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Perchè il Papa non va a Gaza
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Resistono a Gaza, su un milione e mezzo di abitanti, 3 mila cattolici. Abbiamo notizia che aspettano la visita del Pontefice, dall’8 al 15 maggio in Israele, con sgomento e scoraggiamento più che con gioia.

Lo ammette anche il patriarca latino di Gerusalemme, arcivescovo Fuad Twal, in una intervista pubblicata dal sito cattolico Zenit.org il 22 aprile (1):

«E’ vero che  la comunità cristiana locale, palestinese, ha espresso e ci ha manifestato il suo disorientamento, i suoi interrogativi e i suoi timori»,  esordisce il patriarca. Ma subito cerca di difendere il viaggio: «Il programma è ben bilanciato nei suoi momenti dedicati alla Giordania, alla Palestina e a Israele, abbiamo finito per riconoscere che questo viaggio non poteva che essere un bene, una benedizione per tutti».

Aggiunge poi: «Le ansie - o direi anche le angosce - che avete menzionato sono, per certi versi, legittime», ma vengono dai cristiani di Palestina. «La realtà dei cristiani israeliani e, a fortiori, quella dei cristiani giordani, è totalmente diversa: loro vedono la visita del Papa sotto tutt’altra luce. In una diocesi che vive realtà a tal punto diverse, noi dobbiamo sforzarci di avere una visione più ampia di questa visita, e considerarla in tutte le sue dimensioni: quella politica, quella sociale, quella umana e quella religiosa. Ma è innegabile che questi tre punti permangano: il Santo Padre verrà in un momento difficile - soprattutto dopo la guerra di Gaza -, in una regione difficile, per render visita a una popolazione molto sensibile».

All’inizio, il povero prelato cerca di dire che il viaggio è anzitutto «un pellegrinaggio». Ma un pellegrino non incontra le autorità civili, gli ribatte l’intervistatore. Il patriarca concede: «Non dobbiamo ingannare noi stessi: c’è una dimensione politica al 100%. Ogni cosa avrà una connotazione politica. Qui, noi respiriamo politica, il nostro ossigeno è la politica».

Alla replica: il viaggio dunque non sarà interpretato come un sostegno a Israele in quanto Stato? Il patriarca, sempre cercando di giustificare la visita e il perchè il pellegrino salti Gaza, espone alcune ragioni: «Il Santo Padre ha il coraggio di fare il primo passo, nella speranza di poter migliorare i rapporti tra Santa Sede e Stato d’Israele». Poi: «Immaginate le conseguenze negative per l’industria dei pellegrinaggi, che per noi è vitale, se il Papa stesso avesse paura di venire!». E ancora: «Si doveva aspettare che la questione palestinese fosse risolta? Temo che passeranno due o tre Pontefici, prima che sia risolta...».

E’ la descrizione molto realistica della situazione, che è disperata. E’ verissimo che i 3 mila cattolici vivono della «industria dei pellegrinaggi», dell’accoglienza dei pellegrini che visitano i luoghi dove passò Gesù, delle offerte e dei piccoli acquisti che essi fanno. Senza quelli, la comunità cristiana muore fisicamente, e il pericolo presente è che Israele soffochi anche questo esile contatto col mondo, e piccolo mezzo di sussistenza. La soluzione della tragedia dei palestinesi, visto come si comportano i giudei, non è prossima. Dunque bisogna sopravvivere, resistere.

Lo conferma l’ultima «ragione» data dal Patriarca: «Più il Vaticano sarà amico di Israele, più potrà sfruttare quest’amicizia per far avanzare la pace e la giustizia»; altrimenti, «ci rimettiamo tutti, come cristiani e come arabi».

E’ un’ammissione lucida e agghiacciante: esprime la perfetta consapevolezza di aver a che fare con uno Stato-canaglia, che ha tutta la forza dalla sua ed è notoriamente capace di usarla senza alcun rispetto per le religioni e senza alcuno scrupolo di umana comprensione o pietà. Uno Stato che bisogna cercare di rabbonire, di rendersi amico, perchè altrimenti può cancellare ogni presenza cristiana in Terra Santa.

Tale presenza è appesa a un filo, come sa il Papa o almeno il Vaticano («Lo teniamo costantemente informato», dice il patriarca). Dunque, c’è una ragione, un motivo serio, per non irritare Giuda. Un motivo che non sottovalutiamo.

Ogni volta che gli ebrei hanno avuto il potere - nell’URSS sovietica e durante il golpe dei Giovani Turchi (che erano ebrei sabbatei) - hanno operato per la cancellazione del cristianesimo: radendo al suolo chiese, distruggendo i contadini ucraini, sterminando i cristiani armeni, a milioni. Oggi, il messianismo israeliano cova il disegno di rendere Gerusalemme non già «luogo di preghiera per tutte le genti», ma proprietà esclusiva del talmudismo sionista; spazzare via cristiani e musulmani dai loro luoghi santi, ricostruire il Tempio, far trionfare la sua «religione» nella «sua» terra. E hanno i mezzi per farlo.

Ma il tentativo di rabbonire questo Stato «della promessa», oggi trionfante di tutte le armi e di tutti gli appoggi internazionali, pone il Papa nello stesso dilemma di cui la propaganda israeliana accusa Pio XII: quel Papa «ha taciuto» di fronte al nazismo, ha lasciato sterminare gli ebrei, si è fatto complice...

Sappiamo che è una menzogna. Ma la giustificazione che si dà da parte cattolica (tepidamente) sull’operato di Pio XII, è che - se avesse denunciato pubblicamente il Terzo Reich - non avrebbe ottenuto alcun beneficio, anzi avrebbe provocato la persecuzione della stessa Chiesa, ciò che avrebbe reso impossibile salvare migliaia di ebrei, che trovarono rifugio nei conventi e sotto le protezioni vaticane. Secondo alcuni storici, lo stesso Papa rischiava la prigionia.

Ora è lo stesso dilemma. Il Papa d’oggi vuole (deve?) tacere la verità su Gaza (questo «grande campo di concentramento», come ha detto il cardinal Antonio Martino), perchè la reazione del Reich del nostro tempo sarebbe spietata, senza fruttare alcun vantaggio per coloro che opprime. I cristiani sarebbero messi in miseria dal blocco dei pellegrinaggi (Sion ha tutti i mezzi per impedirli); i prigionieri di Gaza, sarebbero ancor più ferocemente schiacciati. Le chiese e i beni ecclesiastici sarebbero, come suole fare Israele, espropriati.

Il giudizio su questa prudenza lo lasciamo volentieri a Dio: grati che non saranno gli ebrei a giudicare i Papi (gli ebrei secondo cui Pio XII doveva parlare, e Benedetto XVI deve tacere) e nemmeno nessuno di noi, ma il Giudice finale infallibile scrutatore di ogni cuore, in verità e carità.

Nell’aldiquà che è temporaneo, da giornalisti (mestiere temporaneo), ci limitiamo a registrare che la decisione di saltare Gaza rende sgomenti i palestinesi. C’è un giornalista di nome Nicolas Nasser (un cristiano, evidentemente) che dice (2): come possiamo capire che il Papa che è stato ad Auschwitz per pregare per la gente uccisa lì, «come dovere alla verità e a coloro che hanno sofferto»,  non senta lo stesso dovere verso i sofferenti di Gaza? Quella popolazione, ormai da nove anni manca d’acqua e di cibo, non ha lavoro dentro e non può uscire fuori; per anni, prima di essere massacrata nella «guerra» dei mesi scorsi, è stata tenuta insonne dai boom sonici di aerei giudaici a bassa quota: un’invenzione di crudeltà e bassezza che i nazisti non hanno mai nemmeno pensato.

Le ragioni di sicurezza (la scusa del Vaticano) non reggono. Persino Ban Ki-Moon, il segretario generale dell’ONU, è andato a Gaza nei giorni del fuoco per constatare i danni del bombardamento che ha distrutto il magazzino dell’UNFPA, con tutte le riserve alimentari di soccorso, ed ha protestato pubblicamente. Altre personalità internazionali, da Desmond Tutu a Gerry Adams, hanno preteso e ottenuto di visitare Gaza; Hamas non ha certo minacciato attentati contro di loro (e perchè avrebbe dovuto?).

La verità tristissima è che al Papa lo Stato ebraico ha vietato di entrare a Gaza, perchè una visita del genere può apparire un riconoscimento di Hamas.

Si tratta di una prudenza certo ben motivata, data la qualità dei persecutori, e il timore di quel che possono ancora fare di peggio. Ma all’opinione pubblica, non potrà non apparire ambigua, se non vile. E moralmente dannosa per la Chiesa (e per l’onore di Cristo, aggiungo).

Non è una speculazione. L’Independent del 5 maggio – il giornale britannico ha preso fortissime posizioni contro le atrocità israeliane - ha un articolo dal titolo: «Ciò che il Papa non vedrà» (3) (traduzione a breve nella sezione worldwide).

Il giornalista, Donald McIntyre, si è messo in coda, alle cinque del mattino, con i palestinesi che al posto di blocco di Betlemme aspettano di entrare nel territorio ebraico, per lavorare. Betlemme è in Cisgiordania, dunque nel «libero» territorio dell’Autonomia palestinese. Molti si sono alzati alle 3 del mattino. Sicchè si forma una calca nervosa ed esasperata quando i soldati ebraici aprono l’entrata, e  tutti spingono per essere i primi a sottoporsi alla «lunga serie dei controlli di sicurezza israeliani, con le carte d’identità, i permessi di lavoro», e a farsi assoggettare alla «impronta biometrica della palma».

Questo è l’inizio di un «viaggio» di pochi metri, ma che può durare un’ora «se tutto fila liscio, fino a tre se qualcosa va storto, e magari finire lì» se agli aguzzini va di chiudere il valico. Se tutto va bene, il viaggio porta gli uomini a Gerusalemme, con la prospettiva privilegiata di una dura giornata di lavoro in un cantiere edile israeliano.



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Checkpoint of Gilo




Il Papa entrerà a Betlemme da questo stesso valico di Gilo; ma quando arriverà, alle 8, la fila tumultuante degli uomini che cercano di scavalcarsi nella fila, per paura di perdere il lavoro (i loro cellulari già squillano, il padrone giudeo già li chiama: dove diavolo sei!), e se ne saranno andati i venditori di pane al sesamo e scatolette di tonno, il cibo che questi lavoratori si porteranno sul lavoro, se ci arrivano. E’ un bell’affare, per i venditori di caffè e di cibarie ambulanti: ogni mattina, si ammassano lì 2 mila potenziali clienti.

Quasi tutti si sono alzati alle 3, e alcuni sono venuti con dei cartoni per dormire un po’ mentre fanno la fila. «Non vedo mai i miei figli», confida al giornalista Azed Attallah, un uomo di 45 anni: «Quando io esco, dormono; quando torno, stanno già dormendo».

Molti non sono di Betlemme, sono arrivati lì da villaggi distanti, ammassandosi nei taxi collettivi nel cuore della notte. Sono - devono essere, per ottenere il permesso di lavoro - tutti sopra i 30 anni, sposati e con almeno un figlio. Una volta al di là del posto di blocco, aspettano un «caporale» che li arruoli per la giornata, o prendono un autobus (o più bus) per raggiungere il cantiere.

E questi sono i privilegiati, dice il giornalista: «Almeno gli è consentito di lavorare in Israele, ciò che nessun abitante di Gaza ha il permesso di fare, nè la maggioranza degli abitanti di Cisgiordania.
A meno che non lo faccia illegalmente, cosa che il Muro rende ormai impossibile. La disoccupazione è sul 20%, e le paghe in Cisgiordania sono sulle 12-14 sterline al giorno. In Israele, si può guadagnare anche 30-40 sterline a giornata.

«Al tempo dell’ultima visita papale nel 2000, (quando Giovanni Paolo II andò a chiedere perdono, ndr), gli abitatnti della Cisgiordania col permesso di lavorare in Israele erano circa 140 mila. Oggi sono solo 26 mila. Una causa fondamentale del disastro umanitario, secondo Timothy Williams, dell’agenzia ONU per i rifugiati».

C’è una ragazza ventenne, Rawan Khartoush, maestro elementare che lavora in una scuola mista cristiano-musulmana a Gerusalemme Ovest. Come donna, può usare la «corsia umanitaria» (serve per i malati gravi da ricoverare). Ma capisce bene le liti che scoppiano fra gli uomini nella corsia comune.

«Sono soggetti al semaforo, verde o rosso. Aspettano anche in 300 che il semaforo diventi verde; anche per tre ore, per poi magari essere rimandati indietro» perchè i soldati, se gli gira, chiudono.

«E’ umiliante».

«Dovrebbero fare più valichi ed aprirli prima», dice Read Saharma, 33 anni. Ma allora dove andrebbe la sicurezza di Israele?

Un altro, Abu Ayesh, replica: «Amico, chi usa questo valico ha i permessi. Ciò vuol dire che è stato esaminato dallo Shin Bet (la sicurezza interna sionista). Non siamo un pericolo per la sicurezza. E’ solo per umiliare».

Ci sono anche dei cristiani in fila. «No, non credo che la visita del Papa porterà alcun cambiamento», dice uno di loro, Nicola Abu Saqer, 44 anni. «E’ un’autorità religiosa, non politica.
Gli israeliani gli prepareranno un po’ di propaganda, come fanno per gli altri visitatori stranieri».

A Gaza è peggio. Ancora il 4 maggio, soldati Israeliani hanno sparato a un bambino di 12 anni che giocava all’aperto a Beit Hanoun, ferendolo. La gravità del bambino (si chiama, o chiamava, Ayman Shamiyya) non è nota, perchè i soldati che gli hanno sparato l’hanno poi preso e portato via.

Nello stesso giorno, truppe israeliane hanno dato fuoco ai raccolti, grano e orzo, di campi di proprietà palestinese a Juhor Ad-Dik, nel sud della Striscia di Gaza. Il 2 maggio, un bombardamento aereo israeliano nel sud di Gaza ha ucciso due ventenni, che probabilmente stavano scavando un tunnel.

Il primo maggio, un cristiano palestinese, Samer Andrea Karkar, è stato ricoverato dopo essere stato pestato selvaggiamente dalla polizia israeliana. Karkar abita nella via del Patriarcato Latino a Gerusalemme Est, ed è stato aggredito presso il negozio e il ristorante di cui è proprietario. In questi giorni, ai residenti palestinesi è vietato passare per quella strada, con il pretesto che viene rinnovata per la visita del Papa. L’uomo ha cercato di convincere i poliziotti a lasciar tornare a casa sua sorella, col suo bambino che le dormiva in braccio; per tutta risposta, è stato gettato a terra e picchiato, tanto da doversi ricoverare nell’ospedale di Hadasa a Gerusalemme (4).

Sono cose che si devono vedere, altrimenti non ci si crede. Non si può credere che questo avvenga nei nostri giorni. Certo, se il Papa avesse preteso con forza di vedere Gaza, le condizioni di questi martoriati sarebbero state rese più dure.

Ma è anche dubbio che l’acquiescenza alla crudeltà ebraica ottenga dei risultati: non è mai successo in questi anni. Anzi, il tavolo del mezzo-concordato che la Santa Sede spera di stipulare con Israele è sempre stato fatto saltare, dagli israeliani.

Fedele al detto evangelico, «non spezzerà la canna fessa, nè spegnerà il lume che fumiga», la Chiesa non rompe mai; cercò di farlo anche con il regime sovietico, e la Chiesa del Silenzio fu ridotta a un silenzio più totale, e si sentì abbandonata.

Bisogna aver pazienza anche stavolta. Tacere la verità orribile, per non pregiudicare la povera «industria dei pellegrinaggi» che fa sopravvivere la comunità cristiana, sperando di aver restituiti gli immobili rubati, di non essere cacciati per sempre dal Santo Sepolcro.

Spero che si taccia per il bene degli uomini, non per le pietre. Esser pellegrini a Gerusalemme è bello, commovente e frutta anche l’indulgenza plenaria. Ma se succederà che quella presenza - come prevedo - finirà per essere impedita, nonostante ogni acquiescenza, mi conforta una cosa: quel Sepolcro non ci serve. E’ vuoto.
«E’ risorto, non è qui».




1) L’intervista integrale si può leggere nella versione italiana (edulcorata) al sito http://www.zenit.org/article-17938?l=italian.
2) Nicola Nasser, «When, where the Pope inspires no hope», Desertpeace, 4 maggio 2009.
3) Donald MacIntyre, «What the Pope won’t see…», Independent, 5 maggio 2009.
4) Fonte: Ma’an News agency, 1,2, 4 maggio 2009.


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