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Il potere occulto dell’alta finanza sul mondo moderno
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Introduzione

I Rothschild non si limitarono - come invece ritengono erroneamente alcuni autori - alla pura affaristica; infatti, attraverso essa mirarono alla conquista dell’egemonia culturale e politica non solo europea, ma anche mondiale a partire dagli Stati Uniti d’America, dei quali avevano fiutato l’importanza economico/politica sin dalla metà dell’Ottocento.

Inoltre, altri storici ritengono che l’Ebraismo postbiblico si sia immerso nella gestione finanziaria mediante il prestito di denaro, solo perché vi fu spinto e quasi costretto dalla Chiesa.

In quest’articolo cercheremo di vedere 1°) il ruolo dei Rothschild come mecenati; 2°) il loro affacciarsi sulla scena americana per poter dirigere non solo l’Europa ma il mondo intero, attraverso il dominio dell’alta finanza sulla politica governativa; 3°) l’influsso che esercitarono sul Risorgimento italiano; 4°) il rapporto tra Giudaismo talmudico e prestito bancario; infine 5°) la risposta del Cristianesimo alla piaga dell’usura.

I Rothschild in America nell’epoca post-napoleonica

Passata la bufera napoleonica, i banchieri di Francoforte cominciarono a guardare oltre l’oceano Atlantico, “scegliendo d’inviare in America non un proprio diretto esponente, bensì un uomo di fiducia, che si era fatto le ossa presso la banca di famiglia, tale August Belmont, anch’egli ebreo di Assia. Belmont fu spedito a New York, di lì cominciò l’ascesa di quest’altra grande famiglia, indissolubilmente legata ai Rothschild per molti anni” (P. Ratto, I Rothschild e gli Altri, Bologna, Arianna Editrice, 2015, p. 18).

I Rothschild mecenati

Occorre prendere atto che i Rothschild non si occuparono solo di finanza, ma una volta raggiunto un enorme potere bancario essi iniziarono l’attività di mecenati, senza i quali gli intellettuali non potrebbero svolgere, in tutta tranquillità, la loro opera  dottrinale.

Certamente non si può ridurre tutta la storia a pura “economia”, ma non si deve neppure sottovalutare il potere dell’alta finanza anche nella vita culturale. Senza le ricchezze della famiglia Medici di Firenze, ad esempio, i vari cabalisti dell’Umanesimo e del Rinascimento toscano non avrebbero potuto filosofeggiare e diffondere le loro dottrine in gran parte dell’Europa, ma neppure si deve ritenere che la storia umana sia scritta solo dal potere dell’oro, anche poiché esso è finalizzato, spesso, al potere politico e culturale, in breve al dominio del mondo intero. Per fare un esempio, la Scuola di Francoforte, senza l’oro dei grandi banchieri, non avrebbe potuto teorizzare, e poi mettere in pratica, il Sessantotto; ma tutto l’oro delle banche, senza le teste pensanti di Adorno e Marcuse, non sarebbe riuscito a trasformare la faccia della terra, com’è successo dopo il maggio del Sessantotto. I Rothschild, come vedremo in appresso, non si sono limitati a riempire i forzieri delle loro banche, ma poi hanno “investito” anche nelle idee, che hanno rivoluzionato la storia umana del XIX e XX secolo e hanno portato l’alta finanza a dirigere segretamente il mondo tramite le comparse del mondo politico, che oramai è al servizio dei banchieri. Parimenti senza il potere sovversivo della dottrina cabalistica e talmudica, l’oro dei banchieri non avrebbe avuto tutto il potere dissolutore di ogni ordine e valore, che ha potuto dispiegare lungo il corso degli ultimi tre secoli.

Già nell’Ottocento i Rothschild, soprattutto in Francia, commissionarono numerose opere liriche di Gioacchino Rossini, sostennero il poeta Heinrich Heine, il pittore Jean-Auguste Dominique Ingres, il musicista Fryderych Chopin come pure Felix Mendelssohn, essi allora erano comunemente ritenuti “i Medici del XIX secolo”.

…Ma innanzitutto banchieri …

Tuttavia non perdevano l’abitudine di dirigere la finanza europea, senza la quale non avrebbero avuto nessun potere sulla cultura e la politica governativa. Infatti, essi finanziavano già nel 1830 la corona imperiale austriaca, investendo nelle fonderie dell’Impero d’Austria. Poi iniziarono a investire nell’oro, acquistando importanti miniere auree in Spagna. Nel 1840 la N. M. Rothschild & Sons era la principale fornitrice di lingotti d’oro della Banca d’Inghilterra e nel 1852 acquistò stabilmente la gestione della zecca reale inglese. Quando il Belgio ottenne l’indipendenza, James Rothschild spiegò ai suoi soci: “Alla soluzione della questione belga seguirà una forte richiesta di fondi […] dovremo allora approfittare di quel momento per diventare i padroni assoluti delle finanze di questo Paese” (B. Gille, Histoire de la maison Rothschild, Ginevra, Droz, 1965, I vol., p. 299).

I Rothschild e il Risorgimento italiano

Casa Savoia, nella seconda metà dell’Ottocento, per portare a termine l’unità d’Italia ricevette, prima, un cospicuo finanziamento dai Rothschild francesi e, poi, anche da quelli inglesi, poiché Cavour non riusciva e rendere il denaro ai primi e dovette chiederlo ai secondi.

Inoltre l’impresa dei Mille, capitanata da Garibaldi, fu finanziata anch’essa dai Rothschild, aiutati dalla massoneria britannica che erogò tre milioni di franchi per far sì che si ponesse fine al potere temporale dei Papi (cfr. P. Ratto, I Rothschild, cit., p. 20).

I Savoia si arricchirono depredando il Regno delle due Sicilie, che era assai ricco e possedeva prima dell’unità d’Italia, i due terzi (443 milioni di ducati) del patrimonio economico dell’intera Italia (667 milioni di ducati), mentre il patrimonio dei Savoia ammontava a soli 27 milioni (Il Giornale, 21 novembre 2005, p. 12).

I Rothschild, i Leonino e le banche dell’Italia unita

Con il Risorgimento la famiglia israelitico/piemontese dei Leonino (originaria di Casale Monferrato) penetrò a fondo all’interno della vita finanziaria dell’Italia unita; infatti, Abram David Leonino (1804-1875) divenne consigliere della Banca Nazionale di Sardegna (che era un risultato della fusione della Banca di Torino con il Banco di Genova), la quale, successivamente, confluì nella Banca d’Italia assieme alla Banca Toscana di Credito e alla Banca Nazionale Toscana, alla Banca Romana, al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia. La famiglia Leonino era imparentata con alcune grandi famiglie di banchieri israeliti, ossia con gli Oppenheimer, con i Rothschild, con i Warburg e con i Montefiore (cfr. P. Ratto, Rockefeller e Warburg, i grandi alleati dei Rothschild, Bologna, Arianna Editrice, 2019).

I Leonino s’imparentarono con i Rothschild mediante due matrimoni, il primo tra il nipote di Abram David Leonino, Emanuel David Berend Leonino (1864-1936), figlio di Joseph Leonino (1830-1894), che sposò nel 1894 la nipote di James Rothschild di Parigi, Berthe Juliette (1870-1896). Il secondo matrimonio con i Rothschild fu contratto dal nipote di Abram David Leonino, Abram David Leonino junior (1867-1911), figlio di Sabino Leonino († 1889), che si maritò con Jeanne Rothschild (1874-1929), la pronipote di Nathan Rothschild di Londra. “I Leonino, dunque, in qualche maniera possono essere considerati la testa di ponte per il controllo della nascente Banca d’Italia, sia per i Rothschild di Francia che di quelli d’Inghilterra” (P. Ratto, I Rothschild, cit., p. 22).

I Rothschild e i Romanov

Infine i Rothschild s’imparentarono anche con gli Zar di Russia; infatti, Hubert de Mombrison (1892-1981), imparentato sia con i Rothschild sia con i Leonino, si sposò con la principessa Irina Palovna Paley (1903-1990), nipote dello Zar Alessandro II, nonno di Nicola II alla cui rovina e assassinio contribuiranno i Rothschild finanziando la Rivoluzione bolscevica del 1917.

I Rothschild e la Restaurazione

Terminata l’epoca napoleonica, la famiglia Rothschild consolidò, direttamente, durante la Restaurazione, il proprio potere finanziario (iniziando la costruzione delle prime ferrovie in molte parti d’Europa e investendo nei trasporti via treno) e, indirettamente, anche politico in Europa.

Quest’argomento lo tratteremo nella prossima puntata, ora cerchiamo di veder quale fosse la relazione tra l’usura e il Giudaismo talmudico e quale sia stata la reazione della Chiesa al problema posto dagli usurai.

Banche, usura, Ebraismo e Cristianesimo

Il Giudaismo, il cui scopo sarebbe stato quello di far conoscere il Messia, Gesù di Nazareth, al mondo intero, Lo rifiutò, trasformandosi così da Giudaismo mosaico o vetero-testamentario in Giudaismo talmudico o anticristiano. Il Vangelo ci ha insegnato che la sventura del Giudaismo incredulo nel Messia fu quella di avere creduto di poter ottenere la salvezza non tramite il Messia Gesù, ma grazie al suo sangue, alla sua razza.

Questo è il mistero dell’Israele deicida. Il Giudaismo che rifiuta il Messia, diventa un’ideologia perfida e iniqua, la quale durante la storia non potrà che perseguitare i Cristiani come il Sinedrio aveva perseguitato Gesù Cristo, poiché siccome la ragion d’essere di questo popolo era Gesù Cristo, esso sarà dopo la sua morte o con Lui o contro di Lui. Di qui l’inimicizia del Giudaismo post-biblico verso il Cristianesimo.

San Paolo ha rivelato: “Gli Ebrei hanno ucciso il Signore Gesù e i Profeti, ci hanno perseguitato, non piacciono a Dio. Sono nemici di tutti i popoli, impedendoci di predicare ai Pagani per la loro salvezza” (I Tess., XI, 15).

L’inimicizia che il Giudaismo nutre verso il Cristianesimo è qualcosa di più di quella puramente naturale che esso ha per tutti gli altri goyim, infatti essa è teologica; poiché il Giudaismo che rifiuta Cristo cercherà inevitabilmente di nuocere ai Cristiani, di corromperli e d’impadronirsi dei loro beni.

La risposta del Cristianesimo al problema ebraico fu, dunque, il “Diritto di eccezione” e non il “Diritto comune”, perché il Giudaismo si considera un “popolo a parte o eccezionale” e non si mischia con i popoli che lo ospitano nella sua diaspora. Quindi, il Giudaismo deve essere governato con un “Diritto eccezionale” o specificamente rivolto a esso e non con una legislazione comune a tutti gli altri uomini e popoli, che vengono ospitati in un’altra nazione cristiana. Gli Israeliti, anche se naturalizzati in una nazione (per esempio, la Francia) si sentono sempre Israeliti (e non Francesi); essi saranno sempre una nazione dentro una nazione. Quindi le nazioni veramente cristiane non concedevano al Giudaismo il “Diritto comune” poiché esso non vuol rinunciare al suo essere sempre Israele. Per questo motivo uno Stato cristiano concedeva agli Israeliti un “Diritto speciale o di eccezione”.

Le conclusioni pratiche che la Chiesa ha tratto da questi princìpi sono state: 1°) aver sconsigliato il matrimonio tra Cristiani ed Ebrei; 2°) aver negato la piena libertà di residenza e di circolazione agli Israeliti, perché essi avrebbero cercato, se non riconosciuti e se lasciati totalmente liberi, di nuocere ai Cristiani, perciò furono sottomessi a limitazioni di residenza e di circolazione dovendo essere riconoscibili; 3°) aver negato la totale libertà di commercio e fu soprattutto in questo campo che la legislazione della Chiesa fu più stretta e severa, proprio per rendere difficile agli Israeliti di nuocere ai Cristiani. Quindi, si cercò di limitare gli Israeliti nel campo degli affari, lasciando loro l’attività agricola[1]; 4°) aver negato o ristretto la possibilità per gli Israeliti di esercitare l’arte medica o farmacologica nei confronti dei Cristiani e non assolutamente (essi potevano essere medici e farmacisti di altri Israeliti, ma non di Cristiani), come pure quella giudiziaria o militare, poiché facilmente essi ne avrebbero approfittato per nuocere alla salute o ai diritti dei Cristiani.

Uno dei mezzi ebraici, per nuocere ai Cristiani, sarebbe stato quello d’impossessarsi dei loro beni materiali, mediante l’usura, avendo avuto una speciale propensione ad accumular denaro, una speciale abilità negli affari e avendo avuto, già nel Vecchio Testamento, il permesso di prestare a usura ai non Ebrei (Deut., XXXIII, 20). Gli Ebrei, come insegna San Tommaso d’Aquino, “erano afflitti anche tra di loro da un’avarizia molto forte. Perciò era conveniente tollerare che prestassero a usura ai non-ebrei piuttosto che ai loro consanguinei” (S. Th., II-II, q. 78, aa. 1-4). Il super-capitalismo bancario e il collettivismo socialista ne sono la prova, infatti questi due sistemi rendono la quasi totalità degli uomini poveri e quasi schiavi di un unico padrone, la banca o il partito.

Col ritorno del Paganesimo e l’indebolimento dello Stato cristiano, verso la fine del Trecento, la Chiesa dové intervenire in concreto per mettere un freno alla piaga dell’usura che aveva iniziato a rendere poveri e schiavi i Cristiani, vediamo come …

La risposta della Chiesa all’usura delle banche: i “Monti di Pietà”

I Monti di Pietà nascono come enti pubblici dove, posta una somma di denaro come fondo o riserva, si concede una parte di questa stessa somma di denaro come mutuo o prestito a chi ne ha bisogno, per lo più ai poveri, in proporzione di un oggetto prezioso che colui il quale chiede il mutuo depone al Monte di Pietà, a condizione che la somma prestata sia restituita, al tempo che è stato fissato (normalmente un anno) il dì del prestito, per riottenere l’oggetto impegnato o depositato con un leggero interesse unicamente allo scopo di ammortizzare le spese dei Monti di Pietà e mantenerli in vita di modo che non vadano falliti[2]. Dopo il tempo pattuito, se il mutuo non viene restituito, il pegno è venduto e l’eventuale sovrappiù va a chi ha ottenuto il prestito (mutuatario), mentre l’equivalente del prestito va al fondo del Monte di Pietà.

«Lo scopo di Monti di Pietà è di prestare denaro in cambio di un pegno, con un pagamento minimo di un tenue contributo, per coprire le spese di mantenimento di esercizio del Monte e dei suoi impiegati, per combattere l’usura e venire in aiuto delle classi meno abbienti. […]. La fondazione dei Monti di Pietà fu un’innovazione importantissima dal punto di vista sociale, sorta attorno al Quattrocento […] se ne avvantaggiarono quanti non avevano solide garanzie da offrire e sarebbero stati costretti a ricorrere agli usurai» (Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1952, vol. VIII, col. 1378 e 1380, voce “Monti di Pietà”).

Il pagamento di un contributo minimo (circa il 4%) da parte di chi aveva ricevuto il prestito o mutuo (mutuatario) era fatto per sovvenire al mantenimento del Monte di Pietà e al pagamento del salario dei suoi impiegati e non per lucro o interesse da parte del Monte e quindi per usura. Infatti, gli scolastici consideravano, a partire dalla dottrina economica di Aristotele[3], il denaro solamente un semplice mezzo di scambio, in sé improduttivo, quindi ogni interesse o guadagno proveniente dal mero prestito di denaro era considerato usura[4].

Lo scopo dei Monti di Pietà è di evitare che chi chiede il prestito cada nelle mani degli usurai[5] e delle banche, le quali prestano a interessi leciti legalmente, ma moralmente ingiusti (30-35% circa[6]) e quindi in realtà anch’esse sono usurai legalizzati[7].

I Francescani riformati del XV secolo (il Beato Bernardino da Feltre, S. Giacomo della Marca, S. Bernardino da Siena) idearono e attuarono i primi Monti di Pietà a scopo caritativo; questi concedevano assistenza ai bisognosi mediante mutui quasi gratuiti con il riscatto di un pegno. Essi erano chiamati anche Montes Christi o Deposita Apostolorum per distinguerli dalle banche a scopo lucrativo[8].

Il primo Monte di Pietà nacque nel 1462 in Umbria a Perugia ad opera del padre Michele Càrcano, poi se ne aprirono altri in Orvieto nel 1463, in Toscana, in Romagna, nell’Italia settentrionale e quindi in tutta Italia.

I fondi erano costituiti dalle pie elargizioni lasciate dai fedeli facoltosi ai Francescani. Poi, una volta venutasi a formare una consistente e sufficiente disponibilità di denaro liquido, chi ne aveva bisogno ne faceva richiesta, depositando come pegno al Monte di Pietà un oggetto prezioso che veniva stimato in denaro corrispondente, con l’impegno di restituire al tempo stabilito la somma di denaro pattuita e ricevuta. Allo scader del tempo il mutuatario restituiva la somma di denaro con l’aggiunta di un piccolo interesse del 4% circa l’anno[9] per mantenere in piedi il Monte di Pietà, che sfruttava il lieve guadagno per sovvenire alle spese che il Monte doveva sostenere (impiegati, mantenimento della casa…). Il resto aumentava i fondi permettendo di prestare ancor di più ai bisognosi, senza ulteriori interessi che non dovevano superare il 4%. Se il pegno non veniva richiesto o non poteva essere riscattato, dopo un tempo ulteriore allo scader di quello pattuito, era venduto e il prezzo ricavato entrava nel fondo del Monte per il mutuo ai poveri.

Per il primo Monte di Perugia (1462) le regole erano tre: 1°) il mutuo doveva darsi solo ai poveri, e non ai benestanti, in piccola quantità e non per oltre un anno; 2°) chi riceveva il mutuo doveva depositare presso il Monte un pegno, valutato e custodito dai responsabili del Monte stesso. Dopo un anno se il mutuo non veniva restituito, il pegno era venduto e l’eventuale sovrappiù andava al mutuatario, mentre l’equivalente del prestito andava al fondo del Monte di Pietà; 3°) i mutuatari dovevano dare un modico interesse (il 4% circa) unicamente per il giusto salario dei dipendenti del Monte  e per le altre spese (affitto, mantenimento della casa, pulizie, restauri…).

Se all’inizio solo i poveri potevano ottenere il mutuo, col passar del tempo e la crescita dei fondi dei Monti si concessero mutui anche alle autorità civili, qualora vi fossero delle necessità pubbliche, ma sempre all’interesse minimo (4%). Il sopravanzo veniva reinvestito dai Monti in altre opere pie (ospedali, scuole, mense, ostelli per i poveri…).

Liceità morale dei Monti di Pietà

La nascita dei Monti di Pietà suscitò molte dispute, soprattutto tra i Domenicani (contrari ai Monti) e i Francescani (favorevoli).

Infatti, il Concilio di Vienna (1311, DB 749) aveva proibito l’usura ed anche il minimo guadagno per il prestito di un bene di scambio o “fungibile” come lo è il denaro. Ora i Monti prestavano denaro e guadagnavano un minimo da tale prestito. Quindi i Domenicani ritenevano l’attività dei Monti del tutto illecita e usuraia, mentre i Francescani obiettavano che il guadagno non derivava dal prestito del denaro, ma dal contributo dovuto al pagamento del mantenimento e funzionamento dei Monti con i loro dipendenti.

Secondo la Teologia scolastica solo due fonti possono dare un lucro lecito: la natura o la sostanza (albero da frutta, terreno, casa…) e il lavoro (seminare, irrigare, mietere, potare, raccogliere, fare i conti, insegnare…). Ora nel caso dei Monti di Pietà vi è la casa in cui si concede il mutuo e i dipendenti che vi lavorano facendo i conti. Inoltre vi sono tre eccezioni, che confermano la regola e che rendono lecito il guadagno sul mutuo di una cosa in sé infruttuosa come lo è il denaro: 1°) se ne subisco un danno (non ho più il milione che ho prestato, con cui potevo comprare una casa); 2°) se cessa il lucro che ottenevo dalla cosa prestata (la mia famiglia deve pagare l’affitto poiché non ho acquistato la casa); 3°) se corro il pericolo di non riavere il bene che ho prestato (Tizio è poco serio e forse non vorrà restituire il dovuto). In questi tre casi si ha il diritto di esigere qualcosa, ma non in forza del mutuo o prestito o dell’uso del denaro, bensì per motivi estrinseci al mutuo in quanto tale o all’uso del denaro (cfr. R. Billuart, Cursus Theologiae. Tractatus de contractibus, diss. IV, a. 5 § 4, che cita in suo favore sant’Antonino, Gaetano, Ferrariensis).  

Benedetto XIV nella parte teorica della sua Enciclica Vix pervenit (1° novembre 1745) ha confermato le leggi precedenti e le dovute eccezioni che confermano la regola: «Dal prestito, per sua natura, si esige che sia restituito solo ciò che fu prestato. Se si chiede più di ciò che si prestò, pretendendo che oltre il capitale sia dovuto un certo guadagno in ragione del prestito stesso, vi è usura. […] Non si nega che talvolta nel contratto di prestito possano intervenire alcuni altri titoli esterni al mutuo stesso […] e che da essi derivi una ragione lecita per chiedere qualcosa in più del capitale che si prestò» (Benedetto XIV). Mentre nella parte pratica dell’Enciclica il Papa mitiga la disciplina, senza cambiare la dottrina, sull’usura o sul concetto di denaro, perché «questo cambiamento viene attribuito  alle condizioni economiche e ai titoli estrinseci moltiplicati. La dottrina tradizionale resta però sempre immutata» (F. Roberti - P. Palazzini, Dizionario di Teologia Morale, Roma, Studium, 4a ed., 1968, 2° vol., p. 1738).  

Il CIC (1917) can. 1543 sanziona tale principio nella prima parte del canone citato: «Se un bene viene dato a qualcuno in proprietà perché lo restituisca più tardi nello stesso genere, da questo contratto non è lecito prendere nessun guadagno in ragione dello stesso contratto [“ratione ipsius contracti”]». Tuttavia dopo aver ribadito in teoria, nella prima parte del canone, la dottrina tradizionale sulla sostanza o natura del mutuo, la seconda parte del canone parla, in pratica e in concreto, delle circostanze estrinseche al mutuo: «Nel prestito della cosa fungibile, non è illecito mettersi d’accordo su un guadagno ammesso dalla legge, eccetto che non consti essere sproporzionato» (cfr. F. Roberti - P. Palazzini, op. cit., pp. 1739-1740) perché se vi è sproporzione e guadagno diretto solo dall’impiego del denaro vi è usura.  

I canonisti e i moralisti scesero in campo e attaccarono battaglia. Il padre agostiniano Nicola Boriano pubblicò un libro intitolato De Montibus Impietatis,(Cremona,1494). Addirittura anche il famoso teologo domenicano cardinal Tommaso de Vio, detto il Cajetanus, scrisse un Tractatus de Montibus Pietatis nel 1498 e si schierò contro i Monti. Il francescano Bernardino da Bustis scrisse un libro titolato Defensorium Montis Pietatis contra figmenta omnia del 1497, in cui condannava l’usura in quanto guadagno derivante dal solo prestito di denaro e dall’intento di arricchirsi col prestito, però siccome i Monti non ricavavano denaro dal prestito, ma solo dal pagamento del mantenimento delle loro case e dei loro impiegati e non avevano alcuna intenzione di arricchirsi, ma solo di impedire lo sfruttamento dei poveri da parte dei veri usurai, il mutuo praticato dai Monti non era illecito né usuraio, ma era il giusto guadagno per un opera prestata (affitto di una casa, stipendio di un impiegato ragioniere…).

Dovette, quindi, intervenire il Magistero ecclesiastico e papa Leone X (1513-1521), nel V Concilio Lateranense (sessione X, maggio 1515, DB 739), discusse la liceità del prestito ad interesse. Il Concilio e il Papa decretarono che, siccome il guadagno veniva ai Monti di Pietà non dal prestito del denaro, ma dal dovuto pagamento del giusto salario agli impiegati e delle spese per la conservazione materiale del Monte, tale guadagno era del tutto lecito e non usuraio. Fu così che i Monti di Pietà si diffusero in tutta Europa. Pian piano però iniziarono a degenerare e a diventare vere e proprie banche che prestavano denaro e guadagnavano dal prestito stesso in maniera sproporzionata, ossia ben oltre il 4%. Dopo il Settecento e soprattutto dopo l’epoca napoleonica, i Monti furono sottratti alla Chiesa, che esigeva ancora la chiusura del Monte richiedente un interesse superiore al 4% (si tollerava un massimo del 6%), e divennero strumento di prestito ad alto interesse (30-35%).

Importanza pratica dei Monti di Pietà

I Monti di Pietà ci fanno capire in pratica quale sia l’importanza della vera economia e politica contro la falsa affaristica e partitica.

Aristotele[10] parla della politica come di una scienza architettonica, la quale coordina e dirige tutte le altre scienze pratiche (l’economia, il diritto, la medicina, l’edilizia, ecc…), che essa applica per regolamentare la convivenza pacifica della comunità[11]. Quindi l’economia deve essere subordinata alla politica, la finanza allo Stato.

Nello stabilire la gerarchia della Prudenza pubblica San Tommaso d’Aquino distingue tra loro e mette al primo posto la politica, che è la virtù di Prudenza ordinata al bene comune dello Stato; poi l’economia, la Prudenza che si occupa del bene comune della casa o della famiglia; infine la monastica, la Prudenza che si occupa del bene comune di una singola persona[12].

Economia significa “governo della famiglia o del focolare domestico” (dal greco “òikos, casa” e “némein, governare”)[13]. La ricchezza o il benessere materiale ha rapporto con la Prudenza economica non come Fine ultimo, ma come causa strumentale in ordine al raggiungimento del Fine ultimo, ossia la ricchezza è un mezzo di cui la famiglia si serve per vivere virtuosamente e unirsi a Dio (S. Th., II-II, q. 50, a. 3, ad 1; ivi, q. 47, a. 12).

Sempre per l’Angelico è del tutto lecito avere un’ordinata sollecitudine per procurare il necessario per sé e per la propria famiglia ed anche in previsione delle necessità future (S. Th., II-II, q. 55, a. 6, ad 2; ivi, a. 7). Solo la preoccupazione disordinata dei beni materiali è riprovevole poiché antepone i beni terreni a quelli ultraterreni.

L’Economia classica (cfr. S. Th., II-II, q. 47, a. 11; ivi, q. 50, a. 3; Commento all’Etica di Aristotele, lez. 1). Il suo rovesciamento è l’Affaristica moderna (contro cui son stati eretti i Monti di Pietà), che è l’arte di arricchirsi come Fine ultimo dell’uomo e delle famiglie. Se alla sana Economia familiare segue l’ordine sociale o la Politica tradizionale, che si fonda sul Diritto naturale, all’Affaristica segue la Plutocrazia, che è il governo della Finanza su questo mondo in vista dei beni di questo mondo et non plus ultra.

Di qui la necessità di studiare e mettere in pratica la vera Economia (v. Monti di Pietà) e di distinguerla dalla sua degenerazione che è la moderna Pecuniativa, Affaristica o Finanziaria (v. Banche e Usura).

Se per Aristotele la moneta aveva solo una funzione di scambio con i beni di natura e non poteva mai essere mezzo di guadagno (Etica, V, 10, 1933a 20; Politica, III, 13, 1257a 35), per San Tommaso (S. Th., II-II, q. 77, a. 4; ib., q. 78, a. 1) è lecito negoziare e guadagnare attraverso il commercio, vendendo un bene naturale ad un prezzo moderatamente più caro di quello a cui si è comperato (“lucrum moderatum”). Infatti, se il commerciante ha apportato delle migliorie al bene comprato o si è esposto a dei rischi nel trasporto della merce, è giusto che la rivenda ad un prezzo proporzionatamente più alto di quello a cui l’ha pagata. Il guadagno, in questo caso, è il compenso di un lavoro e non una ruberia. Se invece si commercia solo per procurarsi guadagno, senza corrispondenza alle necessità della vita e al lavoro svolto nella compra-vendita, allora vi è un disordine poiché porta alla cupidigia del lucro, che non ha fine, ma tende all’infinito. In questo senso il commercio non è più Economia, ma Affaristica, Crematistica o Pecuniativa e contiene una certa malizia in se stesso (“quamdam turpitudinem habet”) in quanto non è ordinato a nessun fine onesto o necessario, ma è fine a se stesso (cfr. Aristotele, Politica A, 3, 1258b 10 ss.; S. Tommaso, Commento alla Politica di Aristotele, lez. 7-8; B. Meerkerlbach, Summa Theologiae Moralis, II, n. 538).

Nel De regimine principum (lib. I, cap. 15) l’Angelico spiega che affinché l’uomo possa vivere virtuosamente son richieste due cose: “L’azione virtuosa in sé e una presenza sufficiente di beni materiali il cui uso è necessario per vivere bene”.  Ebbene con i Monti di Pietà si è voluto sovvenire a questo secondo elemento della conduzione familiare. Infatti “per ottenere la felicità imperfetta in questa vita sono necessari anche dei beni materiali, non come essenziali alla felicità, ma in quanto servono come strumenti per ottenere la felicità di una vita virtuosa. In questa vita l’uomo che è composto di anima e corpo deve poter provvedere anche al mantenimento dei suoi bisogni materiali” (S. Th., I-II, q. 4, a. 7).

Per l’Aquinate (S. Th., I-II, q. 9, a. 1) siccome la moneta è stata inventata per facilitare gli scambi, servendo da misura per la compra-vendita (S. Th., I-II, q. 9, a. 1), per natura essa è uno strumento (e non un fine) ordinato ad aiutare l’uomo a procurarsi i beni sufficienti richiesti per sé e per la sua famiglia affinché possano vivere virtuosamente. Quindi è contro la natura della moneta se la produzione e la distribuzione dei beni di natura dovessero conformarsi alle esigenze della produzione della moneta, mentre l’ordine naturale è tutto il contrario, ossia la moneta - come misura stabile del valore dei beni di natura - deve conformarsi a facilitare lo scambio dei beni prodotti (cfr. Cajetanus, De cambiis, cap. 5).

Conclusione

Come si vede esistono due concezioni diametralmente opposte dell’uomo, della famiglia e dello Stato. Da una parte la Plutocrazia o il Regno di Mammona e delle Banche, che fa della ricchezza materiale il fine ultimo dell’uomo e sottomette sia l’individuo che lo Stato alla Finanza. Il suo “dio” è l’oro. Dall’altra parte vi è la vera e sana Economia, la quale dirige con Prudenza la famiglia o il focolare domestico al suo fine prossimo (ordine interno e benessere temporale) subordinatamente al Fine ultimo (Dio conosciuto, amato e posseduto).

La Dottrina sociale della Chiesa propone come rimedio possibile a tanto sfacelo (Plutocrazia/Collettivismo/“Banco-crazia”) l’unica via che si deve e si può percorrere: la Frugalità contro il Consumismo che spinge a spendere e spandere, indebitarsi e rovinarsi l’esistenza ecco, dunque, qual è la necessità dei Monti di Pietà contro la banca e l’usura.

d. Curzio Nitoglia

Fine Della Terza Parte

Continua



[1] Come si vede è l’esatto contrario di quel che si dice comunemente, ossia che la Chiesa abbia lasciato agli Israeliti l’attività finanziaria, proibendo loro tutte le altre attività.

[2] Cfr. F. Roberti – P. Palazzini, Dizionario di Teologia Morale, Roma, Studium, IV ed., 1968, vol. II, p. 1061, voce “Monti di Pietà”, V edizione EFFEDIEFFE 2018.

[3] Aristotele, V Ethic., c. 5, lect. 9; I Pol., c. 3, lect. 7.

[4] S. Tommaso d’Aquino, S. Th., II-II, q. 78, aa. 1-4. 

[5] A.   Bernard, D. Th. C., voce “Usure”, vol. XV, coll. 2323 ss.; D. Prümmer, Manuale Theologiae moralis, II vol., p. 245; F. De Vitoria, Commentarios a la Seconda Secundae de sancto Thomàs, Salamanca, 1934, t. III, p. 236 ss.; E. Degano, voce “Usura”, in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1954, vol. XII; G. Aspiazu, L’uomo d’affari, Roma, 1954; M. Mastrofini, Le Usure, Roma, 1831; J. Pieper, Sulla Giustizia, Brescia, 1956.

[6] Per esempio se chiedo in prestito a una banca la somma di 100 mila euro, dopo un anno le debbo i 100 mila euro più 30-35 mila euro, dunque l’interesse ammonta ad un quarto della somma ricevuta.

[7] In un certo senso le banche sono più pericolose degli usurai poiché questi ultimi possono essere denunziati, mentre le banche no.

[8] Cfr. P. Ballerini, De Montibus Pietatis, Bologna, 1747; F. Zech, Rigor moderatus doctrinae pontificae circa usuras, Venezia, 1763; L. Degani, I Monti di Pietà, Torino, 1922; A. Sapori, Enciclopedia Italiana, Roma, 1929-1937, vol. XXXIII, coll., 725-727, voce “Monti di Pietà”; G. Barbieri, Saggi di Storia economica italiana, Napoli, 1948; E. Degano, Mutuo e usura in Benedetto XIV, Roma, 1960.

[9] Per esempio se chiedessi in prestito a un Monte di Pietà la cifra di 100 mila euro, dopo un anno gli dovrei i 100 mila euro più 4 mila euro. Ora ciò significa dover contribuire con circa 330 euro il mese al pagamento del giusto salario dei dipendenti e delle spese per la manutenzione materiale del Monte, senza alcun lucro da parte sua. Mentre il prestito concessomi dalla banca mi farebbe esborsare circa 10 volte tanto, ossia circa 3000 euro al mese per il lucro della banca, meno circa 330 euro per la giusta paga degli impiegati e il mantenimento dell’edificio e dunque con un guadagno notevole, che deriva dal denaro prestato e non dal contributo al mantenimento del Monte e dei suoi impiegati, di oltre 2. 500 euro il mese da parte della banca. E questa è usura.

[10] Etica Nicomachea, I, 1106b 36; ibidem, I, 1099a 6; ib., II, 1107a 22-23; ib., X, 1174a 2-8.

[11] S. Tommaso, Commento alla Politica di Aristotele, Bologna, ESD, 1999, pp. 38-39.

[12] S. Th., II-II, q. 47, a. 11, sed contra.

[13] Aristotele, Polit., A, 3, 1253b, 8-14 e San Tommaso d’Aquino, S. Th., II-II, q. 47, aa. 11-12; ib., q. 50, aa. 1-3.


 
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