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Un contributo all’esegesi transpolitica della storia contemporanea (3)
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Terza parte
Benito Mussolini: dal socialismo al produttivismo

La genesi del fascismo italiano è stata ben studiata da Renzo De Felice attraverso la ricostruzione della biografia di Benito Mussolini che ne fu non tanto il capo quanto l’espressione umana più indicativa.

Alessandro Mussolini, il padre del futuro duce, era un fabbro anarchico e socialista. Chiamò Benito il suo primogenito in omaggio a Benito Juárez (il rivoluzionario messicano che sconfisse ed uccise lo sventurato Massimiliano d’Asburgo, tradito da Napoleone III e dalla famiglia d’origine), senza tralasciare di affibbiargli anche i nomi di Amilcare, in omaggio al suo amico anarchico Amilcare Cipriani, e di Andrea, in omaggio all’altro suo amico anarchico Andrea Costa. Rosa Maltoni, moglie di Alessandro e madre di Benito, era una maestra di scuola elementare, cattolica molto devota. Date queste origini, Mussolini è stato, anche socialmente, il tipico rappresentante della piccola borghesia.

Il piccolo Benito visse tra la devozione religiosa della madre e l’anarchismo anticlericale, persino ateo, del padre, di cui, adolescente, seguì le orme politiche, pur senza, nel segreto perdere contatti, almeno psicologici ed inconfessati persino a se stesso, con la fede popolare della madre. Cacciato, per aver ferito un compagno di scuola, dall’istituto scolastico dove aveva iniziato l’iter degli studi che lo avrebbero condotto, sulle orme materne, al brevetto di maestro di scuola elementare, trovò invero la sua iniziale vocazione nella militanza politica anarco-socialista più radicale e nel giornalismo. Benché il suo, già in questo momento, non fosse un socialismo marxisticamente dogmatico, «della cattedra» come si diceva all’epoca, quanto piuttosto, come quello del padre, un socialismo gridato contro le ingiustizie e fortemente venato, appunto, da elementi anarcoidi, pertanto in qualche modo irregolari rispetto al socialismo ufficiale.

Diventato, ben presto, per il suo radicalismo e le sue doti di leader il «duce del socialismo romagnolo» (l’appellativo «duce» gli fu affibbiato proprio dai suoi compagni socialisti), dopo aver stabilito un rapporto di amore-odio con Pietro Nenni allora capo dei repubblicani mazziniani (i «gialli» secondo la terminologia dell’epoca), rappresentanti degli interessi dei mezzadri laddove i socialisti lo erano dei braccianti, Mussolini si impose un po’ alla volta all’attenzione dei vertici del PSI, del quale fu leader dell’ala massimalista opposta a quella moderata dei Turati e dei Treves, e passò dalla direzione del quotidiano di provincia «La Lotta di Classe» a quella dell’«Avanti».

Era, infatti, direttore del quotidiano del PSI, quando, allo scoppiò della Prima Guerra Mondiale, dovette obbedire alla linea neutralista del partito, che nella guerra vedeva solo lo scontro tra le borghesie europee. Tuttavia, un suo editoriale, «Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante», pubblicato sul giornale del PSI il 18 ottobre 1914, nel quale, sostenendo la possibilità di trasformare la guerra nazionale in guerra sociale, mise, con prudente circospezione, in discussione la linea ufficiale del partito socialista di fronte alla guerra, ne causò l’espulsione dal medesimo. Andandosene, Mussolini apostrofò i suoi ex compagni protestando che egli sarebbe rimasto sempre un socialista. Possiamo, ora, ben dire che egli restò fedele alla sua parola, benché per strade e in modi a lui stesso, in quel momento, non ancora affatto chiari.

La maturazione del distacco dal socialismo ufficiale si spiega riandando agli anni nei quali Mussolini fu, per motivi politici (tra i quali la renitenza al servizio militare), esule prima in Svizzera, dove, oltre ad Angelica Balabanoff, una intellettuale socialista di origini ebraiche che fu anche sua amante (più tardi, già fascista, ebbe come amante un’altra colta ed affascinate ebrea, Margherita Sarfatti, la quale con l’opera «Dux» contribuì a rafforzarne l’immagine), pare ebbe modo di incontrare Lenin, e poi nel Trentino, all’epoca ancora asburgico, dove diresse il giornale socialista del suo amico Cesare Battisti e dove polemizzò con il rivale Alcide De Gasperi, che era il leader del cattolicesimo sociale trentino. Durante questa fase della sua vita, lontano dalla natia Romagna, Mussolini era venuto in contatto con le correnti «eretiche» del socialismo, dal sindacalismo rivoluzionario al boulangismo francese.

Nel suo periodo da esule, iniziato a studi più sistematici dalla Balabanoff, Mussolini fu un vorace, per quanto non metodico, lettore delle opere di Marx, Nietzsche, Sorel, Bakunin, Maurras, Mazzini, mescolando il tutto in una miscela altamente esplosiva nella quale stava confluendo l’ideologia non solo sua ma di tutta una generazione di irregolari irrazionalisti del socialismo, di refrattari del dogmatismo ufficiale, di libertari in cerca di autorità, ideali e miti politici, ad iniziare dalla «Classe» e dalla «Nazione» non più vissute in opposizione ma sempre più in congiunzione.

Seguiamo l’ampia pagina defeliciana che mostra come sia avvenuta la svolta definitiva dal socialismo al produttivismo di Mussolini e dell’interventismo di sinistra, quel «socialismo eretico» figlio del sindacalismo rivoluzionario, che, dopo la rottura con il PSI, in lui e nel «Popolo d’Italia» aveva  trovato un punto di riferimento. Quella svolta costituì per l’intera generazione dell’interventismo di sinistra il passaggio da un socialismo ancora classista ad un socialismo nazionale, che si presentava come ideologia sociale e rivoluzionaria dei ceti medi sebbene di quei particolari ceti medi in divisa forgiatisi nelle trincee della Grande Guerra in amalgama con contadini ed operai. La svolta giunse a maturazione dopo la catastrofe di Caporetto.

«L’ultimo anno della guerra europea, apertosi con Caporetto, – scrive dunque De Felice – … fu… un anno decisivo della vita di Mussolini (…). Tra la fine del ‘17 e la fine del ‘18, tra Caporetto e la vittoria, nella posizione politica di Mussolini ebbe infatti inizio una evoluzione… di estrema importanza, la più determinante di tutta la sua vita (…). Dal novembre 1914 sino a Caporetto Mussolini fu… un ‘socialista dormiente’, ma pur sempre un socialista. Il fatto che Mussolini era stato espulso dal Partito Socialista e che polemizzava, anche con estrema violenza contro di esso, non costituisce elemento sufficiente per esprimere il giudizio che in questo periodo non fosse socialista. Nel fondo della sua concezione politica e della sua psicologia egli restò socialista, così come tanti altri suoi ex compagni che la guerra aveva portato fuori dal partito. La logica inesorabile della guerra lo portò a tenere in sott’ordine il suo socialismo e provocò in lui anche inevitabili sbandamenti e cedimenti; portò in primo piano l’interventista; ma non annullò il socialista, che ogni tanto tendeva, anzi, a riaffiorare in primo piano. Caporetto fu per Mussolini, come per tutti gli interventisti, uno choc gravissimo (…) mentre fino a Caporetto Mussolini si era comportato soprattutto come un agitatore, un propagandista dell’interventismo di sinistra, dopo Caporetto … divenne soprattutto un politico. Continuò a muoversi ancora prevalentemente nell’ambito dell’interventismo di sinistra, ma allargò contemporaneamente il suo orizzonte politico anche alle altre forze interventiste (…). Due anni e mezzo di partecipazione italiana alla guerra europea e soprattutto la crisi di Caporetto lo avevano ormai reso edotto della debolezza – della inesistenza quasi, al di là degli schemi retorici e propagandistici e degli sforzi personalistici di questo o di quell’esponente ‘interventista’ – dell’interventismo ‘in sé’; e lo avevano portato – capito ciò – a rendersi progressivamente conto, forse come nessun altro, della necessità di cercare nuove formule politiche (e quindi nuove alleanze) più aderenti alla nuova realtà che capiva si andava delineando, anche se, per il momento, egli non era ancora in grado di stabilire bene quali caratteristiche essa avrebbe avuto (…). Da qui il suo progressivo allontanarsi dal socialismo, il suo ‘superarlo’ – sia pure confusamente – nel ‘trincerismo’ e nella formula di una nuova società dei combattenti e dei produttori. Una formula confusa sin che si vuole, contraddittoria anche, alla cui base era, molto probabilmente, la suggestione di alcune formule dell’ultimo Corridoni (… soprattutto F. Corridoni ‘Sindacalismo e repubblica’. La prima edizione apparve nel dopoguerra, Mussolini doveva però esserne certamente a conoscenza essendo circolate varie copie del manoscritto sin dal 1915 negli ambienti milanesi vicini a Corridoni) (1), ma che – al solito – denota la sua capacità di cogliere, di fiutare diremmo, i sentimenti delle masse, le loro aspirazioni più confuse e inespresse, ma sentite. Nella situazione determinata dalla guerra e dalla rivoluzione russa un socialismo non comunista, non bolscevico, era pensabile (e infatti lo fu) da parte di singoli individui e di ristretti movimenti, ma non da parte delle masse. In questa situazione, come Mussolini scrisse in un famoso editoriale del I° agosto 1918 (Mussolini ‘Novità …’, in ‘Il Popolo d’Italia’), la concorrenza di due botteghe era inconcepibile, e chi la vagheggiava o era un illuso o avrebbe dovuto accontentarsi di un ruolo estremamente minoritario, politicamente senza sbocco. Persa irrimediabilmente così la possibilità di agire sulle masse proletarie, l’unica forza per realizzare una politica nuova erano i trinceristi, i combattenti. Una nuova élite e al tempo stesso una nuova massa, socialmente composita ma con un suo denominatore comune, che aspirava ad una vita migliore, dotata di una potente carica di rinnovamento. Guardando questa massa di combattenti e pensando al dopoguerra Prezzolini osservava: ‘Se ci saranno progetti vasti e partiti con idee grandi, troveranno molte adesioni fra loro’. Mussolini si convinse presto di ciò e cominciò a puntare su di essi. Il trincerismo, misto ad alcuni motivi produttivistici e a una buona dose di sindacalismo rivoluzionario, furono i Fasci di combattimento del ‘ 19 e del ‘20 (…) (la sua) estrema duttilità politica – da grande politico… – (aveva consentito a)… Mussolini… (di)… capire, al contrario degli altri uomini politici…, che perciò si bruciarono o furono sconfitti, che la guerra aveva creato una nuova massa, con proprie aspirazioni sociali e morali, i trinceristi, che, finita la guerra, non si sarebbe dissolta per il solo fatto di essere smobilitata e che, per un certo periodo almeno, avrebbe costituito – se compresa – una forza di manovra formidabile» (2).

Guerra di Popolo e Dittatura democratica

Questa svolta «trincerista», benché tendesse a superare il vecchio socialismo ufficiale e dogmatico del PSI, si portava dietro tutto il socialismo massimalista e rivoluzionario di quell’interventismo di sinistra che aveva affascinato un’intera generazione di sindacalisti rivoluzionari e socialisti refrattari al dottrinarismo marxista e «professorale» di Turati e dei vertici dell’organizzazione partitica della sinistra italiana del tempo.

Il Mussolini ormai trincerista chiedeva, infatti, a viva voce, dalle colonne de «Il Popolo d’Italia», che la guerra, per superare il dramma di Caporetto, fosse rinnovata per renderla una guerra davvero di popolo, di tutti. Quindi chiedeva che la guerra assumesse una contenuto sociale, di cambiamento delle strutture arcaiche dell’Italia risorgimentale («L’Italietta liberale» che prima della guerra era stata l’obiettivo polemico dell’interventismo di destra, nazionalista, e dell’interventismo di sinistra, socialista). In un editoriale, significativamente intitolato «Onore agli operai», apparso sul suo giornale il 4 novembre, Mussolini ricordava che la vittoria delle potenze centrali avrebbe significato la definitiva sconfitta delle rivendicazioni operaie (3). Proponeva quindi per evitare il disastro nazionale che bisognava mettere in cantiere e realizzare riforme sociali a favore del proletariato operaio e contadino. «… per saldare i contadini alla Nazione – scriveva –, bisogna dare la terra ai contadini… questo è il ‘contenuto sociale’ della guerra che noi reclamiamo» (4). Riecheggiava nella proposta mussoliniana la tradizione della corrente più a sinistra, quella dei Pisacane e dei Ferrari, del mazzinianesimo democratico risorgimentale.

Contemporaneamente Mussolini chiedeva, in altri editoriali, l’abbandono delle pratiche liberal-democratiche di conduzione della guerra e di governo della Nazione, e scriveva «Non fermiamoci dinanzi ai diritti della libertà individuale. Spazziamo questo feticcio. Lo ha spazzato l’Inghilterra, dove la dottrina e la pratica del liberalismo hanno secoli di vita. L’Inghilterra è andata dal volontariato alla coscrizione militare e alla mobilitazione civile», fino ad invocare la «dittatura» alla stregua di quanto era saggiamente previsto nell’ordinamento dell’antica Roma repubblicana ed alla stregua di quanto avevano fatto sia gli Stati Uniti sia la Francia, dove Wilson e Clemenceau governavano con poteri in pratica dittatoriali loro attribuiti dai rispettivi parlamenti per le necessità operative della guerra che occorrono di decisionismo.

Tuttavia, questa invocazione della dittatura «necessaria» non aveva, in Mussolini, un carattere reazionario ed antidemocratico. Il ripudio della conduzione «democratica», ossia parlamentare, della guerra non era una rinuncia al carattere al contenuto sociale che bisognava dare ad essa. Mussolini era lungi, in questo momento, dall’allinearsi sulle stesse posizioni dei nazionalisti, come Pantaleoni e Corradini, che invece invocavano un regime autoritario in sé e non solo per le necessità belliche. Contro il reazionarismo nazionalista, Mussolini, infatti, scriveva:

«Un conto è la democrazia; un conto è la condotta democratica o piuttosto parlamentare della guerra. Mi direte che un regime di democrazia non ammette altra condotta della guerra che non sia democratica. Vi rispondo che Roma democratica accettava la dittatura in tempo di guerra. Più volte noi abbiamo fatto il processo non alla democrazia, ma alla condotta democratica della guerra. (…). Ma la condotta della guerra … non esclude che i fini della guerra possano essere democratici. Dittatura nei mezzi, democrazia nei fini…».

Tuttavia ben presto Mussolini, pur senza perdere mai completamento contatto con le sue originarie posizioni di sinistra, iniziò ad accogliere anche le istanze antidemocratiche dei nazionalisti laddove esse collimavano con l’antiliberalismo. Il futuro duce, che nel 1914 aveva preso parte come giornalista interventista al congresso massonico di Napoli indetto per supportare la «redenzione dei popoli oppressi» dall’ultimo residuo di medioevo, ossia la monarchia asburgica, era convinto che lo smembramento dell’Austria-Ungheria fosse necessario per assicurare ai popoli europei la pace nella libertà. In questo ambito, però, iniziarono in lui a fomentare ben chiare pulsioni nazionaliste anti-slave, complice l’irredentismo italo-istriano-dalmata successivamente rinfocolato dall’impresa dannunziana di Fiume (che fu, però, un esperimento rivoluzionario, al quale aderirono nazionalisti, come il poeta pescarese, ma anche repubblicani democratici e sindacalisti mazziniani, come Alceste De Ambris, elaboratore della «Carta del Carnaro», poi ritoccata in forma più lirica da D’Annunzio, che doveva essere la costituzione della libera città di Fiume. Una costituzione dai caratteri sociali e democratici fortemente avanzati). Inseguendo queste pulsioni anti-slave, Mussolini finì per aderire, un po’ alla volta, al punto di vista del nazionalismo reazionario che era quello di una politica internazionale di potenza e di prestigio.

Trincerocrazia o della sintesi di classe e nazione

Parallelamente a questo avvicinarsi al nazionalismo, si manifesta in Mussolini il «superamento» – ma, attenzione, non il rinnegamento – del socialismo. Il 15 dicembre 1917 egli pubblica un articolo intitolato «Trincerocrazia» nel quale delinea l’emergere di una «nuova aristocrazia» – in questo si dimostrava influenzato, come del resto ne sarebbe stato persino un Gramsci, dalla filosofia elitarista dei Pareto, dei Mosca, dei Michels – e di una nuova forma di socialismo: «I miopi e gli idioti non la vedono. Eppure, questa nuova aristocrazia muove già i primi passi. Rivendica già la sua parte di mondo. Delinea già con sufficiente precisione i suoi tentativi di ‘presa di possesso’ delle posizioni sociali… L’Italia va verso due grandi partiti: quelli che ci sono stati e quelli che non ci sono stati; quelli che hanno combattuto e quelli che non hanno combattuto; quelli che hanno lavorato e i parassiti…». Ed aggiungeva che, in tale quadro, il nuovo socialismo che si va presentando all’orizzonte della storia: «Potrà essere un socialismo anti-marxista… e nazionale. I milioni di lavoratori che torneranno al solco dei campi, dopo essere stati nei solchi delle trincee, realizzeranno la sintesi dell’antitesi: classe e nazione».

Sempre inseguendo questa linea emergente, il 24 febbraio 1918 in una lettera al capitano Zanardini, Mussolini affermava: «L’avvenire vedrà i parlamenti plurimi dei competenti sostituirsi al parlamento unico degli incompetenti». Si ha qui una chiara adesione del futuro duce ad una certa idea «tecnocratica» del corporativismo, molto diversa, anche per i fondamenti filosofici che ne sono alla base, da quella della tradizione del cattolicesimo politico e sociale otto-novecentesco. Ciò non toglie che – come diremo – negli anni Trenta il mondo cattolico si avvicinò, con critico interesse, all’esperimento corporativista del regime fascista e che persino la Chiesa di Pio XI sperò in una conversione in senso cattolico del regime e della sua politica sindacale.

Questa visione tecnocratica del corporativismo si saldava molto bene con la nuova prospettiva produttivista che Mussolini dava al socialismo nuovo, nazionale. «Voi – egli scriveva nel 1918 rivolto al proletariato nella ricorrenza del 1° maggio su Il Popolo d’Italia nell’articolo ‘Il fucile e la vanga’ – rappresentate il lavoro, ma non tutto il lavoro, e il vostro lavoro è soltanto un elemento del gioco economico. Ce ne sono altri dai quali non si può prescindere. Voi siete il numero, ma il numero non basta a rendervi degni di governare le nazioni e il mondo. Il numero è ‘quantità’. Bisogna trasformarlo in fattore ‘qualitativo’. Voi arriverete se lo meriterete. È possibile che dalla vostra massa – attraverso un lavoro di ribollimento, raffinamento – escano organismi capaci – non soltanto per voi ma per tutti – di governare politicamente ed economicamente lo Stato… Liberatevi soprattutto della nozione di un socialismo semplicione alla russa, troppo espropriante, ed ‘egualitario’. Non si tratta di ‘impadronirsi’ dei beni; si tratta di ‘produrne’ altri, senza interruzione. Non si tratta di eguagliare gli uomini nel senso di ‘aplatir’ ma di stabilire fortemente le gerarchie e la disciplina sociale. Finché gli uomini nasceranno diversamente ‘dotati’, ci sarà sempre una gerarchia delle capacità… Si tratta di organizzare lo Stato, per assicurare il maggior benessere individuale e sociale».

Se il socialismo nazionale chiama, il nazionalismo sociale risponde

A questa propensione verso un socialismo interclassista e produttivista di un Mussolini che veniva da sinistra corrisponde, nello stesso periodo, l’analoga propensione verso il sociale se non addirittura il «socialismo» di diversi nazionalisti, ad iniziare da Corradini.

Emblematico in tal senso, per la similitudine con i ragionamenti di Mussolini sulla necessità di individuare «aristocrazie operaie» cui affidare compiti e responsabilità di governo, è quanto scriveva un intelligente uomo di cultura di provenienza nazionalista, Filippo Carli, padre di Guido, futuro governatore della Banca d’Italia. Filippo Carli, in qualità di segretario generale della Camera di Commercio di Brescia, propose nel marzo 1918, sulla rivista di politica industriale «Le Industrie Italiane Illustrate», un saggio intitolato «La partecipazione degli operai alle imprese», cui nel maggio successivo, fece seguito un altro articolo «L’alleanza tra capitale e lavoro». In questi contributi il Carli esaminava un progetto francese di «azionariato operaio», che prevedeva l’attribuzione alle maestranze di «azioni di lavoro di proprietà collettiva del personale salariato» dalle quali discendeva il diritto di inserire rappresentanti dei lavoratori nei consigli di amministrazione, partecipando alla gestione ed agli utili (la «socializzazione delle imprese» stabilita nei «18 punti di Verona», e nei decreti attuativi, durante la Repubblica Sociale Italiana, che nella dichiarazioni di Mussolini doveva costituire la «realizzazione nostra, umana, italiana, del socialismo», ricalcava quarant’anni dopo questa linea «partecipativa»).

«È probabile – scriveva, dunque, Filippo Carli – che notevoli passi innanzi si debbano fare; ma la via è questa, ed ogni deviazione sarebbe rovinosa: giacché non si può non riconoscere la legittimità storico-sociale e demografico-economica del fondamento su cui posa il nuovo principio. L’impresa non è più, nella nostra società, una funzione privata: è una funzione pubblica nei suoi presupposti, nel suo svolgimento, nelle sue conseguenze. Viceversa l’imprenditore nell’atto in cui assolda mille, duemila, diecimila operai, per una determinata forma di produzione, tende ad accaparrare nel proprio individuale interesse una parte delle forze nazionali: la nazione gli cede una parte del proprio organismo affinché egli ne disponga come crederà più opportuno: e da allora la vita e l’avvenire di questa parte della nazione, dipendono dal suo arbitrio e dalla sua capacità. A questo punto è legittimo che sorga il diritto della collettività nazionale a limitare quello dell’individuo: rappresentata da quei mille o duemila o diecimila operai che furono assunti dall’individuo imprenditore – il quale, si noti bene, deve allo stesso ambiente sociale una gran parte della sua capacità tecnica e della sua potenzialità economica – la collettività nazionale insorge ed afferma il suo diritto a partecipare all’impresa. Spunta l’azione sociale. Un radicale rivolgimento è avvenuto nei principi del salario, poiché questo riesce così composto di due quote: una quota con la quale all’operaio è assicurata una semplice esistenza e che pertanto si potrebbe chiamare biologica, ed una quota con la quale e per la quale l’operaio partecipa in modo cosciente ai benefici della gestione sociale».

Le idee di Filippo Carli trovarono appoggio in ambito nazionalista da un altro esponente industriale, il barone Alessandro Rossi di Schio, il quale, in nome della «Patria del popolo», e non della sola borghesia, che sapesse tutelare i lavoratori come componente cara ed amata della nazione, si impegnò pubblicamente a combattere le preclusioni ed i pregiudizi confindustriali nei confronti degli operai, a quel tempo sovente ancora analfabeti, per porre, secondo le linee tracciate da Carli, le basi di un patto tra produttori all’insegna della democrazia industriale: «Ogni fabbrica – scriveva Rossi di Schio sulla stessa rivista nella quale Carli aveva pubblicato i suoi articoli – possiede del personale più attivo, più intelligente, più colto della massa, e quasi sempre si osserva che con profondo intuito le maestranze stesse conoscono quali sono i loro compagni che meritano la loro fiducia, non solo ma una speciale loro deferenza e ne abbiamo prova nelle commissioni interne ormai in vita presso tutte le fabbriche, in cui abbondano elementi giovani pieni di energie costruttrici e pieni soprattutto di volontà di fare. Chiamiamo questi elementi a partecipare ai ‘perché’, che ispirano l’azione dirigente» (5).

Orbene, nonostante queste significative propensioni sociali dell’ala più avanzata del nazionalismo e della Confindustria, gli industriali italiani, quelli stessi che più tardi con il loro costante e sotterraneo sabotaggio affossarono l’esperimento corporativista del fascismo regime, legati alla loro antica (ed anche oggi non superata) concezione «padronale ed autoritaria», si opposero strenuamente a queste idee, capeggiati in particolare dagli Agnelli e dai Pirelli.

Combattenti e produttori

Per tornare a Mussolini, la sua adesione alle idee del socialismo produttivista trova conferma anche nello stretto rapporto che egli intrattenne con la UIL all’epoca guidata da Edmondo Rossoni (6). Su «Il Popolo d’Italia» del 12 giugno 1918, Mussolini si espresse con favore verso le scelte congressuali della UIL rossoniana in quanto si trattava di scelte marcatamente sindacaliste e corporativiste. Il futuro duce, del resto, quando nell’estate del 1918 sembrò che la stessa CGL volesse prendere maggiormente le distanze dal PSI ed avvicinarsi al «produttivismo nazionale», non esitò ad elogiare persino questa organizzazione sindacale.

La progressiva marcia verso la definizione del nuovo socialismo produttivista si concluse per Mussolini il 1° agosto 1918, quando dalla testata de «Il Popolo d’Italia» scomparve il sottotitolo «quotidiano socialista», con il quale il giornale era nato, per essere sostituito da quello «quotidiano dei combattenti e dei produttori». Per spiegare la «novità» Mussolini scrisse un editoriale nel quale affermava: «Oggi, dopo quattro anni, dalla testata di questo giornale scompare il sottotitolo di socialista. Un altro lo sostituisce che mi piace di più e che i lettori – io credo – apprezzeranno di più. D’ora innanzi questo giornale sarà il giornale dei combattenti e dei produttori … Quel ‘socialista’ che figurava in testa del giornale aveva senso nel 1914 e voleva dire che nel 1914 si poteva essere socialisti – nel vecchio senso della parola – e nello stesso tempo favorevoli alla guerra. Ma in seguito la parola ‘socialista’ era diventata anacronistica (…). Combattenti e produttori. Mi propongo di sostenere i diritti e gli interessi degli uni e degli altri. Combattenti e produttori, il che è fondamentalmente diverso dal dire operai e soldati. Non tutti i soldati sono combattenti e non tutti i combattenti sono soldati. I combattenti vanno da Diaz all’ultimo fantaccino. Produttori, cioè quelli che producono, che lavorano, ma non soltanto colle braccia … Difendere i produttori vuol dire combattere i parassiti… del lavoro che possono essere borghesi e socialisti… Difendere i produttori significa permettere alla borghesia di compiere la sua funzione storica – ci sono ancora due continenti quasi intatti che attendono di essere travolti nel turbine della civiltà moderna capitalistica – e significa anche agevolare agli operai il conseguimento del maggior benessere possibile per il maggior numero e lo sviluppo di quelle capacità che possono a un dato momento sprigionare dalla massa lavoratrice le nuove aristocrazie dirigenti delle nazioni. Nel sindacalismo operaio, quando sia rimasto immune dall’infezione del socialismo politico, nel sindacalismo che combatte e lavora, c’è un elemento e una ragione profonda di vita».

Il 18 agosto 1918, Mussolini spiega, in un altro editoriale, «Orientamenti e problemi», che i produttori «non sono tutti necessariamente borghesi, non sono tutti necessariamente proletari». Quindi bisogna guardare insieme al proletariato anche alla piccola e media borghesia produttiva composta di ingegneri, meccanici, professionisti. Insieme all’operaio tutti costoro sono produttori. Tra produttori esistono gerarchie di tipo funzionale che devono essere rispettate. Tuttavia tra produttori i dissidi alla fine sono risolvibili perché «C’è tra di loro una necessaria e logica divisione del lavoro. Si completano a vicenda». Il vero contrasto, la vera lotta di classe, è quella dei produttori contro i parassiti. Attraverso l’aumento della produzione, una volta sconfitti i parassiti, anche i produttori proletari potranno accedere ad una maggior e più giusta redistribuzione della ricchezza e l’intera Nazione sarà libera e grande nel concerto delle nazioni europee.

Qui si fa molto evidente la somiglianza di questo Mussolini socialista produttivista con il Marx interclassista de «La lotta di classe del 1848 in Francia».

«Alla base di queste affermazioni di Mussolini – scrive Renzo De Felice – … è una certa atmosfera, un certo fermento generale che, con l’avvicinarsi della fine della guerra, era diffuso in vari ambienti socialisti europei, francesi soprattutto, che non si erano lasciati suggestionare dall’entusiasmo indiscriminato per la rivoluzione bolscevica e che, anzi, lo avevano molto spesso respinto. La guerra aveva prodotto in tutti i Paesi belligeranti un enorme sviluppo della produzione, sia nei settori più propriamente connessi all’industria bellica sia in quelli ad essa collaterali, nonché un notevole progresso tecnico e un forte incremento dell’occupazione operaia… dal quale… non era andato disgiunto… anche un certo aumento… dei salari e delle mercedi. Il dopoguerra si presentava profondamente ipotecato dal problema della riconversione… dell’apparato industriale bellico alla produzione di pace. Solo così si sarebbe potuto mantenere alto il livello produttivo, si sarebbero evitati la disoccupazione e il crollo dei salari e si sarebbero potute assorbire le masse di mano d’opera rese disponibili dalla smobilitazione. In questa prospettiva, una ripresa pura e semplice dei vecchi indirizzi e dei vecchi metodi della lotta operaia sembrava ad alcuni impossibile, poiché avrebbe aggravato… la crisi generale e il primo a farne le spese sarebbe stato proprio il proletariato. Il trinomio lavoro-produzione-scambio appariva il punto fermo di una politica operaia nuova: il progresso sociale poteva essere realizzato solo attraverso il massimo aumento del reddito assicurato da un potente sviluppo dell’economia capitalista, opportunamente corretta in alcuni suoi aspetti. Dunque, gli interessi del proletariato, e, più in genere, dei produttori si identificavano con l’interesse nazionale» (7).

L’11 settembre 1918, meno di un mese dopo dell’editoriale mussoliniano del 18 agosto, «La bataille syndicaliste», l’organo della CGT francese enunciava concetti e posizioni politico-sindacali assolutamente simili a quelli di Mussolini, benché il «produttivismo del benessere» cui si riferiva il periodico sindacale d’oltralpe, pur esprimendo una identica matrice ideale, avesse un carattere ancora marcatamente classista rispetto a quello del futuro duce il quale, influenzato dall’interpretazione dei nazionalisti, come Corradini e Carli, intesa più quale attenuamento della lotta di classe che non ancora come suo effettivo superamento, metteva l’accento sull’unità dei produttori rispetto al possibile «ruolo direttivo della classe operaia» che ci si augurava nell’editoriale francese. Comunque sia, Mussolini, da parte sua, non mancò immediatamente di evidenziare, soprattutto nei confronti dei suoi vecchi compagni del PSI ancora ancorati ai superati schemi ante-guerra, la convergenza della sua prospettiva con quella della CGT.

«Lo scopo di questo giornale – scriveva in quell’occasione ‘La bataille syndicaliste’ – dev’essere quello di difendere gli interessi della classe produttrice e di aiutare ad attivare uno sviluppo industriale e commerciale indispensabile. Quando la classe operaia reclama migliori condizioni di vita, essa esprime una teoria di progresso, poiché questa rivendicazione può diventare una realtà solo in quanto ci sia un progresso nello sviluppo economico… Come un Paese avente una classe operaia di livello morale inferiore non può svilupparsi intensamente, così è impossibile a una classe operaia di conquistare condizioni di vita superiori in un Paese di scarso o minore sviluppo economico… La classe operaia deve conquistare con la sua organizzazione la capacità di dirigere la produzione e di diventare, con tali mezzi, più cosciente del compito di penetrazione sociale che le spetta nell’evoluzione della Società. Noi dobbiamo combattere qualsiasi forma conservatrice di pensare o di agire, la cui conseguenza è la stagnazione della produzione e che determina uno squilibrio fra le aspirazioni verso una civiltà superiore e le risorse disponibili. La formula per la classe operaia deve essere il massimo di produzione col minimo di orario per il massimo del salario. Per il padronato il massimo sviluppo dell’attrezzatura per il massimo rendimento col minimo di spese generali. Queste due formule combinate devono assicurare una più grande capacità di consumo a tutta la nazione. La loro applicazione è il punto di partenza di una serie di modificazioni nel modo di vita, dalle quali risulterà una trasformazione profonda nel modo di essere e di agire della nostra popolazione».

Linconcludente velleitarismo del socialismo ufficiale

Nelle condizioni dell’immediato primo dopoguerra, la prospettiva produttivista indicata da Mussolini alla sinistra italiana avrebbe dovuto avere una attenta considerazione se il socialismo ufficiale del PSI non si fosse arroccato su posizioni sostanzialmente antinazionali che se da un lato venivano alimentate dal mito della rivoluzione russa, sicché già si preparava la scissione di Livorno dalla quale nel 1921 nacque il Partito Comunista, dall’altra manifestavano tutto il loro sostanziale velleitarismo rivoluzionario.

Il socialismo ufficiale, messo di fronte alla necessità di scegliere tra una via di riforme sociali da elaborare e sviluppare nell’ambito di una riconosciuta identità ed appartenenza nazionale e la strada, impossibile da percorrere in Italia, della rivoluzione alla russa, scelse la seconda della quale non poté che coltivare una retorica mitologia che impediva alla stessa classe lavoratrice di sfuggire al controllo monopolista del partito e quindi di lottare nel senso della effettiva rivendicazione contrattuale di avanzamenti e miglioramenti sociali.

Dopo una riunione svoltasi il 16 agosto 1921 a Bologna, fu pubblicato un «Manifesto dei Fasci padani» nel quale si poteva leggere: «I fascisti hanno il dovere di proseguire nelle loro opere di organizzazione civile e sindacale che attraverso una armoniosa collaborazione tende ad aumentare la produzione, ad elevare le categorie più umili e a definire gli interessi della Nazione; … questo fine non potrà essere conseguito, fino a che durerà la violenza aggressiva degli avversari, che mirano a detenere il monopolio della mano d’opera, dominandola con l’intimidazione e la forza» (8).

Renzo De Felice, che era socialista, senza cadere nella retorica moralista e auto-assolutoria della «violenza squadrista», così descrive l’inconcludenza del socialismo ufficiale giustamente annoverando agli errori ed alle velleità di tale sinistra, incapace di comprendere la realtà costituita dai ceti medi, la vera responsabilità della vittoria del fascismo: «Il Partito socialista – nonostante avesse uomini come Turati, come Buozzi, come lo stesso Serrati e, su un’altra sponda, come Gramsci – non seppe cogliere il valore di questa nuova situazione e persistette nel suo rivoluzionarismo prebellico, reso ancora più sterile dal sistematico affrontare tutti i problemi sull’esempio russo, sull’esempio cioè di una realtà completamente diversa da quella italiana (…). (Fare propria la nuova situazione post-bellica) avrebbe voluto dire allargare l’influenza del partito a nuovi ambienti sociali, a quella piccola e media borghesia che sino allora il socialismo non aveva saputo legare a sé; arrivare fino ai reduci, ai mutilati che tornavano dalla guerra senza idee chiare ma desiderosi di un radicale mutamento politico-sociale e che – sacrificatisi per quattro duri anni – volevano essere i protagonisti della nuova Italia. «Era l’ora – è… Nenni (l’antico compagno di lotte sociali di Mussolini nel periodo prebellico e che nel 1944 il duce salvò quando fu catturato dai nazisti, nda) a scriverlo – in cui sarebbe stato accolto con entusiasmo un appello dei socialisti ai combattenti, ai mutilati, a quanti avevano subita o accettata la guerra in vista di soluzioni democratiche e nazionali; era l’ora più propizia per un invito ad obliare il passato e a tendere tutte le energie per la conquista di un avvenire di libertà e di giustizia sociale; era per i socialisti l’ora in cui veramente si decideva la sorte, perché una rivoluzione ogni giorno annunciata ed ogni giorno rinviata finisce per essere una rivoluzione vinta». Il Partito socialista, invece, … non seppe spogliarsi della mentalità di guerra. Frustò i progetti di quegli uomini politici, come Nitti, che si proponevano concretamente il problema di inserirlo a breve scadenza nel governo; avversò decisamente il nuovo Partito Popolare che pure si proponeva alcuni obiettivi non certo in contrasto con un programma socialista di rinnovamento democratico e sociale; si disinteressò e anzi avversò, in nome di un astratto principio di classe, i problemi della piccola borghesia, dei ceti medi; e, come ciò non bastasse, favorì coloro che tendevano ad assumere un assurdo e settario atteggiamento contro gli ufficiali e sottoufficiali reduci dal fronte, quasi costoro fossero tutti direttamente responsabili della guerra e, per il solo fatto di essere stati militari, di considerare con orgoglio i sacrifici fatti e di volerli riconosciuti, fossero dei nemici del socialismo. Specie a proposito di quest’ultimo aspetto della politica socialista del primo dopoguerra il giudizio storico non può concedere ai socialisti alcuna attenuante (…). Difficile è dire se dopo la fine della guerra vi siano state in Italia concrete possibilità rivoluzionarie. Quello che è certo e che se vi furono il Partito socialista non poté e non seppe sfruttarle. Non poté sfruttarle perché si era alienato e ogni giorno di più si alienava le simpatie proprio della piccola e della media borghesia (…). Si racconta spesso che Lenin abbia detto ad alcuni delegati socialisti a Mosca che i socialisti italiani si erano lasciati sfuggire l’unico uomo che sarebbe stato capace di fare la rivoluzione in Italia: Mussolini» (9).

Lenin e Mussolini

Non esiste documentazione certissima ma solo diverse ed autorevoli testimonianze circa questa valutazione espressa da Lenin a favore di Mussolini. Tuttavia non deve meravigliare se si provasse che essa corrisponde davvero a verità storica. I due, Lenin e Mussolini, infatti, avevano una concezione simile per quanto riguarda l’idea di come fare una rivoluzione. Entrambi si erano formati in una visione fortemente impregnata di volontarismo e quindi ritenevano necessaria – niccianamente potremmo dire, anche per il capo bolscevico – una élite, una «aristocrazia», rivoluzionaria, ben decisa, che trascinasse le masse, sempre di per sé bisognose di guide e capi e sempre, senza un élite, passive e conformiste, alla conquista dello Stato. Anche Lenin non credeva nel deterministico gradualismo dialettico dello sviluppo sociale verso il comunismo, ipotizzato da Marx. Una prospettiva per la quale bisognava aspettare che il capitalismo fosse giunto al suo punto terminale di non ritorno per vedere divampare la rivoluzione. Preferiva, Lenin, piuttosto l’azione decisa di una avanguardia rivoluzionaria che sapesse realizzare la rivoluzione con un colpo ben assestato. Come in effetti, fece in modo che accadesse, di ritorno dall’esilio, in Russia ponendosi a capo della fazione bolscevica del partito socialdemocratico.

Del resto, le simpatie di Lenin – che non dimentichiamolo era stato esule in Svizzera, ossia in un Paese molto vicino all’Italia, dove molto probabilmente aveva conosciuto Mussolini quando, nel 1902, quest’ultimo dovette a sua volta riparare nella Confederazione Elvetica – per le avanguardie rivoluzionarie italiane si manifestarono anche in occasione dell’impresa di Fiume. Di fronte alla piega sindacalista rivoluzionaria che l’iniziativa di D’Annunzio, inizialmente ispirata da motivi esclusivamente nazionalisti, stava assumendo (con tanto di libertarismo trasgressivo che si manifestò non solo nelle liturgie politiche para-sacrali che si inscenavano nella città istriana ma persino nell’abbondante uso di droghe che si faceva tra i legionari allo scopo di esaltare la forza di rottura della esperienza rivoluzionaria), Lenin non esitò ad inviare a Fiume il proprio commissario agli esteri, Cicerin, con la missione di concordare con D’Annunzio, De Ambris, Giulietti, e gli altri esponenti sindacal-rivoluzionari lì presenti ed operanti, la trasformazione della città in un centro internazionale rivoluzionario. Pare che alla reggenza della città il progetto leniniano non fosse affatto sgradito, ma, poi, le cose precipitarono e giunse il «Natale di sangue» con la repressione dell’insorgenza da parte dell’esercito italiano.

Il ruolo dei ceti medi

Quel che dunque, nella sua transizione dal socialismo vetero-ottocentesco al socialismo produttivistico novecentesco, scoprì Mussolini non fu altro che l’importanza cruciale del ruolo svolto dai ceti medi nell’ambito di una società industriale moderna. Il punto stava nello stabilire se questi ceti medi avessero assunto una posizione anti-proletaria o, invece, si fossero alleati con la classe operaia. Nell’Italia dell’immediato primo dopoguerra la stupidità dogmatica del Partito Socialista spinse i ceti medi, in particolare i reduci dalle trincee, nelle braccia del capitalismo conservatore e tuttavia questa fu una alleanza alquanto innaturale dal momento che per loro natura questi ceti sono più propensi, perché più vicini, ad allearsi con il popolo a patto che la loro leadership politico-sociale, il loro ruolo di guida del processo di trasformazione, non sia messo in discussione dai ceti operai. La parabola del fascismo, che interpretò aspirazioni ed interessi dei ceti medi, è in proposito significativa: nato socialista, costretto ad un precario compromesso con le forze conservatrici che tuttavia non gli impedì di porre le basi dello Stato sociale, chiuse il suo percorso, con la socializzazione delle imprese teorizzata e tentata nella Repubblica Sociale, con un ritorno alle sue origini socialiste ma- secondo l’accezione mussoliniana – «umaniste».

«Se – scrive De Felice – il socialismo del Mussolini socialista maturo, quello cioè del 1912-14, fu soprattutto un socialismo profondamente intinto di sindacalismo rivoluzionario e di vocianesimo – entrambe tipiche manifestazioni di una società in travaglio ed in rapida crescita – il produttivismo corporativo del Mussolini nel 1918-1919 ci pare abbia il suo humus vitale soprattutto nella società industriale (…). I cuori pulsanti dell’Italia in guerra, del fronte interno, inteso nell’accezione più vasta e migliore del termine, (furono)… lo sforzo dell’industria per la guerra (e)… il proletariato industriale (che) si sentì più vicino alla guerra e, nonostante tutto, ne godette i maggiori vantaggi (pieno impiego, esoneri dal servizio militare, aumento dei salari, ecc.); … le organizzazioni operaie … si inserirono nel processo bellico, venendo meno all’intransigenza che era invece alla base della politica socialista e proletaria in genere…» (10).

La sinistra, nel secondo dopoguerra, dimostrò di aver imparato la lezione e, finalmente, si pose il problema dei «ceti medi». Tutta la politica del Partito Comunista e del Partito Socialista, con maggior evidenza nel periodo che va dagli anni Sessanta in poi, è stata una continua ricerca – favorita dalla contestazione sessantottina che fu una rivoluzione piccolo-borghese, anzi dei figli scolarizzati del ceto medio, molto simile nelle aspirazioni al precedente del fascismo di sinistra – dell’alleanza tra classe operaia e ceto medio, in particolare quello impiegatizio ma senza escludere quello autonomo. In questo contesto va letta anche l’amnistia che Togliatti, da ministro guardasigilli, promulgò a favore dei fascisti reduci dalla RSI, nella speranza, non solo di attenuare gli odi della guerra civile, ma anche di conquistare, come in effetti in parte avvenne, al PCI quei giovani fascisti di sinistra che avevano seguito il Mussolini, tornato socialista, a Salò.

D’altro canto, l’amnistia togliattiana permise la nascita del MSI, un partito che, fino alla sua definitiva scomparsa a Fiuggi nel 1996, pur richiamandosi al fascismo sociale, se non addirittura socialista, è vissuto nella contraddizione tra l’appoggio elettorale che gli proveniva da un elettorato borghese di destra, al quale si presentava come il partito autoritario e conservatore d’ordine, e le aspirazioni nazional-rivoluzionarie della sua base giovanile, intrisa di evolismo, guenonismo e mitologia «tradizionale» neopagana (anche se poi, va sottolineato, il meglio di tale gioventù «nazionale» incontrò il Cattolicesimo, magari nella sua forma tradizionalista però, appunto, anti-borghese perché anti-moderna) ma non aliena da rivendicazioni socialiste declinate in un comunitarismo da opporre alla società mercantile secondo la dicotomia sociologica del Tönnies «Gemeinschaft versus Gesellschaft».

(fine terza parte)

Luigi Copertino


Parte 1
Parte 2




1) Filippo Corridoni fu, in Italia, nel primo Novecento il massimo esponente del sindacalismo rivoluzionario. Veniva chiamato «l’arcangelo del socialismo» negli stessi anni nei quali i suoi compagni romagnoli creavano per Mussolini il mito di «duce del socialismo». Corridoni – cui non mancò una suggestione verso il futurismo di Marinetti che nella guerra «sola igiene del mondo» esaltava anche la forza del lavoro e della produzione, aderì nel 1914 all’interventismo di sinistra e, partito volontario in guerra, morì eroicamente al fronte.
2) Confronta Renzo De Felice, «Mussolini e il fascismo», volume I «Mussolini il rivoluzionario 1883-1920», pagine 391-395, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1965.
3) Naturalmente qui Mussolini, come tutta l’opinione pubblica italiana del tempo ancora pregna del «risorgimentalismo» di stampo massonico, dimostra di essere del tutto ignorante della realtà sociale della Germania guglielmina, che conosceva punte di avanzamento sociale ignote ad altri Paesi europei del tempo, e dell’antica Monarchia Asburgica, che era una confederazione di popoli in via di ulteriore sviluppo anche sociale.
4) Citato in R. De Felice, opera citata, pagina 397. D’ora in poi tutte le citazioni degli scritti di Mussolini, salvo diversa indicazione, sono tratti dall’opera defeliciana ricordata, capitolo undicesimo.
5) Le citazioni di Filippo Carli e di Alessandro Rossi di Schio sono tratte da Giano Accame, «La Destra Sociale», pagine 38-39, Edizioni Settimo Sigillo, 1996, Roma.
6) Non tutti sanno che la UIL nasce nell’ambito del sindacalismo rivoluzionario corridoniano in polemica con l’USI (Unione Sindacale Italiana) e la CGL che allora erano i sindacati ufficiali vicini al PSI.
7) Confronta R. De Felice, opera citata, pagina 408.
8) Confronta T. Buron – P. Gauchon «I fascismi», Akrpolis, Napoli, 1984, pagina 42.
9) Confronta R. De Felice, opera citata, pagine 425-427.
10) Confronta R. De Felice, opera citata, pagina 412.


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