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Il cardinale, il professore, il rabbino (Parte III)
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Il rabbino

Abbiamo già visto, nella prima parte di questo nostro intervento, come dalle parole del cardinale Kasper, che non sono proprio il massimo della chiarezza, è fatto intendere che la Chiesa non voglia più organizzare alcuna missione istituzionalizzata verso i «fratelli maggiori», giustificando questa affermazione con il richiamo paolino all’imperscrutabile disegno escatologico di Dio.
Questa «novità» cardinalizia cerca di far leva su una indiscutibile verità, ossia che la conversione degli ebrei è rimessa al disegno ineffabile di Dio.
Viene però dimenticato dal cardinale che questo disegno divino è già in atto e che in esso sono contemplate, purtroppo, anche le iniquità dell’Israele post-biblico il quale, stando alle affermazioni di molti Padri della Chiesa, che non possono considerarsi storicamente condizionate e pertanto superate, avendo rifiutato il Cristo si darà alla fine dei tempi in balia dell’Anticristo scambiandolo per l’atteso Messia.
Sicché è assolutamente vero affermare, come giustamente fa il cardinale Kasper, che la Chiesa non può sostituirsi a Dio nel decidere quando la conversione degli ebrei, o del loro resto, dovrà realizzarsi.
Quel che invece rimane ambiguo nelle parole del cardinale Kasper è proprio il negare che, nel frattempo, la Chiesa non possa e non debba organizzare un’attività di apostolato missionario verso gli israeliti.
Al contrario, la Chiesa in passato operò ampiamente anche nell’apostolato verso i «fratelli maggiori».
Certo, una cosa è rivedere i modi di tale apostolato rispetto a quelli praticati in passato, un’altra è negare la legittimità dello stesso per paura di urtare la suscettibilità ebraica.
Una ipocrisia ecumenicamente corretta che sfiora il tradimento del mandato conferito da Gesù agli apostoli sull’evangelizzazione di tutti - si sottolinei quel «tutti» - i popoli.
Ecco perché è insufficiente la sola ammissione della possibilità della mera testimonianza dei cristiani nei confronti degli ebrei.
Non meraviglia questa posizione poco chiara del cardinal Kasper laddove la si metta a confronto con quella che è propria, guarda caso, della comunità ebraica di Roma, come espressa per bocca del suo rabbino capo: il dottor Riccardo Di Segni, che ha avuto modo di chiarirla in una intervista ad un mensile cattolico (23).
Si tratta di posizione identiche.

In questa intervista il rabbino capo alla domanda su quale modo egli proporrebbe di riassorbire l’incomprensione con la Santa Sede circa la preghiera «pro judaeis», risponde così: «Una possibilità di componimento, su cui si sta lavorando, è quella di affermare che tutto rimanga nell’ambito della speranza escatologica e che occorre riportare l’espressione della preghiera a qualcosa di più vicino al senso che può avere nel famoso passo della Lettera ai Romani in cui San Paolo si esprime sulla salvezza di Israele. Dove la ‘pienezza della redenzione’ è rimandata alla fine dei tempi, cioè viene affidata al piano misterioso dei disegni imperscrutabili di Dio. E davvero di nessun altro. Per noi il dialogo non è finalizzato alla conversione dell’interlocutore».

Dunque a detta del rabbino Di Segni «si sta lavorando ad una possibilità di componimento».
Il che spiega molto bene le contestuali sortite di Kasper assolutamente identiche nel merito.
Israel Zolli dopo la sua conversione a Cristo affermò sempre di non aver cambiato fede ma di aver ritrovato l’autentico ebraismo, adempiuto e compiuto nelle sue più essenziali speranze, in Gesù Cristo.
Sarebbe bene che il Di Segni non dimentichi mai l’esperienza di Zolli, e di tanti altri ebrei che prima e dopo di lui si sono scoperti cristiani.
Eviterebbe, così, il rabbino capo di esprimere concetti temerari come quello secondo il quale «per noi il dialogo non è finalizzato alla conversione dell’interlocutore».
Un’affermazione che rivela l’attaccamento del Di Segni all’arcaico, tribalistico, benché con pretese universaliste, esclusivismo ebraico (noi siamo gli eletti e non abbiamo bisogno di altro) ed all’inevitabile senso di superiorità che può derivarne.

Benché Di Segni non abbia voluto parlarne nell’intervista, non possiamo non invitarlo a riflettere sul fatto che quel malinteso esclusivismo, facile ad assumere anche inconsapevolmente caratteri di vero e proprio suprematismo, e poco importa che nella migliore delle ipotesi sia dichiarato di tipo spirituale e non necessariamente politico, è oggi sfociato nel nazionalismo sionista e nella prassi etnocida dello Stato di Israele: esito, triste, che dovrebbe inquietare il cuore di tutti gli ebrei onesti (e sono tanti) e portarli a riconsiderare le proprie mal riposte speranze messianiche sulla pace globale che sarebbe dovuta conseguire al loro ritorno all’Eretz Israel.
Ritorno che, invece, ha aperto tragiche pagine di storia, ad iniziare dalla Nakba del popolo palestinese, e che rischia di gettare l’umanità - Dio non voglia! - in un’altra tremenda guerra mondiale.
Non era certo nei disegni di Dio che quel ritorno alla Terra Santa avvenisse con l’inganno, la violenza, l’espulsione di altri uomini dalle loro terre.
E’ diventato ormai sempre più evidente che il ritorno di Israele, per le modalità feroci e prevaricatrici con cui è avvenuto, non è affatto benedetto né legittimo agli occhi del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.

Di Segni può argomentare come argomenta nell’intervista cui facciamo riferimento perché egli nega il cristianesimo come ebraismo adempiuto e nega che il giudaismo post-biblico sia una sostanziale apostasia dalla autentica Fede di Abramo, adempiutasi per l’appunto in Cristo Signore.
Dobbiamo, ad onor del vero, riconoscere che il Di Segni, a differenza della nostra gerarchia in permanente orgasmo da ecumenismo a tutti i costi, si esprime con chiarezza quando afferma che non vi è altra possibilità di dialogo tra ebrei e cristiani se non quella sui «valori» e sulle cose pratiche da fare insieme.
Il Di Segni esclude ogni possibile intesa teologica: e su questo conveniamo con lui e, da semplici fedeli cattolici, vorremmo che la stessa chiarezza mostrata dal rabbino capo di Roma fosse propria anche ai nostri vescovi e cardinali.

Afferma il Di Segni: «Nel momento in cui ebrei e cristiani si aprono a parlarsi, la prima richiesta degli ebrei è che non si discuta di questi problemi (il rifiuto di Israele verso Cristo e la sua conversione, ndr): non potete cioè chiederci di sciogliere questo nodo. (…). Nel momento in cui riconoscessimo Gesù Cristo non saremmo più ebrei (un’affermazione assolutamente falsa come ha dimostrato Israel Zolli, ndr). Questo voi lo considerate diversamente, perché, per voi, così facendo, noi ebrei coroneremmo, completeremmo, idealizzeremmo il nostro percorso ebraico. Questa è la vostra visione, la nostra è completamente differente. Su tali argomenti non c’è spazio per la discussione, perché inevitabilmente si finirebbe… innanzitutto nell’inutilità sostanziale, almeno secondo noi. E si alzerebbero barriere invece di parlare. Dobbiamo dialogare, sì, ma per cento altri motivi. Il discorso sottostante alla preghiera del Venerdì Santo non è un tema qualsiasi, ma è una sorta di ombra, di storica angoscia che noi ebrei ci portiamo dietro».

Parole queste che fanno toccare con mano la verità di quanto Nostro Signore ha affermato, e con lui San Paolo, sulla cecità di questo popolo di «dura cervice» (espressione che del resto si ritrova persino nel Vecchio Testamento a condanna delle infedeltà di Israele al Dio dei Padri: il fatto che siano usate, in perfetta continuità tra i due Testamenti, anche nel Nuovo, sta ad indicare, ma Di Segni non se ne avvede, che la massima infedeltà di Israele a Dio è consistita nel rifiuto, temporaneo ma attuale, di Cristo).
Mentre chiede ai cristiani ciò che essi non possono concedere, ossia di non cooperare sin d’ora, con l’apostolato loro indirizzato, allo scioglimento, escatologico sì ma già in atto che lo vogliano o meno gli ebrei, del nodo della loro conversione, il Di Segni non sembra chiedersi come mai egli ed il suo popolo si portano dietro da duemila anni l’angoscia verso il Cristo e la Chiesa: un’angoscia che, quando le circostanze storiche lo hanno consentito, Israele non ha esitato un attimo a tradurre in aperta e feroce ostilità, e non solo nei primi anni del nascente, e perciò ancora debole, cristianesimo (e sia ben chiaro: hanno poi sbagliato i cristiani che hanno praticato a loro volta una sorte di «vendetta», contrariamente all’insegnamento paolino sulla misericordia da adoperare verso gli israeliti).

L’angoscia di Israele sta tutta nel presentire che in realtà la Promessa si è già del tutto adempiuta in Cristo e che esso, Israele, non è stato capace di avvedersene: «Quando fu vicino alla vista della città, pianse su di essa, dicendo: ‘Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace. Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi. Giorni verranno per te in cui i tuoi nemici ti cingeranno di trincee, ti circonderanno e ti stringeranno da ogni parte; abbatteranno in te pietra su pietra, perché non hai conosciuto il tempo in cui sei stata  visitata» (Luca 19, 41 - 44).
Di Segni si chiede: «E’ possibile che ogni volta che un cristiano e un ebreo si incontrano…  si ponga questo - cioè la nostra conversione - come primo argomento? E’ possibile che l’unica volta all’anno in cui la Chiesa prega per gli ebrei debba porsi questo problema?».
A noi piacerebbe che le nostre gerarchie, come ha fatto la Chiesa per duemila anni, rispondesse alle domande del Di Segni con uno schietto «Sì! E’ possibile, anzi è per noi un dovere affidatoci direttamente da Cristo Signore, porre sempre la questione non della vostra conversione ma dell’adempimento della vostra, attualmente deviata, ebraicità con il riconoscere che la Fede di Abramo si è adempiuta in Cristo Dio-Uomo».
Ecco perché è più che mai legittimo pregare in tal senso il Signore, benché, lo sappiamo, la conversione di tutto Israele è promessa escatologica (24).
Promessa, però, e non lo si ripeterà mai a sufficienza di fronte alla cecità dell’Israele post-biblico, già in atto.

Piuttosto, state attenti voi, «fratelli maggiori»: ci è stato, e vi è stato, rivelato che nella vostra attuale situazione di «rami recisi» dall’Olivo Santo della Rivelazione siete in costante pericolo di scambiare l’Impostore per l’atteso Messia!
Chiedetevi infatti se nella vostra convinzione di essere il «messia collettivo» deputato, con il ritorno in Terra Santa, a portare la pace al mondo non sia già in atto quel tragico inganno che vi farà scambiare l’Impostore, il Dajjal, l’Anticristo per il Messia.
La sacralizzazione dello Stato di Israele, l’aver assegnato alla sua fondazione nel 1948 il carattere di un evento messianico ed escatologico, non è forse il realizzarsi di quell’impostura?
Di Segni non esita, nell’intervista, ad utilizzare strumentalmente la storia per rinfacciare a noi cristiani le nostre colpe del passato e mostra la suo intervistatore un editto del 1625, firmato dall’allora vicario di Roma, Giovanni Garzia Villini, creato cardinale nel 1606, con cui si puniva con un’ammenda di venti scudi il giudeo che lasciasse entrare cristiani nelle sinagoghe.
E commenta il rabbino capo: i cristiani infrangevano le regole e gli ebrei erano puniti.
Ma il Di Segni, che a sua detta non è molto ferrato in questioni storiche, dimentica di inquadrare quell’editto nel contesto storico nel quale fu emanato e lo usa solo per suscitare il senso di colpa nei cristiani di oggi.
All’epoca in cui quell’editto fu promulgato la Chiesa era alle prese con le conseguenze della frattura luterana e, benché con la Riforma Tridentina fosse riuscita a superare la crisi luterana, non poteva non essere sospettosa di ogni tentativo di penetrazione ereticale all’interno dell’Ovile, per il semplice fatto che quel tentativo era all’epoca continuo e, prima del Concilio di Trento, era persino arrivato ad irretire i ranghi cardinalizi: poco mancò che l’eresia protestante balzasse sul soglio pontificio.

Ora, è evidente che in una simile situazione storica, e nel bel mezzo della guerra dei trent’anni, quell’atteggiamento sospettoso fosse più che umanamente giustificabile e fondato, sicché era inevitabile che esso colpisse anche le comunità ebraiche, le quali, dove potevano, appoggiavano apertamente, nonostante l’acceso antigiudaismo di Lutero, ogni effervescenza protestante nell’intento di abbattere l’odiato potere di «Esaù» ossia, secondo l’esegesi talmudica dell’Antico Testamento, l’odiato potere del Papato romano.
Si può moraleggiare fin quando si vuole sull’ingiustizia di comminare multe agli ebrei quando i cristiani, incuriositi, ficcavano il naso in sinagoga.
In realtà, è ben noto come, in epoche passate, come quella dell’editto mostrato dal Di Segni, spesso i rabbini cercavano, non per convertirli (giacché per il giudaismo non è possibile una «conversione» alla fede talmudica in senso tecnico) ma solo per avversione religiosa, di minare le basi della fede dei cristiani, approfittando, come fece d’altro canto Lutero, della assoluta impreparazione del popolino in materia teologica ed esegetica.
Quante volte eresie di vario genere hanno fatto leva sull’ignoranza religiosa del popolo cristiano! Succede anche oggi con i Testimoni di Geova.
Certo, molta responsabilità per tale stato di cose era, ed è, da addebitarsi all’incuria delle gerarchie nel preparare i laici e persino il clero.
Ai tempi del Concilio di Trento molti preti erano di un’ignoranza teologica assoluta.
Uno dei grandi meriti di quel benedetto Concilio fu anche quello di prendersi carico della preparazione catechistica del popolo cristiano.
Fu in quell’epoca che nacquero le scuole popolari parrocchiali ed i seminari per la preparazione dei sacerdoti.
Ecco perché, quell’editto, giustamente o meno, puniva gli ebrei: lo faceva nella comune convinzione del tempo, giustificata o meno che fosse, che da parte della sinagoga vi fosse un attacco alla fede dei semplici approfittando dell’ignoranza del popolo cristiano.

Nell’intervista, il Di Segni cita l’episodio dell’editto del 1625 per sostenere che la curiosità da parte cristiana verso le pratiche sinagogali non è cosa che nasce oggi.
Il nostro rabbino capo, infatti, spiega come attualmente molti cristiani sentano il «fascino» della sinagoga: «Ho visto che in varie parrocchie romane - egli ha affermato - circolano i formulari sulla nostra Pesach, che viene assunta e celebrata nella vostra liturgia pasquale. E ho udito anche che su questa pratica circolano da parte cattolica avvertenze allarmate… Più in generale, molti gruppi cristiani, cattolici ed evangelici, si caratterizzano proprio per l’assunzione di temi fondamentalmente ebraici, ma tutto si realizza riportando il segno all’immagine cristiana. Il risultato è uno strano prodotto, dal punto di vista liturgico, del confronto ebraico-cristiano…
Se noi ebrei dovessimo arrivare a reclamare per tali ‘appropriazioni’, allora dovremmo cominciare dalla messa, che era ed è la cena ebraica pasquale, cambiata nel suo stile e significato… Piuttosto, nella ricerca della propria identità è quasi naturale per un cristiano sentire il fascino dell’ebraismo. Ricevo numerose lettere da parte di cristiani e di sacerdoti: c’è chi si dichiara estasiato dall’ebraismo, e chi continua a non capire per quale motivo l’ebraismo non debba fondersi col cristianesimo, visto che sono la stessa cosa… Un giorno una suora con alcune sue discepole e amiche è venuta da me chiedendomi di assistere al rito in sinagoga. Ho detto certamente di sì, così un sabato mattina si sono presentate al tempio… Il servizio è terminato alle 11 e subito dopo il gruppo mi è venuto a salutare dicendo: ‘Questa mattina ci è sembrato di stare alle falde del monte Sinai’. Tutto ciò un tempo non sarebbe stato possibile…
».
Ed è a questo punto che Di Segni tira fuori, per mostrarlo al giornalista, l’editto del 1625.

A noi sembra che, visto quanto racconta lo stesso Di Segni e che testimonia la persistente ignoranza religiosa del popolo e del clero cristiano, persuasi che «l’ebraismo (post-biblico) ed il cristianesimo sono la stessa cosa», affascinati nella ricerca della propria identità dall’ebraismo post-biblico e che, assistendo al rito in sinagoga, credono di essere ai piedi del Sinai, quell’editto aveva visto giusto sul pericolo di apostasia dalla fede nel quale incorrono i cristiani quando entrano, teologicamente impreparati, a contatto con gli israeliti.
Non certo per colpa degli ebrei - sia ben chiaro! - sicché non è nostra intenzione auspicare il ripristino delle multe per il Di Segni che lascia entrare le suore in sinagoga.
Ma sicuramente per colpa dei cristiani di oggi: se il Tridentino aveva creato scuole popolari e seminari per la preparazione teologica dei cristiani, bisogna ammettere che il Vaticano II non ha fatto altrettanto nonostante tutto il blaterare sull’aggiornamento e sulla partecipazione dei laici alla vita della Chiesa.

Altrimenti non avremmo oggi sacerdoti che si chiedono perché ebraismo post-biblico e cristianesimo non si fondano e che subiscono il fascino della sinagoga.
Questi sacerdoti e laici hanno completamente dimenticato, ed anche questo è parte dell’apostasia preannunciata da Nostro Signore, che l’ebraismo attuale, il giudaismo post-biblico, talmudico, non è la Fede di Abramo, quest’ultima adempiuta da ed in Cristo, non è l’Olivo Santo, di cui parla San Paolo, non è la fede mosaica veterotestamentaria, ma è in rottura con essa, è «ramo reciso», è abbandono da parte dei «fratelli maggiori» della vera fede di Israele nell’attesa escatologica del riconoscimento da parte loro dell’errore e del loro ritorno all’Ovile, al Buon Pastore.
E’ fuor di dubbio che il cristiano, alla ricerca della sua identità senta il fascino dell’ebraismo: da sempre è così.
Ma, appunto, dell’ebraismo, quello vero, antico-testamentario, adempiutosi in Cristo: non della sua contraffazione rabbinica e talmudica!
Ogni cristiano, leggendo l’Antico Testamento vi ritrova l’annuncio del Cristo venturo: ecco perché non può che essere affascinato dall’ebraismo.
Ma l’ebraismo vero non è il talmudismo.

Per quanto riguarda, poi, la presunta appropriazione cristiana della cena pasquale ebraica lasciamo la parola a San Tommaso d’Aquino, al quale è attribuito l’ufficio della solennità del Corpus Domini (Sacerdos in aeternum), con la Messa Cibavit e l’Adoro Te devote.
L’inno Lauda Sion, recitato in tale ufficio come sequenza, con il sapiente linguaggio tipologico tradizionale della Chiesa di un tempo, canta: «In questa mensa del nuovo Re,/la nuova Pasqua della nuova legge all’antica Pasqua pone termine./ Il nuovo scaccia il vecchio, la verità l’ombra, la luce sopprime le tenebre./ (...) / E’ preannunziato nelle figure, con Isacco è immolato: è designato quale agnello pasquale, è dato qual manna ai padri».
Del resto, lo ammette anche Di Segni che l’Eucarestia è qualcosa di diverso rispetto alla cena pasquale ebraica, che della prima è, per l’appunto, solo prefigurazione, ombra, annuncio, privo di per sé di vero ed operativo effetto salvifico.

Piuttosto bisognerebbe ricordarlo a tutti quei cristiani che, come ha avuto modo di osservare il rabbino capo di Roma, mischiano liturgicamente la figura della cena pasquale veterotestamentaria, di per sé priva di Presenza, e la Realtà Viva della Presenza del Cuore di Cristo Palpitante sotto le Sacre Specie del Santissimo Sacramento Eucaristico.
La radice dell’avversione ebraica verso la preghiera cristiana per la loro conversione affonda in una prospettiva soggettivistica che porta l’ebraismo post-biblico a parteggiare per le posizioni protestanti e per il relativismo ecumenico.
Infatti, il Di Segni e la comunità ebraica di Roma non sono nuovi ad alzate di scudi contro atti del Magistero che ricordano l’Unicità della Mediazione Salvifica di Gesù Cristo e che pertanto si oppongono al relativismo ecumenico.

Quando fu promulgata, da Giovanni Paolo II, la Dominus Iesus fu proprio Di Segni, a nome dell’ebraismo italiano, a denunciare la pretesa cattolica di affermare che solo in Cristo l’umanità, compreso Israele, si salva.
Come è noto, quel documento del Magistero fu preparato dall’allora cardinale Ratzinger ed approvato da Papa Wojtila, il Pontefice più aperto verso i «fratelli maggiori» che la storia della Chiesa abbia mai conosciuto.
Ma, abituati agli accomodamenti diplomatici post-conciliari ed ignari del fatto che la Chiesa è guidata in primis non dagli uomini, pur dotti o santi, ma da Cristo in Persona, e che quindi lo Spirito Santo sa al momento opportuno, ossia quando è in questione il fondamento stesso della Fede, farsi sentire ex cathedra, gli ebrei furono presi in contropiede dalla Dominus Iesus.
Ecco perché, nell’intervista, Di Segni ricollega il problema posto dal Motu Proprio e dalla preghiera, pur riformulata, pro judaeis alla Dominus Iesus, facendo intendere che si tratta di un unico processo orchestrato dal «perfido» Ratzinger quasi opponendolo al «raggirato» Giovanni Paolo II, nello stesso modo in cui, nella vulgata corrente, sono stati opposti il Papa «buono» Giovanni XXIII al Papa «cattivo» Pio XII.

Di Segni, infatti, indica nel problema sotteso dalla preghiera pro judaeis della Messa Tridentina, ossia la missione verso gli ebrei, il punto cruciale «che è un tema fondamentale della Dominus Iesus» e propone, contro la posizione antirelativista di tale documento, una diversa idea della missione per la quale: «…se (si) intende ‘missione’ come ‘testimonianza’ alla verità alla quale si aderisce in coscienza, adesione alla quale nessuno dei due interlocutori si può, per onestà e per coerenza con la propria rispettiva fede, sottrarre, al limite si potrebbe anche digerire l’espressione che il dialogo è ‘missione’».
Come si vede è una proposta apertamente relativista che sottende una posizione soggettivista al modo di quella luterana.

Si noti poi la convergenza ideale con le affermazioni parallele del cardinal Kasper sulla missione come mera testimonianza: l’impressione che il tutto nasca da abboccamenti tra il rabbino ed il cardinale non è facilmente eludibile.
Che il Di Segni proponga una tale idea di missione non deve meravigliare se si tiene conto del fatto che la convinzione da cui egli parte è quella secondo cui al goym può essere concessa una legge di second’ordine, dal momento che il primato spirituale spetta solo ad Israele, e proprio per questo il goym non deve avanzare la pretesa di essere depositario della Verità.
Come dire: assoluta ed integrale fedeltà di Israele alla Torah, letta secondo il Talmud, laddove i gentili devono persuadersi, o essere sottilmente persuasi, della relatività di ogni fede.

Vorremmo che il lettore cattolico capisse che quanto abbiamo trattato in questo nostro lungo articolo è tema fondamentale per la fede cristiana, tema dalla cui risoluzione dipende, naturalmente a viste umane, il futuro stesso della nostra fede.
Ne sono perfettamente consapevoli anche il Di Segni ed il suo intervistatore cattolico Giovanni Cubeddu.
Infatti, l’intervista si chiude con una osservazione cruciale da parte di Cubeddu: «Che si preghi o no pro judaeis, il perdere di vista Gesù è più un rischio per la Chiesa che per l’ebraismo».
A questa giusta affermazione Di Segni, con sottile gaudio per la situazione nella quale versa oggi Santa Romana Chiesa, replica: «Sì, e noi vorremmo restare fuori dalle questioni proprie della Chiesa cattolica di oggi. Se però l’occasione di questa nostra discussione serve a far capire che, mentre si avverte il bisogno di ritrovare le proprie radici, si riconosce di vivere in un momento di confusione, allora questa crisi è positiva».

Lo diciamo a tutti i cattolici addormentati dalle nebbie dell’ecumenismo relativista: meditate, gente, meditate sulla «provocazione» teologica del rabbino capo di Roma.                                                                                                     

Luigi Copertino



23) Confronta Giovanni Cubeddu «Se tutto viene affidato a Dio anche il dialogo è più facile» in «30Giorni nella Chiesa e nel mondo», anno XXVI, numero 2/3, 2008. Si tratta di un’intervista al rabbino Di Segni, a seguito delle recenti polemiche di parte ebraica circa la preghiera per la conversione degli ebrei della liturgia tridentina ripristinata da Benedetto XVI. Le citazioni del rabbino che si faranno sono tratte da tale intervista.
24) Adempimento escatologico che riguarderà anche gli islamici perché tutti i figli della Rivelazione ad Abramo saranno ricondotti nell’Unico Universale Ovile di Nostro Signore Gesù Cristo. Del resto gli islamici attendono Cristo per la fine dei tempi  e pur senza attualmente presentirlo sarà in quel momento che essi, come tutti gli uomini degni della salvezza, ne riconosceranno la Divino-Umanità. Come per gli ebrei, magari per vie a noi ancora ignote, il disegno di Misericordia di Dio si sta già attuando anche per i mussulmani, come dimostra ad esempio la conversione di una giovane donna mussulmana a Cristo avvenuta partendo dalle stesse parole del Corano nei riguardi di Gesù («Parola che viene da Dio», «un Suo Spirito», «un Segno per le creature», «eminente in questo mondo e nell’Altro») che l’hanno convinta del fatto che per lo stesso Libro dell’Islam Gesù non è un mero profeta, come Maometto, ed ha nella Sua Persona, a differenza di Maometto, una duplice natura: Divina ed Umana. Insomma una conversione del cuore molto diversa da quella pubblicizzata, plateale e politica di Magdi Allam. Confronta Camille Eid «Mariam sfidò l’accusa di ‘apostasia’ » citando il Corano. Libano. Costretta a difendersi davanti ai magistrati: ha perso il lavoro, ma ha scelto il battesimo», in Avvenire del 25 maggio 2008.


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