Rottami del passato... e del futuro?
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La netta vittoria di Matteo Renzi nella corsa alla segreteria del Partito Democratico segna una svolta forse epocale nella storia politica dell’Italia repubblicana, svolta che non è stata sufficientemente enfatizzata. È la fine davvero del vecchio Partito Comunista Italiano, la rottamazione di una formazione politica, capace lungo tutto il dopoguerra, grazie alla straordinaria abilità, cinismo e spregiudicatezza del suo leader Palmiro Togliatti prima e dei suoi successori poi, di far coesistere, nel clima della guerra fredda, utopia e realismo dentro la nazione più esposta dell’Occidente e più densa di contraddizioni ideologiche, politiche e geopolitiche.

Piaccia o meno il Partito Comunista Italiano è stato per lungo tempo il modello di riferimento di tutti i Partiti Comunisti dell’Occidente, la quinta colonna più avanzata ed intelligente di quella strategia gramsciana di conquista della «società civile» (prima che del Palazzo d’Inverno), che il PCUS «criticamente» sdoganò come una sorta di necessario «riformismo rivoluzionario» e la dirigenza comunista rivendicò come espressione della propria autonomia da Mosca.

Tutto ciò portò il Partito Comunista ad essere sempre ad un passo dal potere, senza mai volerlo/poterlo conquistare fino in fondo davvero. Partito di lotta e di governo, di rivoluzione dichiarata e di mediazione continua, questa ambivalenza era per il Partito Comunista prima ancora che una strategia o una necessità di sopravvivenza una vera e propria «forma mentis». Durante i vituperati «trent’anni di malgoverno democristiano» il PCI approvava sottobanco l’85% delle leggi.

Il Partito Comunista in Italia era in grado di fare coesistere in maniera raffinatamente cinica il massimalismo leninista ed il migliorismo pragmatico, il collettivismo dei principi e l’utilitarismo imprenditoriale dei colossi cooperativi, il moralismo più intransigente e l’invadente e imbarazzante presenza del «collateralismo cooperativo» nella stragrande maggioranza degli appalti pubblici, l’euro socialismo e i finanziamenti da Mosca, un centralismo democratico rigidissimo e una partecipazione di base molto ampia.

Il Partito Comunista Italiano era «il Partito», così come la Cgil era «il Sindacato» e l’Inca «il Patronato». Il «Partito» era il decisore collettivo, onnipresente pur se silenzioso, spietato e paternalista, capace di offrire protezione e di incutere terrore, il cui capolavoro politico nelle zone in cui esercitava il potere a livello locale era non solo di plasmare la propria classe dirigente ed il proprio popolo, ma anche di definire il profilo delle proprie opposizioni.

Alle opposizioni, infatti, il Partito Comunista Italiano era sempre capace di offrire scampoli residui di potere, purché queste ne accettassero supinamente l’egemonia e ne legittimassero quindi la pretesa democratica. Nei confronti degli irriducibili c’era invece la strategia di annientamento, in qualche periodo della storia anche fisico.

Il Partito Comunista era figlio di un’ideologia (e in parte di un’epoca) in cui non c’era spazio per l’individuo, ma solo per il soggetto collettivo, in cui non c’era spazio per la comunità, ma per la collettività, in cui non c’era spazio per il popolo (soggetto potenzialmente «reazionario»), ma per il proletariato, cioè per quel popolo che aveva assunto «coscienza di classe», trasformando il proprio essere naturale in essere culturale, sostituendo alle proprie credenze tradizionali la nuova ideologia rivoluzionaria.

Il Partito Comunista italiano è stata una cosa drammaticamente seria, una vera e propria forgia di personalità prima di tutto umane che politiche, formate all’idea che il Partito stesse al di sopra delle persone e ne fosse sintesi non solo delle aspirazioni, ma ben vedere delle vite stesse.

Chi era del PCI, lo era in tutto: i vecchi dirigenti del PCI conducevano una esistenza mediamente grigia, senza troppo spazio alla esuberanza della personalità, in attesa sempre - prima di prendere posizione - della direttiva del Partito. Perlopiù vivevano una vita sobria, appena un po’ più agiata della media di coloro che erano chiamati a dirigere o ad amministrare ed erano oggetto di vaglio profondo da parte del Partito anche nella vita personale. Qui in Emilia, dove vivo io, oggi magari con qualche imbarazzo qualcuno ricorda ancora dei rimproveri che il Segretario di Sezione era solito muovere nei confronti di qualche «compagno» un po’ intraprendente nei confronti della moglie di qualche altro «compagno»: un certo «gallismo» era magari visto con paternalistica benevolenza e talvolta ironica invidia da parte dei vecchi dirigenti del partito, ma sempre tenuto a bada, per non compromettere l’immagine di un Partito che, ricordiamocelo, doveva tranquillizzare la coscienza di «padri e madri», i quali, pur se divenuti comunisti restavano dentro di sé legati ai «valori piccolo borghesi della famiglia».

Il Partito era molto attento a questi aspetti, tanto che non cavalcò, se non quando era convinto che la battaglia si sarebbe vinta, la campagna radical-socialista a favore del divorzio. Il Partito era un elemento di stabilizzazione della vita ed era tutto: ti garantiva il lavoro, lo svago, il futuro tuo e dei tuoi figli, un ideale per il quale vivere ed un’anima nel quale non credeva. Il prezzo era una tessera, il volontariato alle feste dell’Unità, l’abbonamento all’Unità, la partecipazione alle assemblee e alla vita della cellula, la fedeltà alla linea politica e soprattutto la disponibilità a pensare come lui voleva.

…poi, un po’ come il Grande Fratello, chiedeva non solo di obbedirgli, ma di amarlo… il partito!
E, straordinariamente, è proprio in questo «sentimentalismo borghese» che il Partito Comunista Italiano divenne ciò che è stato: il rapporto tra il Partito e i «compagni militanti» è stata spesso una storia d’amore e di passione, che sola può spiegare l’infinito psicodramma di quel popolo lungo il quarto di secolo che separa l’oggi dalla caduta del muro di Berlino. Chi ha vissuto quella esperienza forse non avrebbe mai saputo vivere senza quel «Grande Fratello», che ad un tempo lo opprimeva e lo proteggeva.

Inoltre, seppure molto lontano e relegato nella sfera di un tempo e di uno spazio quasi escatologici, stava la «chiesa madre» di Mosca, il socialismo reale, quello di cui, senza averne fatto esperienza, si diceva ogni bene, perché così raccontavano i dirigenti che tornavano dai viaggi/pellegrinaggi organizzati dal partito in Unione Sovietica, raccontando le meraviglie che erano state fatte loro vedere (e ignorando ovviamente la terribile realtà concentrazionaria dei Gulag): lo straordinario Guareschi, ne «Il compagno Don Camillo» descrive sublimemente questa voglia di credere anche in quello che non si è visto e di trasformare, attraverso la narrazione, ciò che era un incubo in un sogno radioso.

L’anticomunismo è una merce da discount di bassa lega, se non si tiene conto della complessità del comunismo italiano, è una merce che può anche rendere politicamente (come ha dimostrato Berlusconi), ma che non fa completamente giustizia e non descrive completamente la verità. Il Partito Comunista Italiano ha avuto per esempio il grande merito di non disperdere il patrimonio civico che secoli il Cristianesimo avevano inculcato nella gente ed è stato capace di raccogliere quello spirito «corporativo» che era proprio di molte parti del popolo cattolico, forgiandolo poi a misura dei propri interessi.

Inoltre fu in grado, mutuando in questo la precedente esperienza sviluppatasi durante il Fascismo, di realizzare anche una vasta rete di protezione sociale e di sviluppo eteroguidato.

In questo senso il Partito Comunista era un partito elitario, avanguardista (leninista appunto!), un partito nel quale la classe dirigente era burocraticamente selezionata secondo percorsi prestabiliti e tappe obbligate: i giovani venivano vagliati nei gradi progressivi delle amministrazioni locali, i migliori andavano alle Frattocchie (la scuola di formazione dei quadri), ove imparavano non solo i rudimenti del mestiere, ma anche e soprattutto l’arte della mediazione politica, della disciplina, della dissimulazione, della doppiezza e soprattutto della lealtà al partito.

Usciti dalle Frattocchie (o da una qualsiasi cellula del partito, perché in piccolo quel modello era ripetuto ovunque), i funzionari erano servitori leali, in grado di interpretare a memoria nel terreno in cui erano posti le direttive elaborate all’interno di infinite discussioni, dalle quali usciva, categorica e vincolante per tutti, la linea politica, nell’accettazione comune di quell’ «uniforme-dialettico» che, con mirabolante terminologia, era definito il «centralismo democratico».

Gli estenuanti dibattiti interni, che si svolgevano fin nelle più piccole sezioni del partito, altro non erano che lo strumento per ricondurre il pensiero di tutti ad una visione unica, che era peraltro quasi sempre già stata dettata dall’alto, come dall’alto era scelto il segretario, la cui elezione non era affatto il frutto di uno scontro tra correnti o posizioni contrapposte, quanto la calibrata mediazione tra le molte tesi e i molti funzionari di partito, di cui quello prescelto era considerato il migliore interprete della strategia da seguire.

Non c’era spazio per il carisma in sé, visto anzi come pericolosa attitudine personalistica e di cui le stilettate nei confronti del protagonismo di Matteo Renzi da parte della corrente dalemiana ne sono state un esempio lampante. Il carisma (casomai potesse emergere in un contesto del genere) era il frutto accidentale di una natura che si sovrapponeva ad un processo culturale, già in grado di selezionare anche antropologicamente l’uomo adatto a guidare il partito e spesso era un carisma riconosciuto solo a posteriori: quello di Enrico Berlinguer è un carisma che si sviluppa successivamente alla sua morte per il modo in cui egli tragicamente morì, prima di vedere di lì a qualche anno il fallimento in realtà della propria strategia politica di fronte all’arrembante iniziativa di Bettino Craxi

Accanto al rosso fiammante, il colore predominante all’interno del Partito Comunista doveva essere istituzionalmente il grigio, un colore in grado di contenere come un enorme alveo di cemento il magma incandescente dello spirito rivoluzionario, che, lasciato a se stesso nell’esperienza socialista di inizio secolo, era inevitabilmente sfociato nell’ «eresia fascista».

Questa struttura ha fatto sì che il Partito Comunista Italiano sopravvivesse alla propria morte politica e trasferisse tutta la forza del proprio apparato anche al di là del crollo del comunismo: il travaglio nel passaggio dal Partito Comunista al Pds, le lacrime dell’allora segretario Occhetto, lo smarrimento dei militanti, lo psicodramma successivo che abbiamo visto recitare in tanti e tanti congressi e in molte, troppe sconfitte elettorali, l’autocoscienza collettiva e la volontà di riprendersi il futuro, la difesa ad oltranza di posizioni spesso antistoriche, l’incapacità di annichilire l’avversario con un colpo diretto (come è accaduto con Berlusconi), di sposare contro di lui tesi massimaliste e giustizialiste in prima persona, delegando alla magistratura il suo annientamento e ad una forza extraparlamentare, cioè «i 5 stelle», l’esecuzione della sua condanna a morte politica, l’ennesimo tentativo di vincere con le proprie vecchie bandiere e con i propri uomini (come è accaduto quando è stato incoronato Bersani) sono solo la testimonianza di una storia complessa, articolata, contraddittoria, dolorosa, in cui centinaia di migliaia ed anzi milioni di persone si sono per molto tempo riconosciuti, delegando a qualcuno più grande di sè la capacità di interpretarla quella storia, persino affidandovi una parte della propria vita.

Il trionfo di Matteo Renzi di domenica scorsa, l’affermazione sorprendente di Pippo Civati e il mesto spiaggiamento della grigia signorilità di Gianni Cuperlo sono lì a certificare la fine di tutto ciò. Il Partito Comunista Italiano, che era riuscito a sopravvivere a se stesso, «sversandosi» nel Pds, che aveva tentato il processo di «social-democratizzazione labourista» con l’esperienza dei DS e che con la nascita del partito democratico aveva pensato forse di ripetere con mezzo secolo di ritardo l’esperienza dei cosiddetti «governi democratici» (con i quali tante volte aveva preparato la propria ascesa al potere), domenica 8 dicembre ha invece celebrato il proprio funerale in maniera probabilmente definitiva.

Ciò che era rimasto del vecchio popolo comunista (lo stesso che all’indomani del crollo del muro di Berlino non aveva voluto consegnare la propria storia al progetto di «unità socialista» di Bettino Craxi, pensando di camuffare la propria identità in un modello socialdemocratico senza fare i conti con «il socialismo reale» del Psi craxiano) dopo avere inanellato una incredibile serie di rovesci politici, ha deciso per la prima volta, insieme con i giovani che un po’ alla volta sono arrivati, di dire basta alla vecchia guardia.

Ma – sottolineiamolo – la vittoria di Matteo Renzi non è prima di tutto la vittoria di questi nuovi arrivati, è una vittoria che è stata consegnata proprio dai vecchi militanti ad un uomo che non proviene dalla vecchia tradizione comunista. Di fronte all’emergere della spinta populista e della progressiva richiesta di democrazia diretta, la liturgia della risposta ponderata e della mediazione politica è apparsa inascoltabile perfino alle orecchie di molti di quei vecchi militanti che per anni avevano (possiamo dirlo?) «creduto, obbedito, combattuto».

La vittoria di Matteo Renzi è stato un ammutinamento delle truppe, uno scrollarsi di dosso il proprio passato, la voglia di gettarsi alle spalle una vita fatta di «onorevoli sconfitte», l’intolleranza verso una classe dirigente che è apparsa per la prima volta «la casta» dentro il partito.

Questa stessa vecchia generazione ha con un voto di massa (perché i voti di Cuperlo sono invece perlopiù i voti dell’apparato!) incredibilmente dato in mano ad un ragazzo di origini democristiane la propria storia di «vecchi comunisti», gli ha consegnato il potere di «giustiziare» la vecchia classe dirigente che li aveva fin qui guidati a «inenarrabili sconfitte» e soprattutto gli ha dato il potere di «rottamare anzitutto il Grande Fratello» che aveva «oppresso e protetto» ad un tempo la loro vita.

Perché – sia chiaro! – senza grosse risorse finanziarie quel modello di Partito non potrà più esistere: l’adesione di Matteo Renzi alla proposta di eliminare il finanziamento pubblico ai partiti non è solo la volontà di non farsi scavalcare a sinistra da Grillo ed anzi di lanciargli la sfida sul suo stesso terreno, ma la lucida consapevolezza che, senza un apparato costoso, quel vecchio partito, che lui ha combattuto e rottamato a forza, non potrà mai più esistere, né risorgere, come ben dimostrano le esperienze marginali dei vari movimenti neocomunisti usciti dal Pds-DS e, ovviamente, incapaci di esistere grazie solo alla vendita solo delle «salamelle» presso gli stand di qualche festa fatta ad imitazione della vecchia festa dell’Unità…

E si sa che, anche quando la Festa dell’Unità era una cosa colossale, non bastavano quegli introiti a mantenere l’ apparato: c’erano prima i soldi Mosca, poi, oltre al finanziamento pubblico, quei finanziamenti «anomali», di cui i magistrati hanno voluto seguire le tracce, ma senza oltrepassare la porta di Botteghe Oscure e di cui l’ «il silenzio eroico « del «compagno G.» in cella ha custodito i segreti.

La feroce rabbia con cui Massimo D’Alema ha combattuto la sua battaglia contro Renzi, immolando in una competizione senza speranza il povero Gianni Cuperlo, lo scontro che avverrà sulla gestione delle casse del Partito, l’immediato nullaosta di Renzi alla abolizione del finanziamento pubblico nascono tutti dalla consapevolezza che non si può essere gli eredi del vecchio Partito Comunista, senza i soldi del vecchio Partito Comunista, quelli che fino ad un certo momento erano stati garantiti da Mosca, quelli poi del «generoso collateralismo» cooperativo, che la depenalizzazione bipartisan del reato di finanziamento illecito aveva messo al riparo da imbarazzanti inchieste penali, quelli che infine erano garantiti dalla nuova forma di finanziamento ai partiti, spacciata come rimborso elettorale.

La forza del vecchio Partito Comunista, di cui D’Alema è certamente uno degli esponenti più lucidi ed intelligenti (e che da vecchia volpe della politica deve aver insistito con Cuperlo per accettare almeno la Presidenza del Partito), stava nella struttura, nel suo apparato, di cui la vecchia dirigenza era orgogliosissima, nella convinzione che tutto ciò era necessario per «non rendere elitaria la politica».

D’Alema in fondo condivide l’idea di Craxi che la politica costi, così come per la vecchia base comunista (che diceva in realtà ciò che anche i vertici pensavano) «se i soldi vanno al partito» anche la tangente era un peccato veniale: per i teorici della «superiorità morale dei comunisti» il torto di Craxi e dei suoi non stava nella tangente in quanto tale, ma nel fatto di rubare per sé e non per il partito.

Da parte di D’Alema vi è da sempre una opposizione quasi sprezzante nei confronti dei cosiddetti «partiti leggeri», dei partiti senza apparato, a bassa definizione politica. Quello che è stato definito snobismo dalemiano è in fondo nient’altro che una riedizione del vecchio elitismo leninista. Ma oggi, con buona pace di D’Alema, un partito vero, un partito come lo era il vecchio PCI, in una società liquida come la nostra non ha probabilmente più senso e soprattutto non può più esistere.

La grave crisi economica che sta attraversando il paese, che scuote dalle fondamenta la struttura delle maggiori imprese italiane, che ha terremotato anche le grandi cooperative rosse insieme all’occhiuta vigilanza della Rete e dei movimenti populisti, renderà probabilmente più difficile, se non quasi impossibile, attingere alle vecchie linee di credito e obbligherà il Partito Democratico, tanto più se davvero venisse abolita ogni forma di finanziamento pubblico ai partiti, ad alleggerire di molto il proprio apparato.

Ma senza quell’apparato, nel quale vivevano centinaia, anzi migliaia di funzionari di partito, il nuovo Partito Democratico avrà un volto non solo quantitativamente, ma qualitativamente diverso rispetto a ciò che fin qui è stato e perderà progressivamente le ultime vestigia che gli derivano dalla sua filiazione dal Partito Comunista.

Il Partito Comunista Italiano è sotto altre sigle sopravvissuto al crollo del comunismo perché era riuscito a conservare una struttura, sostenuta in maniera determinante negli ultimi anni dai finanziamenti pubblici, in un contesto in cui tutti i partiti, facendo finta di darsele di santa ragione, avevano concordato sulla strategia di spartirsi il bottino da un lato e di non farsi troppo male sui reciproci conflitti di interesse dall’altro.

Ciò ha generato un mare maleodorante di ambiguità, in cui il neo-consociativismo realizzato di fatto tra ex comunisti e Berlusconi dava ad entrambi ragione di esistere: anticomunisti contro comunisti ed antiberlusconiani contro Berlusconi era in fondo una riedizione in chiave minore e assai più pecoreccia del vecchio schema della guerra fredda, che tanti vantaggi aveva portato a suo tempo tanto alla Dc quanto al Pci.

La vittoria di Renzi è un rischio, un azzardo, un’autoriforma in extremis che il popolo della sinistra ha imposto a se stesso, senza probabilmente essere pienamente consapevole di ciò cui sta andando incontro: non dimentichiamoci che fu la glasnost di Gorbaciov a consentire che le crepe del comunismo si allargassero in maniera tanto veloce da determinare lo schianto del sistema.

In questo senso la sfida lanciata da Renzi a Grillo è un’inedita rincorsa verso «questo strano estremismo a 5 stelle», una rincorsa che non appartiene alla tradizione comunista e che può rischiare alla lunga di ingenerare un «mutamento d’animo» nel popolo della Sinistra, mutamento contro il quale da sempre la vecchia classe dirigente si era battuta, considerandola una pericolosa deriva verso sentimenti definiti «reazionari e populisti».

In effetti, se Renzi non riesce a vincere la sfida con Grillo e con tutte le nuove forme di insorgenza che si stanno manifestando, è molto probabile che alla fine porti molti dei suoi elettori a pensare che occorrono soluzioni più radicali di lui, che il nuovo PD non basta ed è possibile che una parte di questo elettorato possa non troppo sorprendentemente un domani, specie se la crisi dovesse acuirsi, decidersi a cambiare ancora, magari a votare dall’altra parte, a scegliere quei «pericolosi populismi» contro cui ha tuonato D’Alema: è ciò che in molte regioni della Francia sta succedendo con il voto che dalla Sinistra si sta via via progressivamente spostando verso il Front National di Marine Le Pen.

Ma la vittoria di Renzi, peraltro, toglie anche a Berlusconi un alibi straordinario, la possibilità di chiamare a raccolta le sue masse (spesso politicamente prive di una minima alfabetizzazione) nella battaglia contro il comunismo, la possibilità di evocare fantasmi per nascondere il proprio irreversibile declino e forse la propria condizione cadaverica. E a Berlusconi si può togliere tutto, anche il cane Dudù, ma non l’anticomunismo: senza anticomunismo Berlusconi è nulla.

Una cosa mi pare certa: nella battaglia tra centro-destra e centro-sinistra l’agenda politica è stata nonostante tutto in questi ultimi mesi dettata dal «populismo», di cui Grillo è occasionalmente, ma anche lucidamente sin qui, il migliore interprete.

La sua sola presenza ha obbligato il Partito Democratico ad un vero e proprio «parricidio» nei confronti della propria classe dirigente, a non poter più sfuggire all’ «omicidio politico» di Berlusconi, così abilmente e sistematicamente evitato per vent’anni quale migliore garanzia di sopravvivenza per i vecchi boiardi del partito, a iscrivere nel proprio programma le principali istanze di riforma istituzionale dettate da Grillo, a confrontarsi criticamente per la prima volta con serietà col progetto di adesione alla moneta unica, ad accelerare sui progetti di riforma anti-casta.

Futurista, postfascista, cibernetico, funambolico esponente di una democrazia diretta a metà strada tra Rousseau e Alain De Benoist, creativo interprete della capacità italiana di sintesi tra idee politiche contrapposte, Grillo, se sarà capace di selezionare una classe dirigente che non sia dello spessore di Vito Crimi o di altri «cri-cri» estratti dalla Rete, potrà continuare ad essere l’anima di una rivoluzione che l’Italia partorisce suo malgrado ed il cui primo frutto vero è stato, a ben vedere, quello di far «rottamare» da Renzi anche in Italia il comunismo, in un modo in cui non c’era riuscito né il crollo del muro di Berlino, né tanto meno l’omino di Arcore.

I prossimi mesi ci diranno fino a che punto Renzi inseguirà Grillo sul terreno dell’«antipolitica» o se, richiamato dalle sirene e dai rimproveri dei superstiti della vecchia guardia oltreché dai propri dubbi, timori, da qualche raffica di «fuoco amico» oltreché dai creditori del Partito, sarà risucchiato nella politica di sempre: la prima cartina al tornasole saranno davvero i 48.856.037,50 di rimborsi elettorali, cui dice di voler rinunciare.

Rifiutandoli davvero e da subito, senza trucchi e senza dilazioni, la sua rincorsa a Grillo sarà più agile e credibile, ma, ora che ha detto di volerlo fare, se non lo farà, qualunque sia la risposta di Grillo alle sue contro-condizioni (superare il Senato, abolire le Province, fare la nuova legge elettorale), dopo aver rottamato la vecchia guardia, diventerà lui stesso anche agli occhi dell’opinione pubblica rottame e rottamatore di sé.

Domenico Savino



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