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Monsignor Della Chiesa: La prima “Carta Pastorale alla diocesi di Bologna” (10 febbraio 1908)
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Pio X nomina vescovo Giacomo Della Chiesa (4 ottobre 1907)

Monsignor Giacomo Della Chiesa fu nominato Arcivescovo di Bologna da San Pio X, durante un’udienza privata, il 4 ottobre del 1907; fu consacrato Vescovo dal Papa in persona il 22 dicembre 1907; ricevette l’exequatur del governo italiano il 9 febbraio del 1908, e, prese possesso ufficialmente della sua diocesi il 22 febbraio 1908, arrivando in forma privata a Bologna due giorni prima: il 20 febbraio 1908.

La Lettera pastorale (10 febbraio 1908)

Secondo la prassi, allora abituale, il Vescovo neoeletto iniziava a comporre la sua prima Lettera pastorale, rivolta al clero e ai fedeli della diocesi affidatagli dal Papa, ancora prima di giungervi; così fece anche monsignor Della Chiesa; tuttavia la sua Lettera pastorale venne datata al 10 febbraio 1908, ossia il giorno successivo al suo insediamento (cfr. Giovanni Turbanti, La prima lettera pastorale di Giacomo Della Chiesa a Bologna, in A. Melloni – diretto da – Benedetto XV. Papa Giacomo Della Chiesa nel mondo dell’inutile strage, Bologna, Il Mulino, 2017, 1° vol., p. 97).

Monsignor Della Chiesa sino al 1907 aveva lavorato in Curia (a Roma e a Madrid) e non aveva ancora avuto esperienze pastorali o diocesane. Tuttavia, come spiega Antonio Scottà (A. Scottà, Giacomo Della Chiesa Arcivescovo di Bologna: 1908-1914. L’«ottimo noviziato» episcopale di papa Benedetto XV, Soveria Mannelli, 2002, pp. 98-100), lavorando sotto il cardinale Raffaele Merry del Val in Segreteria di Stato, il monsignore genovese aveva seguìto personalmente il caso della condanna di Alfred Loisy sin dal 1905 non da un punto di vista dottrinale (che spettava al Sant’Uffizio), ma dovette leggere la corrispondenza tra Loisy e il S. Uffizio, svolgendo un lavoro di intermediazione e di esecuzione di quanto disposto dal S. Uffizio.

Occorre dire che Alfred Loisy (1854-1940) dopo essere entrato in seminario a soli 17 anni nel 1874, venne ordinato sacerdote nel 1879 (a 22 anni); nel 1881 ricevette la cattedra di ebraico all’Istituto Cattolico di Parigi a soli 24 anni, ma nelle sue Mémoires (Parigi, 3 volumi, 1930-1931, I vol., p. 154) scrisse che dopo soli 7 anni di sacerdozio, a 29 anni (nel 1886), cominciò a sentirsi “estraneo alla Chiesa”. Egli fu, certamente, uno dei maggiori rappresentanti del modernismo specialmente storico ed esegetico. Nel 1909 fu scomunicato e le sue numerose opere, di cui la prima nel 1890, quando si sentiva già “estraneo alla Chiesa” da 4 anni, (Parigi, Storia del Canone del Nuovo Testamento) sino all’ultima del 1936 (Parigi, Origini del Nuovo Testamento) vennero tutte condannate e messe all’Indice dei libri proibiti dal S. Uffizio nel 1932 e poi nel 1938, sotto papa Pio XI (cfr. L. Tondelli, Alfred Loisy, in “La Scuola Cattolica”, n. 69, 1941, pp. 20-45; L. Salvatorelli, Alfred Loisy, in “Studi e materiali di storia delle religioni”, n. 17, 1941, pp. 119-121).

Sempre secondo lo Scottà (Giacomo Della Chiesa Arcivescovo di Bologna, cit., pp. 84-89) monsignor Della Chiesa sarebbe rimasto colpito, al di là delle ragioni dottrinali della condanna che pur condivideva, dal caso umano che si intravedeva dietro le scuse avanzate dal Loisy (forse non del tutto sinceramente), tanto che  nella prima Lettera pastorale alla diocesi di Bologna avrebbe mostrato un atteggiamento comprensivo quanto alle persone accusate di modernismo, se disposte a correggersi, ma intransigente quanto alla condanna del modernismo e del modernista convinto e non pentito (cfr. Giovanni Turbanti, La prima lettera pastorale di Giacomo Della Chiesa a Bologna, cit., 1° vol., p. 99).

Qualche storico vuol notare una certa differenza di modi di azione tra il Della Chiesa (più moderato), fedele alla formazione diplomatico/politica ricevuta dal cardinale Mariano Rampolla Segretario di Stato di Leone XIII e quella del cardinale Raffaele Merry del Val (più intransigente), Segretario di Stato di San Pio X.

Certamente ogni uomo ha un suo modo di agire, che è diverso da quello di ogni altro, ma ciò non significa che vi fossero opposizioni dottrinali tra Merry del Val (Pio X) e Della Chiesa (Leone XIII). Infatti, come narrato dal medesimo Della Chiesa, quando morì all’improvviso, nell’agosto del 1907, il vecchio Arcivescovo di Bologna (il cardinale Svampa), il Merry del Val disse in presenza sua e di Pio X che “chiunque fosse andato a Bologna dopo soli sei mesi sarebbe diventato un vescovo liberale” - data la situazione difficile che si viveva allora nella diocesi bolognese, in cui le tendenze filo/moderniste anche del clero erano abbastanza vive - mentre Pio X gli rispose che avrebbe mandato “a Bologna un arcivescovo che non sarebbe diventato liberale” (Della Chiesa a Merry del Val, 19 febbraio 1909, in A. Scottà, Giacomo Della Chiesa Arcivescovo di Bologna, cit., p. 85). Ciò venne riferito da monsignor Della Chiesa al Merry del Val in persona “per ribadire la sua fedeltà a Pio X e per rivendicare il superamento della prova antimodernista” (G. Turbanti, La prima lettera pastorale, cit., p. 99).

Quando monsignor Della Chiesa giunse a Bologna trovò “un clero locale ampiamente imbevuto delle idee dei novatori, sebbene le idee nuove in gran parte si professassero nel nascondimento, specialmente nel seminario la situazione era particolarmente severa. […]. Di Della Chiesa si lodavano le ottime qualità morali, le capacità organizzative e la preparazione culturale. Lo so diceva politicamente intransigente e si pensava che Pio X lo avesse inviato a Bologna, ove il movimento democristiano aveva un centro notevole di propaganda e di azione, quindi si rendeva necessario, secondo le vedute del Vaticano, un uomo fermo come Della Chiesa, di una certa autorità, di provata energia e pronto ad iniziare un’opera di rinnovamento” (A. Scottà, cit., p. 88).

La dottrina della Lettera pastorale del 1908

Se si studia attentamente la Lettera pastorale del neo-arcivescovo si riscontra che, nella persona del vescovo presentato come esercitante una sopra-intendenza a favore dei fedeli e del clero, egli ha distinto 1°) il “pastore” e 2°) il “padre”, ossia la diocesi è paragonata dal Della Chiesa sia ad un “gregge radunato attorno al suo pastore fermo”, sia ad “una famiglia dipendente da un padre amorevole”.

Il Vescovo come pastore fermo

Innanzitutto, egli parla di “pastore” e poi di “padre”. Infatti, spiega l’Arcivescovo, l’immagine del pastore precede quella del padre in quanto il primo esercita una disciplina severa nei confronti del suo gregge, poiché “se le pecorelle si esponevano ai pericoli erano richiamate dalla voce forte del pastore; se si avvicinavano ad un pascolo avvelenato, il pastore le strappava con forza dalle erbe cattive”. Qui il monsignore genovese parlava chiaramente del modernismo dogmatico e politico (ossia la democrazia-cristiana o PPI) che specialmente a Bologna insidiava fedeli e clero. Quindi il pastore, cioè il vescovo, avrebbe provveduto - in senso positivo -  alla istruzione religiosa della sua diocesi e - in senso negativo - alla repressione di ogni errore modernista. Della Chiesa nella sua Lettera pastorale si rifaceva all’Enciclica di San Pio X, Acerbo nimis del 1905, e affermava che si sarebbe basato nel suo insegnamento diocesano sulla Tradizione, la Scrittura e il Magistero della Chiesa, ed avrebbe condannato ogni novità che si sarebbe discostata da essi, estirpandola anche con forza. Il riferimento al Magistero come interprete autentico della Rivelazione divina (Tradizione e Scrittura) è sempre stato una costante del pensiero teologico del monsignore genovese, in assoluta continuità con i pontificati precedenti.

Il Vescovo come padre amorevole

In secondo luogo, monsignor Della Chiesa, nella sua prima Lettera pastorale parla del Vescovo come “padre amorevole”, che usa molta bontà e comprensione verso i suoi fedeli laici e chierici. Non solo è pastore che guida, colpisce e corregge con forza le pecorelle, ma è anche un padre amorosissimo verso i suoi figli, ossia i fedeli. Questo secondo aspetto del compito del vescovo deve aiutare a mitigare la durezza del castigo quando esso sia necessario: “Se come pastore, il Vescovo nella sua diocesi, dovesse mai porre mano ai castighi, come padre ne ritarderebbe l’uso sino all’estremo limite consentito alla sua coscienza, o, nel fare quell’uso, si assicurerebbe insieme che il castigo dovesse veramente riuscire a salute dei figli” (G. Della Chiesa, Prima Lettera pastorale al venerabile clero e al popolo della città e arcidiocesi di Bologna, Roma, 1908, p. 15).

Monsignor Della Chiesa non dice di non dover essere giusti o severi, di non poter castigare, ma afferma soltanto che accanto alla giustizia la quale reprime il male, vi deve essere pure la bontà che porta a non voler castigare immediatamente, senza essersi prima accertati che il castigo sia giusto e salutare al castigato. Non lo si può accusare, quindi, di liberalismo o di connivenza con l’errore e l’errante in quanto tale poiché egli specifica bene che occorre castigare, ma anche che bisogna accertarsi che il castigo sia giusto.

Tirando le somme

In breve, nella prima Lettera pastorale del 1908 dell’allora arcivescovo bolognese, la funzione giusta e severa del “vescovo come pastore” veniva bilanciata dalla funzione del “Vescovo come padre amorevole”. Non c’è nulla di modernizzante in ciò, ma questa è la pura esposizione della dottrina tomistica della connessione fra tutte le virtù (Somma Teologica, I-II, q. 65, aa. 1-5) e quindi anche delle virtù di giustizia e misericordia. Infatti, la prima senza la seconda sarebbe crudeltà e la seconda senza la prima sarebbe debolezza. “Le virtù morali sono perfette quando una non è senza l’altra. Quindi esse sono legate tra di loro” (q. 65, a. 1). Monsignor Della Chiesa ha spiegato molto bene che la bontà e il conforto del vescovo/padre, bilancia il compito necessariamente sorvegliante del vescovo/pastore. Egli non disgiunge mai le due virtù e i due compiti del Vescovo, ma le integra e le amalgama. Invece i modernisti parlano solo di misericordia senza giustizia, mentre i rigoristi solo di giustizia senza misericordia, ma non così il Nostro, secondo il quale: “Non bisogna confondere e scambiare i due compiti di pastore e di padre, che sono entrambi compresi in quello di vescovo: la vigilanza del pastore senza l’amore del padre non farebbe comprendere pienamente ciò che deve essere il vescovo; così pure la tenerezza del padre a cui facesse difetto la severità di dare ai figli la vera dottrina non farebbe capire il compito del vescovo/sopraintendente” (G. Della Chiesa, Prima Lettera pastorale al venerabile clero e al popolo della città e arcidiocesi di Bologna, Roma, 1908, p. 18). L’attitudine di monsignor Della Chiesa riguardo al modernismo, nel suo ministero diocesano tra il 1908 e il 1914, fu certamente ispirata dalla teologia tomistica e forse (come asserisce lo Scottà) anche dal caso umano del Loisy, il quale si sarebbe pentito del suo errore, almeno nelle lettere che lesse il Nostro quando lavorava ancora in Segreteria di Stato (1905/1907).

Il criterio cui si attiene il Nostro per poter discernere il pascolo buono da quello cattivo, la verità della dottrina dalla sua corruzione è il concordare col Magistero supremo del Papa o come diceva S. Ignazio di Loyola: il sentire cum Ecclesia. Tutta la sua prima Lettera pastorale è incentrata su questo principio: fedeltà alla Tradizione, alla Scrittura interpretate dal Magistero della Chiesa. Come dunque lo si poteva accusare di liberalismo o modernismo senza ledere gravemente la giustizia?

Infine bisogna inquadrare la Lettera pastorale del 1908 del vescovo di Bologna nell’ambito della lotta contro il modernismo. Il Della Chiesa fa del modernismo il tema centrale della sua Lettera e ne critica sia il lato dottrinale o dogmatico (lo spurio connubio dell’Idealismo con la fede cattolica) che sociale o politico (l’autonomia dei cittadini e dei fedeli dall’autorità civile ed ecclesiastica), basandosi soprattutto sul Magistero della Chiesa e dunque - nel caso del modernismo - su quello di Pio X, che appena un anno prima della Lettera pastorale del 1908 di monsignor Della Chiesa aveva promulgato il Decreto Lamentabili (3 luglio 1907) e l’Enciclica Pascendi (8 settembre 1907). Mi sembra un’assurdità presentare Benedetto XV in opposizione o discontinuità con Pio X. L’identità di intenti e di volere tra i due è chiara; né si può pretendere che due individui (i quali sono “distinti l’uno dall’altro” per definizione) debbano o possano agire nella medesima maniera. Ogni persona ha il suo individuale e particolare modo di essere e di agire; ciò che conta è avere la stessa fede e la stessa dottrina. La bellezza della Chiesa è proprio questa: l’unità dottrinale assieme alla diversità di modi di azione; invece le sette sono una scimmiottatura della Chiesa ed in esse si riscontra il medesimo modo di comportarsi artefatto e farisaico, sin nei minimi dettagli, degli adepti i quali rinunciano alla loro vera identità personale, per adottare (almeno esteriormente) quella del caporione o del santone di turno, il quale inebriato narcisisticamente di se stesso pretende che tutti gli altri pensino e agiscano esattamente come lui, sin nei minimi dettagli.

Monsignor Della Chiesa adotta i princìpi esposti dal Magistero di papa Sarto sul modernismo e li applica alla sua diocesi in maniera pastorale secondo la dottrina tomistica della pari connessione  delle virtù morale e specialmente della giustizia e della misericordia, senza nessun eccesso (rigorismo: la giustizia senza la misericordia) o difetto (liberalismo: la misericordia senza la giustizia).  Padre Reginaldo Garrigou-Lagrange, spiegando questa dottrina, faceva l’esempio delle dita della mano, che devono avere tra di loro una certa proporzione pur essendo diverse l’una dall’altra. Se fossero tutte eguali o enormemente sproporzionate la mano sarebbe mostruosa.

“Il suo [di Benedetto XV, ndr] approccio pastorale al problema modernista sarebbe stato confermato anche negli anni del suo pontificato, quando, pur mantenendo in vigore le norme stabilite da Pio X, sarebbe stato molto attento ad applicarle senza eccessivo rigore quanto ai modi. In Della Chiesa, l’equilibrio tra i due aspetti di pastore e di padre si inserivano in una concezione ecclesiologica che restava sostanzialmente tradizionale, basata sul principio gerarchico che il vescovo impersonava col suo ufficio in subordinazione al Papa. Infatti il principio del sentire cum Ecclesia legava il vescovo al Magistero del Pontefice e al governo centrale della Chiesa universale” (G. Turbanti, La prima lettera pastorale, cit., vol. 1°, p. 107).  In breve il monsignore genovese applicò alla diocesi di Bologna (1908-1914), che viveva e subiva allora fortemente la crisi modernista, i princìpi della reazione romana e piana (1904-1914), senza gli eccessi di monsignor Benigni. Quindi non si può parlare assolutamente di liberalismo o modernismo in Benedetto XV.

d. Curzio Nitoglia

Fine Della Decima Parte

Continua


 
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