via. In realtà le cose non stanno in questi termini. Come scrive il Liebi «Anche durante la cattività babilonese lidentità nazionale di Giuda non sera sfasciata, giacché tale tribù fu in un certo senso solo spostata geograficamente come nazione. Da Ezechiele 8,1 e 20,1 si ricava che pure in quel periodo Giuda ebbe una guida politica. La tribù passò semplicemente, da tale momento, sotto il dominio straniero». Lo aveva osservato già Pascal: «Lo scettro non fu interrotto dalla cattività di Babilonia, perché il ritorno era promesso e predetto. Quando Nabucodonosor condusse via il popolo ebreo… essi furono sempre confortati dai profeti, i loro re continuarono».
4
) Il testo della Kalenda, in questione, proclama la nascita di Cristo nell’anno 752 dalla fondazione di Roma e nel 42° anno dell’impero di Ottaviano Augusto: l’Ara Pacis Augustae, che celebrava a Roma il mondo finalmente in pace, fu consacrata ufficialmente nel 9 avanti Cristo, ossia alla vigilia della nascita di Gesù che avvenne, con probabile certezza, nel 7 avanti Cristo.
5
) Sul sito www.letterepaoline.net, 4 marzo 2009.
6
) Dall’opera che stiamo utilizzando: «Il nome del maestro di Paolo, Gamaliel, viene chiamato in causa nella narrazione di Atti del processo intentato dal Sinedrio nei confronti degli apostoli, arrestati per ordine del sommo sacerdote e dei suoi aderentila setta dei Sadducei»). Secondo il testo, «allora si alzò nel Sinedrio un fariseo di nome Gamaliele, dottore della Legge, onorato da tutto il popolo, e richiese che quegli uomini fossero condotti fuori un momento. Poi disse loro: ‘Israeliti, riflettete bene su ciò che state per fare riguardo a questi uomini (gli Apostoli). Infatti tempo fa venne fuori Teuda, che si spacciava per un personaggio straordinario e gli andò dietro un gran numero di uomini, quasi quattrocento. Ma quando fu ucciso, tutti i suoi aderenti furono dispersi e si ridussero a nulla. Dopo di lui saltò fuori Giuda il Galileo, nei giorni del censimento, e trascinò il popolo dietro di sé. Ma anche egli finì male, e tutti i suoi aderenti furono dispersi. Ora dunque io vi dico: Non impicciatevi di questi uomini, e lasciateli fare. Perché se questo è un progetto o unimpresa messa su dagli uomini, sarà distrutta; ma se viene da Dio, non potrete annientarli: guardatevi dal farvi trovare in lotta con Dio!’. Si attennero al suo consiglio e, fatti chiamare gli apostoli, li fecero percuotere e comandarono loro di non parlare più nel nome di Gesù. Quindi li rilasciarono» (Atti 5,34-40). Lintervento di Gamaliel, che lautore degli Atti presenta assai favorevolmente, è improntato a grande prudenza ed equanimità: in questo si dimostrerebbe coerente con latteggiamento generale della Casa di Hillel. Il fatto che la narrazione lucana abbia riportato questepisodio decisivo per le sorti del movimento dei primi seguaci di Gesù è una riprova della continuità che lega la vicenda di Paolo al fariseismo. Pare assodato, infatti, che lapostolo non abbia mai voluto rinnegare le proprie radici farisaiche, né che si sia posto nei confronti di esse in termini di pura e semplice dialettica negativa. Lo studio dellamericano John Neyrey, ‘Paul, in Other Words. A Cultural Reading of His Letters’, Louisville, 1990, conferma la preoccupazione paolina, di matrice farisaica, per le categorie dellordine, della gerarchia, delle norme di purità, anche dopo la svolta della chiamata alla conversione, in cui egli prende coscienza - per dirla con Erik Peterson - del proprio ruolo di «apostolo» (ossia inviato) «dai Giudei ai Gentili». Paolo non pensò mai di abbandonare le coordinate ermeneutiche ed etiche ricevute dalla propria educazione, né avrebbe avuto motivi per farlo. Sintende che non tutto Paolo derivi da qui (la halakhah dellapostolo è occasionale, non sistematica, e in molti casi deriva dallelaborazione di Gesù e dei suoi primi discepoli), ma buona parte delle aspre discussioni che hanno impegnato gli studiosi in età moderna riguardo alle considerazioni paoline sulla Legge, come vedremo, sono state ridimensionate proprio dal recupero di una retta comprensione «intra-ebraica» del suo messaggio».


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