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Cielo, il protezionismo!
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Come se il commercio globale non fosse (com’è più che mai) una lotta di pirati condotta con ogni mezzo, ma una terza classe elementare ben obbediente, l’Unione Europea ha alzato la manina per lamentarsi: «Signora maestra, gli altri scolari fanno i protezionisti!».

La lagnanza si trova in un comico rapporto che la UE ha diffuso il 6 giugno scorso. Qui l’Eurocrazia, in veste di prima della classe della globalizzazione, «fa rilevare un aumento considerevole del protezionismo su scala mondiale; negli ultimi otto mesi sono state introdotte 123 nuove restrizioni (alla penetrazione nel proprio mercato di merci estere), sicchè il numero totale delle misure restrittive si eleva ormai oggi a 534». (Forte montée du protectionnisme au sein du G20: L’Union européenne tire la sonnette d’alarme)

Non manca la spiata agli alunni cattivi, che fanno quella cosaccia sotto il banco. Sono indicati col dito:

«L’Argentina, (che) ha recentemente esteso l’applicazione di nuove procedure costrittive di pre-registrazione a tutte le importazioni di merci». Stop all’import libero e selvaggio.

«L’India, importante produttrice di cotone, ha vietato l’esportazione di cotone grezzo». Insomma: volete cotone indiano? Venita in India a filarlo e a tesserlo, con investimenti diretti. E create qui valore aggiunto.

«La Russia prepara attualmente una normativa che prevede una preferenza per i veicoli di fabbricazione nazionale nel quadro dei mercati pubblici». Non come i carabinieri italiani che viaggiano in Land Rover e i meritevoli governanti italiani che preferiscono le BMW.

Dietro la lavagna i tre. Ma il rapporto eurocratico è costretto a lamentarsi anche «dei 31 principali partner commerciali della UE fra cui sono Paesi del G-20», insomma quelli che dovrebbero dare l’esempio di liberismo globale agli altri discoli. Segue delazione nominativa: «Africa del Sud, Algeria, Arabia Saudita, Argentina, Australia, Bielorussia, Brasile, Canada, Cina, Corea del Sud, Egitto, Equador, Stati Uniti, Hong Kong, India, Indonesia, Giappone, Kazakhstan, Malaysia, Messico, Nigeria, Pakistan, Paraguay, Filippine, Russia, Svizzera, Taiwan, Thailandia, Turchia, Ucraina e Vietnam».

Ma allora chi è rimasto nel gruppo degli obbedienti al dogma liberista del mondo senza dazi? Si ha l’impressione che la lista, se fosse stilata, sarebbe molto più breve di quella dei ribelli sopra citata. Forse, magari, si riduce solo alla UE?

Bisogna subito denunciare la cosa al più grosso della classe, gli Stati Uniti, quelli che hanno imposto a tutti la libera circolazione di merci – uomini – capitali... Ah no, pardon: gli USA hanno appena annunciato delle tasse fino al 250% sui pannelli solari importati dalla Cina, e si prepara a gravare di un dazio fino al 26% gli impianti eolici Made in China; su denuncia per concorrenza sleale delle ditte americane del settore. (Après les panneaux solaires, les Etats-Unis s'en prennent aux éoliennes chinoises)

Cosa che dovremmo (ma lo diciamo sottovoce) fare anche noi. Sembra passato un secolo dal 2001, quando per compiacere una mezza dozzina di multinazionali e qualche banca d’affari americana, il presidente Clinton fece entrare Pechino nel WTO, aprendole i mercati occidentali, ancorchè la Cina non rispettasse (nè rispetti tuttora) nessuna delle regole del gioco del libero-scambismo globale: a cominciare dalla libera fluttuazione della sua valuta sui «mercati» sulla base della domanda, che ne provocherebbe una rivalutazione punitiva ma equilibratrice per il suo export. E per finire con il rispetto dei brevetti altrui e della protezione della proprietà intellettuale, che i fabbricanti cinesi violano bellamente.

Sarà stata la comparsa sui mercati di un I-Phone migliorato (la batteria si cambia facilmente) che però si chiama «Hi-Phon» ed è prodotto in una delle 30 mila fabbriche che, nel delta del Fiume delle Perle, si dedicano alla contraffazione dei prodotti occidentali; e non è più nemmeno semplice contraffazione, ormai in Cina il vasto «ecosistema Shan Zhai» (nome di un’antica fortezza di banditi che teneva in scacco le truppe imperiali, una sorta di fortunati pirati di terra) produce innovazione di secondo livello, migliorando i prodotti occidentali che copia. Fatto sta che Washington ha da tempo perso la pazienza col suo gigantesco socio d’affari e creditore in globalismo, e ritorce quando può (o lo chiede il business) con dazi proibitivi.

Insomma: tutti i giganti industriali e finanziari avevano giurato di non ripetere l’errore del 1929 – quando una catena di protezionismi competitivi aveva congelato il commercio mondiale nel suo complesso, aggravando la depressione e la miseria; ed oggi, gli stessi giganti tornano ad alzare qua un dazio, là una barriera doganale. La teoria e il dogma sono una cosa, ma la realtà (e la pressione sociale dei produttori) è un’altra. Dopotutto, sono tanti i Paesi che guardano all’esempio dell’Argentina, che dopo aver ripudiato il debito sovrano, ha anche violato il tabù anti-protezionista: d’accordo, l’inflazione è alta, ma il Fondo Monetario stesso deve riconoscere (a denti stretti) che nel 2012 l’Argentina cresce del 4,3%, una percentuale che l’Europa, con al collo la pietra dell’euro e il mercato di consumo aperto alle merci cinesi, può ben invidiare.

Del resto, non è il solo dogma che la gravissima crisi ha infranto. Negli ultimi mesi, la UE ha visto infrangersi praticamente tutti i miti illuministi su cui s’è costruita. L’idea che le nazioni stessero per cancellarsi passivamente in un omogeneo superstato amministrativo anonimo: invece caratteri e vizi nazionali prorompono in tutti i modi, ineliminabili, minacciando l’unità europea o (ancor peggio) subordinandola alla nazione col maggior peso specifico ed egoismo patrio, l’Urvolk tedesco – che l’artificiale costruzione europea mirava appunto a neutralizzare. L’altro mito da illuministi-banchieri, che dare una moneta a nazioni diverse ne avrebbe provocato l’integrazione «come sottoprodotto tacito e quasi occultato» (Padoa Schioppa dixit) si sta spezzando davanti ai nostri occhi: l’euro dis-integra le realtà europee, e rinfocola storiche ostilità e diffidenze.

Il terzo mito illuminista e tecnocratico che Rockefeller espresse così dopo una riunione del Bilderberg nel 1991: «La sovranità di unelite intellettuale e dei banchieri mondiali è preferibile allautodeterminazione nazionale che si praticava nei secoli passati» – è stato smentito clamorosamente, purtroppo a nostro danno: il governo dei banchieri è il più rovinoso e irresponsabile; e quello dei tecnocrati è supremamente incompetente e dilettantesco – vedi il governo Monti.

Questa ideologia fatta a tavolino subisce i colpi d’ariete della realtà. Fra cui il deplorato protezionismo – buono o cattivo che sia – ricorso ultimo delle nazioni quando la crisi economica diventa socialmente pericolosa. In anni lontani, la Trilateral derise i popoli e i politici che «vivono in un universo mentale che non esiste più: un mondo di nazioni separate». Adesso è l’eurocrazia, prima della classe ed ultima rimasta fedele al liberismo globale, a vivere in un universo mentale che non esiste più. Quello dove le nazioni non sono protezioniste, e si fanno invadere di merci straniere per il bene dell’Idea.



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